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Prendere sul serio il cristianesimo
di Marco Baldino

14 marzo 2017*



Che vorrà mai dire fare sul serio con il cristianesimo? Paolo ha fatto sul serio e Paolo gonfia, trincia, spacca, interpreta in un modo che definire strong sarebbe solo un pallido riconoscimento della violenza ermeneutica con cui interviene nelle cose altrui (penso al piccolo manipolo di proseliti smarriti e assai più propensi a farsi riassorbire dal giudaismo che non a correre per il mondo a fondare nuove chiese). Questa imminente resurrezione dei morti, che ruggisce nell’ombra apocalittica della mentalità giudaica, Paolo la forza a tal punto da farne un paradosso parresiastico. Che Gesù sia resuscitato è certamente un paradosso (1 Co. 2, 14), ma il termine “paradosso” non rende appieno l’assurdo che la resurrezione introduce sul piano della riflessione. Se guarire una malattia implica l’introduzione in un quadro che si mantiene, di un nuovo che prima non c’era (la salute), “risuscitare” da morte significa fare in modo che ciò che è accaduto “in realtà” (la morte è per definizione l’irreversibile), non sia “in realtà” mai accaduto, oppure accaduto e non accaduto insieme, oppure non accaduto solo in quanto accaduto, e così via; significa sospendere la validità delle leggi cosmiche, introducendovi un alius che non può avere né lo stesso senso, né la stessa consistenza ontologica di tutti gli altri esseri. Propriamente parlando, Gesù, che in quanto è l’uomo di Nazareth è senz’altro Esserci, in quanto risorto non lo è più, non ha più la morte come possibilità più propria, non è un progetto gettato.

Ma proprio questo paradosso, per Paolo viene a fungere da assioma di sistema per i chiamati [kletoîs]: data la resurrezione, è certificato il kérygma — a Paolo importa poco la biografia di Gesù, poco gli importa dei lógia, delle storie di questo ’Am Ha-Àretz rappresentato secondo la carne. Solo il paradosso della croce può rompere la crosta della massa religioso-sacerdotale, e rabbinica, stratificatasi in secoli di revisioni, di aggiustamenti, di letture cavillose e solo il paradosso può rompere il circolo euristico della mentalità filosofica (abbiamo presente come Paolo si rivolge ai cristiani di Corinto?). Paolo, così elusivo quando deve spiegare la natura della resurrezione, diventa ferreamente logico quando la fa agire, quando si tratta di attestarne il funzionamento di macchina soterica, di dimostrare il kérygma: Dio, il Padre, e Gesù, cui spetta la signoria del mondo — signore del mondo vuol dire signore al posto di Satana, vuol dire che il mondo, pieno di male perché c’è dolore e pieno di dolore perché c’è la morte (cfr. S. Quinzio, «Male e dolore», in La fede sepolta, Adelphi, Milano 1978), verrà dato in dote al Cristo — in quanto risorto, in quanto vincitore della morte e del dolore (Eb. 2, 14) e, in quanto vincitore della morte, del nulla di senso (anche il dolore è preferibile al nulla — cfr. S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 82) è costituito in qualcosa di divino (il Figlio) all’atto stesso della resurrezione (Rm. 3, 4).

Gesù, questo nato di donna, è risorto. Quindi la macchina soterica sussiste, la salvezza è vera, possiamo sperare senza coltivare retropensieri, possiamo sperare senza riserve, possiamo abbandonarci a Dio la cui unica parola è la croce, accogliendo questo assurdo. Certo, ma accogliere questo assurdo significa anzitutto consegnarsi ad esso, farne una prassi, e questo, credo, è l’unico modo serio di considerare la famosa “serietà” del cristianesimo. Non è affatto sufficiente invocare l’onnipotenza dell’Onnipotente per attestare la resurrezione, bisogna arrivare ad ammettere che proprio con la resurrezione l’Onnipotente ci mette in una situazione pratica paradossale. Per dirla con Karl Barth, il presupposto insolubile che unisce e fonda la comunità cristiana è la sophía apò theoú, una sapienza che è di e da Dio, non l’anthropínen sophían, il sapere umano. In questo senso, il filosofo non ha più nulla da dire, è meglio che taccia. Per Paolo ci si salva solo vincendo lo spirito di gravità e questo comprende i biotiká, gli istinti naturali (bisogna superare l’uomo naturale), ogni ethos estraneo alla comunità cristiana (meglio l’ingiustizia, meglio lasciarsi defraudare che ricorrere all’etica del di-fuori), ma anche l’anthropínen sophían: ci si salva solo consegnandosi alla moría, alla stoltezza della croce, la quale soltanto è sophía apò theoú. È un circolo folle, beninteso: divenire in-naturali, divenire im-morali, divenire idioti [идиот], divenire Dio.

* Prima pubblicazione Kasparhauser | Teolgia, 4 marzo 2013

El Greco, Apostle St Bartholomew, 1610-1614



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