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Vattimo e le aporie della Kenosi
di Marco Baldino


26 ottobre 2014


Si parta pure dalla considerazione secondo cui la secolarizzazione sarebbe il presupposto storico della desacralizzazione del divino, la desacralizzazione implica a sua volta la messa in crisi del volto autoritario di Dio — il Dio dell’Antico Testamento. Appoggiarsi all’antropologia filosofica di Girard può sembrare, come in effetti dev’essere sembrato a Vattimo (Credere di credere, Garzanti, 1996), una buona mossa per dare sviluppo a queste tesi. Lo studioso francese è infatti noto per aver esplicitato il meccanismo vittimario e per aver asserito che Gesù non si sarebbe incarnato per fornire al Padre una vittima adeguata alla sua ira, ma per demistificare il nesso tra violenza e sacro. Gesù sarebbe venuto al mondo non per essere la “vittima perfetta”, il cui sacrificio vale a soddisfare pienamente il bisogno di giustizia di Dio per il peccato di Adamo, quanto piuttosto per dissolvere il concetto della violenza del sacro. Ebbene, in Girard, giusto o sbagliato che sia, permane, a tutto tondo, il mito dell’incarnazione e quindi l’idea di un rapporto Dio-mondo di tipo discensivo, di un sistema di riferimento verticale, fatto dei punti alto/basso, su/giù, celeste/terrestre e, quindi, e in forma semplicemente occultata, sacro/profano, numinoso/mortale e questo a noi pare non del tutto adeguato allo spirito dei tempi, se, come sembra, questo era il problema.

Tale punto di vista è fatto proprio da Vattimo il quale, a ulteriore sostegno della propria tesi, si richiama a quella tradizione teologica che nella Kenosi ha il suo fulcro. Kenosi è termine che in teologia indica la rinuncia del Cristo alla propria divinità nel momento in cui questi si sarebbe consegnato alla carne. L’origine del concetto si trova nella Lettera ai Filippesi. Qui San Paolo sostiene che Gesù, pur possedendo la natura divina, non avrebbe però inteso valersene, decidendo invece di annientarsi, o indebolirsi se si vuole, diventando uomo. La teologia kenotica riconosce cioè in Cristo il Dio che rinuncia alla propria onnipotenza o che accetta di ridurla intenzionalmente per farsi uomo.

In questa prospettiva, secondo Vattimo, Cristo verrebbe a presentarsi come il Dio dal volto umano, il Dio che guarda agli uomini non come a servi ma come ad amici. È un dato tuttavia che la teologia kenotica non si sogna nemmeno di negare che questo Dio è e resta il disceso dal cielo, il disceso la cui rinuncia è anche ciò che necessariamente rinvia alla sua numinosa sovranità. Il Dio kenotico è forse il Dio “scandaloso” che si fa uomo, che con questo gesto compie la suprema rinunzia per diventare il Dio amico, ma — anche se non è chiaro fino a che punto ciò valga anche per Vattimo — è e resta il Figlio di quel Padre, il succedaneo (gennethénta, cioè generato) che non esce dall’identità (homooùsia) col Padre. L’ortodossia nicena è salva.

Ciò che appare invece certo è che in Vattimo funziona una sorta di meccanismo di “urbanizzazione” della rivelazione per cui l’umanizzazione di Dio nella figura del Nazareno viene a significare qualcosa come la pura possibilità di potersi confrontare con un “dio dal volto umano” o, almeno, il “rifiuto della religione naturale in quanto violenta”. In realtà, per adeguarsi allo spirito dei tempi, se questi sono i tempi in cui la verità si temporalizza (Hegel), si localizza o, peggio, si nega (Nietzsche), non sembra del tutto sufficiente prendere le distanze dalla religione naturale o dal volto burbero del Dio dell’Antico Testamento. C’è qualcosa che passa attraverso l’oscurità di un’esistenza priva di verità che non si lascia blandire dall’urbana e amichevole soteriologia di Vattimo.

Potrebbe essere necessario liquidare la teologia kenotica stessa, e ciò per una serie di motivi che crecherò di elencare, almeno sommariamente. In primo luogo non si tratta di una messa in crisi del volto autoritario di Dio, o del Dio che si manifesta nelle potenze minacciose della natura, perché il compito che i tempi ci assegnano non è quello di democratizzare un’immagine ancora troppo autoritaria di Dio o di civilizzare l’immagine di un Dio ancora troppo primitiva. In secondo luogo non si tratta nemmeno di liquidare il nesso tra violenza e sacro, perché non è la violenza che fa problema nel sacro. Il problema sta nella Kenosi stessa, nell’idea di svuotamento, di rinuncia, di riduzione intenzionale, e ciò non già perché Dio sia in realtà, e di contro, saldo nella sua pienezza, deciso nell’affermazione della sua esistenza, intenzionalmente fermo nella sua sovranità, ma perché proprio la Kenosi implica, comunque la si voglia intendere, l’incombenza, almeno virtuale, del suo contrario: il rinvio a una superanea e originaria pienezza, la quale, lo si voglia o no, è ancora potentemente ‘cosmica’, impenetrabilmente ‘sacra’ e narrativamente ‘mitica’. Il problema è liquidare non il volto autoritario di Dio, ma il suo volto numinoso, non la violenza nel sacro o il sacro in quanto inscindibile dalla violenza, ma il sacro in quanto tale, in quanto non rispondente all’immagine umanizzata di dio o, per meglio dire, all’immagine di un dio umanizzato, di un dio umano perché immanente all’uomo e umano, ancora, in quanto immanente alla condizione esistenziale estrema dell’uomo, che non è urbana e amichevole, ma dolente e contratta nello scacco.

Paradossalmente si avvicina di più, a questa prospettiva, la teologia dialettica, che invece Vattimo avversa, con la sua dottrina del salto nella fede per accedere al Dio totalmente Altro rispetto all’uomo e al mondo, con l’indispensabilità, da questa individuata, del darsi senza remore a un Dio assoluto, trascendente, imperscrutabile, in qualche modo lontanissimo, di cui gli uomini non sono meritevoli se non per grazia. Sì, i dialettici hanno ragione su questo punto, il Dio inscenato da Gesù invita a un distacco radicale dal mondo, è lontano dalle possibilità dell’uomo, è assolutamente altro dalla sua medietà, ad esso si accede solo per svuotamento di sé e per imitazione di un’inimitabile. Ma si tratta, evidentemente, di ripensare la trascendenza, non più come un’oltremondanità celeste, bensì come punto di singolarità nello spazio antropologico assoluto — direi che non a caso la figura di Gesù è così straordinariamente circondata da tutta un’accozzaglia di rifiuti: lebbrosi, ciechi, cadaveri, esattori, ladri, traditori, puttane, folli, invasati, bambini, sediziosi, pescatori, predicatori, è un’immagine insopprimibile, è qualcosa che ricorda l’inferno della condizione umana, ed è di lì, da quell’inferno, trascendente la commensurabilità media del mondo umano, che proviene anche il divino.

Ritengo che i tempi suggeriscano molto più che un semplice indebolimento kenotico. Credo che si tratti di liberare il cristianesimo per un’avventura nell’immanenza, di liberarlo, per esempio, dalla dogmatica trinitaria, di ridefinire il divino, la trascendenza e la salvezza su base immanentistica. Fare di Gesù il dio immanente è una sfida superiore a quella che ne vuol fare l’immagine indebolita del Dio, potente, dell’Antico Testamento.

Alla fine, tuttavia, non si può non essere d’accordo con Vattimo almeno su un punto, che i Vangeli non vanno accettati alla lettera o, per meglio dire, non vanno accettati dentro l’ingessatura della dogmatica ecclesiastica, qualsiasi essa sia, e che bisogna invece sforzarsi di capire che senso i testi evangelici hanno per me, qui e adesso. È la vittoria del libero esame sul principio del magistero ecclesiastico. In questo, anche Vattimo, è debitore di un gallo allo spirito della Riforma.


Pierre tiré des eaux, évangéliaire de Saint-Bertin, Flandres, XII sec.



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