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Die Heimreise: Heidegger e Hebel
di Francesca Brencio

19 settembre 2012




Il fatto che il pensiero allontana ciò che è vicino, o meglio, si ritrae da ciò che è vicino e avvicina le cose lontane, è un elemento decisivo per riuscire a comprendere con chiarezza la dimora del pensiero.

Hannah Arendt*

Heimatlosigkeit significa nella lingua tedesca “senza patria”. È un’espressione precisa che rimanda all’assenza di una dimora e che si connota con il tono di uno smarrimento esistenziale.

«Wir irren heute durch ein Haus der Welt» – «Noi erriamo oggi nella casa del mondo» (1), dice Heidegger, poiché ci manca il linguaggio. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo va cercando una dimora da abitare e una parola da pronunciare; nella sua ricerca egli erra nel mondo come un’ombra straniera persino a se stessa. Il tempo della mancanza del linguaggio è il tempo della povertà, il tempo dell’epoca storica in cui l’essere si cela; essa è un’epoca contrassegnata da un limite linguistico inteso come un limite verso l’apertura storica dell’essere stesso.

Eppure «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo» (2). Pur essendo quanto di più proprio caratterizzi l’uomo, in quanto co-esistenziale del Dasein, il linguaggio è quanto di più lontano l’uomo riesca ad esperire.

L’abuso linguistico e l’usura delle parole attestano e confermano questa mancanza originaria. La parola contemporanea è figlia di uno sfruttamento: essa ha perso il potere di radicare l’uomo nella cosa che indica e con questa perdita ha estromesso l’uomo dalla sua originaria linguisticità. «Nell’epoca attuale si porta al predominio sempre più decisivo un altro rapporto con la lingua a causa della fretta e della grossolanità del parlare e dello scrivere quotidiano. Perché noi crediamo che anche la lingua, come tutte le altre cose quotidiane con cui abbiamo a che fare, sia solo uno strumento e più precisamente lo strumento della comunicazione e dell’informazione […]. L’idea della lingua come strumento di informazione si spinge oggi fino all’estremo. Si ha una conoscenza di questo processo ma non si pensa al suo senso […]. Il rapporto dell’uomo con la lingua si sta trasformando in un modo la cui portata non possiamo comprendere ancora. Il percorso di questa trasformazione non si può arrestare immediatamente ed inoltre si svolge nel silenzio assoluto» (3). Questa contraffazione del linguaggio ha come effetto quello di ridurlo a mezzo di comunicazione e di informazione calcolabile, al punto tale che esso «è trattato come un oggetto manipolabile a cui la forma del pensiero deve adeguarsi» (4).

L’usura linguistica di cui Heidegger si fa interprete è un tema di riflessione complesso: la denuncia della deficienza del linguaggio e della manipolabilità che l’uomo compie a suo discapito sono solo la parte più appariscente di una riflessione che affonda le sue radici all’interno della domanda sul senso dell’essere. In tal senso, la povertà linguistica è strettamente connessa alla povertà metafisica ed all’impossibilità storico-destinale di pensare l’essere. Proprio con Sein und Zeit Heidegger aveva fatto esperienza della povertà linguistica, sebbene in quel contesto si trattasse del linguaggio metafisico; l’incompiutezza dell’opera del 1927 scontava l’inadeguatezza del linguaggio metafisico e più in generale del rapporto dell’esserci con il linguaggio. L’opera rimase incompiuta perché ciò che mancava era il linguaggio e tale mancanza si configurava come intimamente connessa con la dimenticanza dell’essere. Partendo da questa scoperta, Heidegger sottolinea più volte nel corso della sua meditazione che non occorre tanto formulare un nuovo linguaggio, quanto mutare «il rapporto all'essenza dell'antico» (5), cioè cambiare il rapporto con cui lo si intende connesso all’essere.

Il linguaggio deve così essere pensato e nominato in base alla relazione che intrattiene con l'essere; «Il linguaggio è avvento diradante-velante dell’essere stesso» (6); «In quanto tale l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente. Questa vicinanza dispiega la sua essenza nel linguaggio. Sennonché il linguaggio non è meramente linguaggio, giacché noi ci rappresentiamo il linguaggio, nel migliore dei casi, come unità di forma fonetica, melodia, ritmo e significato […]. Siamo soliti pensare il linguaggio in corrispondenza all’essenza dell’uomo inteso come animal rationale, cioè come unità di corpo, anima e spirito. Ma come nella humanitas dell’homo animalis resta nascosta l’e-sistenza, e con essa il riferimento della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio sul modello “animale” ne occulta l’essenza che secondo la storia dell’essere gli è propria. In riferimento a questa essenza, il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire e disposta dall’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio a partire dalla sua corrispondenza all’essere, ed intenderla proprio come questa corrispondenza, cioè come dimora dell’essere umano» (7).

Sin dagli anni ’30 in poi la questione sul senso dell’essere diventa per Heidegger la questione sul senso del linguaggio: «Nel pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» (8); per questo «il linguaggio è a un tempo la casa dell'essere e la dimora dell’essere umano» (9).

La meditazione di Heidegger successiva alla Kehre, quindi, vuole proprio configurarsi come un’esigenza originaria del pensiero attraverso cui restituire alla parola la possibilità di essere la casa dell’uomo. In questo senso i chiarimenti intorno alla poesia di Hölderlin diventano uno strumento privilegiato per risignificare la linguisticità dell’uomo. Così l’abitare e il poetare (10) si fanno sinonimi della consacrazione del suolo che avviene per opera della poesia e che fonda ciò che resta (11): «Il poeta nomina gli dèi e tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene riconosciuto in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere. Ciò che resta non viene perciò mai attinto da quanto è caduco […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento» (12). Così, «l’abitare che istituisce è l’abitare originario dei figli della terra che sono al tempo stesso i figli del cielo. Sono i poeti. La loro poesia è in primo luogo soltanto istituzione. Questi poeti tracciano in primo luogo soltanto salde fondamenta sulle quali deve essere costruita la casa in cui devono venire come ospiti gli dèi. I poeti consacrano il suolo (weihn den Boden)» (13).

«Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra» (14) cantava Hölderlin, il poeta che, come ricorda Gadamer, sciolse la lingua ad Heidegger (15). Il carattere poetico dell’abitare dell’uomo sulla terra consiste nel suo fabbricare “poeticamente” le proprie case: «L’abitare [das Wohnen] dell’uomo dovrebbe essere poesia [Poesie], cioè qualcosa di poetico» (16), in quanto «il poetare edifica l’essenza dell’abitare […]. Poetare e abitare […] sono in una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente» (17). L’abitare è il modo principale con cui l’esserci attua la sua struttura fondamentale di essere-nel-mondo, essere-con-gli-altri ed essere-per-la-morte. In tal senso, se il «poetare è un costruire» (18), questo stesso poetare diventa anche un misurare lo spazio abitato sulla terra (la geometria) e il suo essere rivolto al cielo (l’astronomia). Il misurare poetico di cui parla Heidegger non ha nulla a che fare con il calcolo della scienza, col computo tecnico; piuttosto esso è ciò che permette all’uomo di riconoscersi come mortale proprio inverando, attraverso il misurare medesimo, il suo essere-per-la morte.

Questi inviti della meditazione di Heidegger a pensare il nesso poetare-abitare si collegano alla possibilità di pensare un luogo dove l’uomo può abitare, di un radicamento stabile nel terreno in cui si vive (19): «Se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno, radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in modo nuovo, persino all’interno dell’era atomica? Quale potrebbe essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie radici?» (20).

Proprio alla luce di questa esigenza così stringente del pensiero di Heidegger, anche il piccolo testo su Hebel del 1962 diventa un’occasione per condurre il lettore al linguaggio e per scoprire la possibilità di compiere un viaggio di ritorno verso la propria casa: il mondo. In tal senso, ci viene incontro la figura di Hebel, che porta Heidegger ad affermare: «Wir irren heute durch ein Haus der Welt, dem her Hausfreund fehlt» – «Noi erriamo oggi nella casa del mondo, alla quale manca “l’amico di casa”» (21).

Chi è Johann Peter Hebel?

È un poeta e scrittore popolare, pervaso «fino all’osso dal senso di giustizia, di lealtà, di fede, di generosità» (22). Nei suoi racconti e nelle sue poesie, richiamandosi alle ricorrenze dell’anno, alle semine e alle fiere di paese, ai progressi della scienza e agli eventi politici contemporanei, offre consigli, ammonimenti, elargisce saggezza senza tuttavia fare del moralismo pedagogico; profondamente cristiano, «irriducibile illuminista, credeva nella ragione e nel progresso» (23). Nelle sue opere l’insegnamento assume i tratti della parabola, la concretezza delle cose diventa tangibile, il tempo sembra diventare immenso, infinito, per poi restringersi e farsi caleidoscopio sul presente, poiché è sua prerogativa muoversi tra il presente e il passato salvando «esistenze e vicende strappandole al passato e all’oblio […]. C’è in lui l’ampio respiro delle generazioni e il soffio dell’eterno, ma anche l’assoluta pregnanza dell’istante, l’effimero che insinua il brivido anche nell’eternità» (24).

Fu lodato dai più nobili nomi della letteratura mondiale: Goethe disse che la sua meravigliosa concretezza si manifestava in tutto ciò che di udibile visibile ed odorabile vi era nella sua prosa e nella sua poesia (25). Hebel era detto l’Hausfreund, l’amico di casa: con questo appellativo si definiva colui che «tutti vorrebbero avere come ospite, al quale tutti possono rivolgersi per un buon consiglio, o per apprendere le ultime informazioni sugli avvenimenti del mondo, o farsi raccontare meravigliose favole di ladruncoli e garzoni di barbiere, spiegare il chiaro di luna e la coda delle comete. Lui è il poeta che per primo ha innalzato la loro lingua naturale, il loro dialetto alla sommità della grande poesia, facendo andare Goethe in visibilio; il narratore di semplici storie popolari d’almanacco la cui scelta antologica, che ha voluto chiamare Schatzkästelein ossia, alla lettera, “piccolo scrigno del tesoro”, è stata riconosciuta subito come un autentico capolavoro di questo genere: una lettura gradita e irrinunciabile, un libro di quelli che ci si porta dietro tutta la vita e che non ci si stanca mai di rileggere, di sfogliare, di passare ai figli» (26). Anche Franz Kafka rimase entusiasta della lettura di un racconto contenuto nel Tesoretto di Hebel (27) e persino Benjamin ne parlò con entusiasmo nel suo Angelus Novus (28) quando dice che egli fornisce la dimensione epica della verità.

Circa metà della sua vita Hebel la trascorse lontano dalla sua patria e proprio da questa lontananza, dalla nostalgia nutrita verso essa e verso le sue parole nascono le sue opere; Hebel ha dovuto sentire le parole della sua lingua come straniere, «pronunciarle da straniero, per potersene infine appropriare come della propria lingua, in una incessante oscillazione tra vicino e lontano, familiare ed estraneo, che nessuna rassicurante dialettica può conciliare, né alcuna facile identificazione risolvere» (29).

Come molti suoi contemporanei romantici Hebel avverte la presenza dello Heimweh, della nostalgia e del richiamo malinconico verso la sua patria lontana, identificando questa con i luoghi della sua infanzia e con la lingua di quei luoghi. E proprio come un romantico, Hebel vuole compiere il viaggio del ritorno, vuole cioè ripronunciare la sua lingua, portarla nei suoi scritti, appropriandosi di essa come di un tesoro.

Tutta l’arte di questo svevo riposa nella tensione tra lingua colta, impegnata, e il dialetto, confondendosi l’una nell’altro, fecondandosi reciprocamente; Hebel «era un cosmopolita che amava la sua terra nel quadro più vasto dell’umanità […]. Hebel è uno scrittore straordinariamente vivo, non parla da un angolo provinciale o vernacolo ma dal cuore stesso della vita e della storia, che scorre e si trasforma. La familiarità col luogo e con la lingua natìa non lo chiude in quella regressiva immediatezza di tanta letteratura dialettale, prigioniera di un sentimentalismo ombelicale e incapace di guardare oltre gi angusti confini della propria zolla. Il suo Baden diventa, per lui, la finestra aperta sul mondo, sul divenire che muta anche le secolari tradizioni contadine, sul destino comune di tutti coloro che percorrono le strade della terra» (30).

Perché Heidegger si interessa a questo scrittore popolare?

Perché Hebel conosceva un segreto che custodiva gelosamente nel suo Tesoretto e che è il segreto degli uomini, cioè egli conosceva l’originario rapporto che lega l’uomo alla parola e da questo legame, il radicamento dell’uomo alla terra. Hebel ha saputo “portare alla parola” le cose: «“Portare alla parola” significa: innalzare la cosa non parlata e non detta nella parola e far apparire delle cose nascoste fino ad allora tramite il dire. Se pensiamo al dire in questa prospettiva allora esso si mostra: la lingua nasconde in sé il tesoro di tutto l’essenziale. Solo pochi hanno compreso completamente fino a oggi ciò che è nascosto nel Tesoretto di Johann Peter Hebel. La lingua tedesca scritta in cui parlano le Considerazioni e i Racconti di Hebel è la più semplice, la più luminosa, la più incantevole e nello stesso tempo la più riflessiva che è stata mai scritta. In che cosa consiste il mistero della lingua di Hebel? Non nella volontà dello stile artificioso, nemmeno nell’intenzione di scrivere nel modo più popolare possibile. Il mistero della lingua del Tesoretto si basa sul fatto che Hebel è riuscito a inserire la lingua del dialetto alemanno nella lingua standard e scritta. In questo modo il poeta fa risuonare la lingua scritta come pura eco del dialetto» (31).

Heidegger è legato a Hebel da un doppio nodo: dalla meditazione sul linguaggio, che assume i tratti della riflessione sul dialetto come madre del linguaggio e dalla riflessione sul senso di appartenenza tra la lingua e la terra natia. Snodando questo duplice intreccio emerge tutto l’interesse del “pensatore dell’essere” verso “l’amico di casa”.

Heidegger sceglie Hebel, tra mille altri esponenti della letteratura popolare tedesca. Questa scelta si fonda proprio sulla radicalità con cui dialetto e terra natìa si appartengono, reciprocamente, e con cui le cose che la lingua materna nomina prendono esistenza da quella stessa parola. Il dialetto è la lingua originaria che permette all’uomo di esistere, di essere nel mondo, di nominare il mondo e lì abitare. Per questo, nel dialetto (Mundart) si radica l’essenza del linguaggio poiché il dialetto contribuisce a portare il linguaggio, in quanto linguaggio, al linguaggio: «Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua» (32). Il dialetto permette all’uomo di appropriarsi della sua terra, del posto dove vive, della regione che parla quel dialetto; esso è ciò che permette all’uomo di non essere “privo di mondo” ma di appartenere alla propria Heimat e agli enti che esso nomina.

Hebel conosceva bene il rapporto del dialetto con il linguaggio originario della poesia e con il suo reciproco appartenere-a, il suo essere radicato nel suolo (33); in tal senso, in Hebel il linguaggio opera come terra natia, come patria. E questo operare del dialetto procede alla creazione artistica, alla lingua poetica. Per questo Heidegger, nella sua lettura di Hebel, sottolinea come il dialetto sia la madre della lingua e della poesia: «Il dialetto è la fonte misteriosa di ogni lingua da esso cresciuta» (34): esso custodisce in sé la possibilità originaria del linguaggio, il darsi del linguaggio nel reciproco rapporto dei membri del Geviert che più volte sono richiamati all’attenzione dall’“amico di casa” Hebel e da Heidegger.

Il Geviert, termine attinto dalla poesia di Hölderlin e presente negli scritti del filosofo posteriori al 1950, viene reso da Heidegger con Quadratura, indicando la riunione poetica di quattro “elementi” nella loro semplicità originaria: la terra, il cielo, i mortali ed i divini. Questo termine indica il Cosmo che si fa presente e waltet nelle cose: «La terra è quella che servendo sorregge […]. Il cielo è il cammino arcuato del sole […]. I divini sono i messaggeri che ci indicano la divinità. Nel sacro dispiegarsi della loro potenza, il dio appare nella sua presenza o si ritira nel suo nascondimento […]. I mortali sono gli uomini. Si chiamano mortali perché possono morire. Morire significa essere capace della morte in quanto morte. Solo l’uomo muore, e muore continuamente, fino a che rimane sulla terra, sotto il cielo, di fronte ai divini […]. I mortali sono nella Quadratura in quanto abitano, […] in quanto salvano la terra, […] in quanto accolgono il cielo, [...] in quanto attendono i divini [...]. Nel salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’attendere i divini, nel condurre i mortali avviene l’abitare come il quadruplice aver cura della Quadratura» (35).

La terra e il cielo sono i termini fondamentali della Quadratura, del suo essere un soggiorno autentico presso le cose attraverso i due esistenziali privilegiati della finitezza umana, la cura e l’essere-per-la-morte: «Terra e cielo e il loro riferimento rientrano perciò nel rapporto, più ricco, dei Quattro. Questo numero non viene pensato esplicitamente né viene mai detto da Hölderlin. Eppure i Quattro sono già preventivamente scorti ovunque, per tutto il suo dire, a partire dall'intimità del loro riferimento reciproco. Essi sono già contati nel senso nel senso originario del racconto dell'antica saga del loro coappartenere. Quattro non significa qui il computo di una somma, ma la figura di per sé unita del rapporti in-finito delle voci del destino» (36). La struttura interna del Geviert traduce la struttura dell'essere come Evento; esso nomina il raccoglimento delle strutture originative che presiedono alla formazione del mondo storico. La Quadratura, come considera lo stesso Heidegger, è sia una cosa, sia un simbolo che rimanda alla fatticità del legame che unisce i quattro elementi.

Proprio perché la lingua di Hebel riesce a testimoniare il rapporto tra i divini, i mortali, il cielo e la terra, e quindi è una lingua che sa orientarsi all’interno della Quadratura, essa è una lingua della patria: nella sua parola nomina non solo l’appartenenza dell’uomo alla mondo ma anche alla sua terra; per questo gli è un poeta della sua patria (Heimtadichter) ma anche un poeta del mondo (ein weltweiter Dichter) (37).

La peculiarità di Hebel sta proprio, quindi, nel saper disvelare, usando il linguaggio di Heidegger, il nesso essere-linguaggio, nel portare alla luce il non detto dalla parola. Hebel permette al non detto di risuonare: «Far risuonare significa: portare alla parola ciò di cui mai si è parlato, ciò che non è mai stato detto in passato e lasciar manifestare, parlando, ciò che fino ad ora è stato celato» (38). Così, Hebel poetando nella sua lingua dialettale, è diventato “l’amico di casa” e il poeta del focolare, ha accennato al non detto del linguaggio, ha permesso che esso brillasse, scintillasse nella parola della sua terra: «Il segreto della lingua dello Schatzkästlein riposa nel fatto che Hebel sia riuscito a trattenere il linguaggio del dialetto (Mundart) alemanno nel linguaggio scritto e questo – il linguaggio scritto – a lasciarlo risuonare come eco pura del dialetto» (39).

Se l’arte di Hebel vive nella tensione tra dialetto e lingua colta, questa stessa tensione è il tratto peculiare della sua poesia. Il dialetto è la lingua di casa e solo se l'uomo abita nella propria casa, quella geografica, quella naturale, può anche, in un secondo momento, abitare nella casa universale della poesia. Il dialetto di Hebel nomina la Heimat, la patria, il focolare della casa: nella Heimat abita colui che è all'ascolto dell'appello del linguaggio. Il ritorno «al contenuto originario della lingua, che è nostra, e che tuttavia si trova continuamente esposta al pericolo di decadere e di comparire» (40) è forse il segreto che custodiscono le opere di Hebel. Per questo la lingua di Hebel contribuisce a condurci a casa e ad abitare il mondo, restituendoci la possibilità di non errare nella casa del mondo.

Questa prerogativa della lingua e dell’opera di Hebel sono considerati da Heidegger a partire dalla stessa denominazione che dà il titolo al piccolo scritto sullo scrittore svevo: “amico di casa”. Nel suo Tesoretto Hebel dice che il vero “amico di casa” è la luna, perché «illumina tramite la sua luce mite, che è il riflesso della sua luce solare, le nostri notti e guarda come i ragazzi baciano le ragazze. Lei è il vero “amico di casa”, è il primo compilatore di Calendario della nostra terra e il primo guardiano della notte quando gli altri dormono» (41). La luna illumina le notti con la sua luce mite che le proviene dal riflesso solare. Parimenti, il dire di Hebel illumina le strade degli uomini attraverso il suo dire che gli proviene dall’intima vicinanza del poetare. Sia la luna sia Hebel sono “amici di casa”: entrambi mostrano e custodiscono il vivere degli uomini.

Tuttavia, se la luna veglia sull’“edificio del mondo” come un attento guardiano, questo vegliare è maggiormente esperito dalla lingua, che custodisce la possibilità di far fronte all’erranza linguistica e, con essa, a quella esistenziale. Ma la lingua di cui Hebel si serve non è la lingua della quotidianità, ma una lingua più alta, più nobile come afferma Heidegger, una lingua che trova nel dialetto la fonte del suo dire poetico: «Dobbiamo ammettere che la lingua appare nella quotidianità come un mezzo di comunicazione e che viene usato per le condizioni usuali della vita. Solo che ci sono anche altre condizioni rispetto a quelle usuali. Goethe chiama queste altre condizioni “le più profonde” e dice della lingua: “Nella vita ordinaria ce la caviamo appena sufficientemente con la lingua poiché parliamo solo di rapporti superficiali. Appena si parla dei rapporti più profondi allora si presenta subito un’altra lingua, quella poetica”» (42). Il pensiero e, in modo differente, la poesia «non utilizzano dei termini [Wörter], ma dicono parole [Worte], noi siamo tenuti per questo stesso fatto, non appena ci poniamo sul cammino del pensiero, a prestare esplicita attenzione al dire della parola […]. Le parole non sono termini e quindi non sono simili a secchi e botti, da cui si possa fare uscire un contenuto esistente. Le parole sono sorgenti che il dire scava, sorgenti che di continuo devono essere cercate e scavate, che facilmente franano, ma che a volte anche sgorgano all’improvviso […] Prestare attenzione al dire delle parole è qualcosa di essenzialmente diverso da quel che non sembri in un primo momento, dall’apparenza cioè di un semplice occuparsi di termini. Prestare attenzione al dire delle parole è per noi moderni ancora particolarmente arduo, perché ci è troppo difficile liberarci da quell’“in un primo momento” di ciò che è abituale e, nel caso ci dovesse poi riuscire, troppo facile ricaderne vittime» (43). La peculiarità del linguaggio poetico è quella di nominare le cose. Il nominare le cose non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama all’interno della parola stessa. Il nominare è allora un chiamare a stare nella vicinanza di ciò che nella sua lontananza chiama, è un rimanere accanto a ciò che per lungo tempo è stato posto lontano. Il nominare le cose è uno dei compiti della poesia; non nel senso di dare un nome nuovo o nel senso di rinominare le cose, ma nel senso di portarle alla vicinanza di ciò che merita di stare accanto: «È la parola che conferisce la presenza, cioè l’essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente […]. Il poeta deve rinunciare alla pretesa di che gli venga […] fornito il nome per ciò che egli ha posto come il realmente essente» (44). La poesia non prende mai il linguaggio come un materiale già presente, ma «è invece solo la poesia stessa a rendere possibile il linguaggio. La poesia è il linguaggio originario di un popolo storico. È quindi viceversa l’essenza del linguaggio che va compresa a partire dall'essenza della poesia» (45).

Così il compito di Hebel, dell’“amico di casa” dell’ “edificio del mondo” sembra assolto: nominando nella lingua d’origine, nel dialetto, le cose dà ad esse una dimora, le colloca nel mondo assegnando loro un posto. In questo assegnare, che è poi un misurare e un vivere all’interno della Quadratura, Hebel «passeggia con senso illuminato su vie e ponticelli che per noi sono la lingua. Noi possiamo fare ciò se cerchiamo l’amicizia con l’amico che in qualità di poeta è lui stesso amico per la casa del mondo – con Johann Peter Hebel: l’amico di casa» (46).


* H. Arendt, «Hannah Arendt per Martin Heidegger in occasione del suo ottantesimo compleanno», in M. Heidegger, H. Arendt, Lettere 1925-1975, trad. it. a cura di M. Bonola, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 145.

(1) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, Neske, Pfullingen, 1962, p. 31 (trad. mia).
(2) M. Heidegger, «Lettera sull’umanesimo», in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 267 e s.
(3) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 34 s. (trad. mia).
(4) M. Heidegger, «Fenomenologia e Teologia», in Segnavia, cit., p. 32.
(5) M. Heidegger, «Risposta», in W. J. Richardson, Heidegger. Through Phenomenology to Tought, The Hauge, Nijhoff 1974, p. 23 (trad. mia).
(6) M. Heidegger, «Lettera sull’umanesimo», in Segnavia, cit., p. 279.
(7) Ivi, p. 286.
(8) Ivi, p. 267 s.
(9) ivi, p. 312.
(10) M. Heidegger, Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 136.
(11) M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p.176.
(12) Ivi, p. 50.
(13) Ivi, p. 176.
(14) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 125.
Per il verso della lirica hölderliniana si ricorda che essa è tratta dalla prosa poetica che inizia con le parole In Lieblicher Bläue… (Ed. Stuttg., 2,1, pp. 372).
(15) M. Heidegger, Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 120. Cfr. H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, a cura di R. Cristin, Marietti, Genova 1987, p. 19.
(16) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 125 s.
(17) Ivi, p. 136.
(18) Ivi, p. 126.
(19) Cfr. M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1989, pp. 32 e ss.
(20) Ivi, p. 37.
(21) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 31 (trad. mia).
(22) C. Magris, «Nota su Heidegger e Hebel», in “Aut-Aut”, 1990, n°. 235, p. 27.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo II, p. 675.
(26) A. Guareschi, «Introduzione», in J. P. Hebel, Tesoretto dell’amico di casa renano, trad. it. a cura di G. Cecchini-Guidi, G. Davini, B. Griffini e A Guareschi, Guanda, Parma 1988, pp. VI-VII.
(27) Kafka confidò all’amico Ludwig Hardt che il racconto Ricongiungimento insperato di Hebel «è la storia più meravigliosa che esista!» (E. Canetti, Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-1937), trad. it. a cura di G. Forti, Adelphi, Milano 1995, pp. 338 e ss.).
(28) Cfr. A. Guareschi, «Introduzione», in J. P. Hebel, Tesoretto dell’amico di casa renano, cit., p. IX.
(29) C. Resta, «La madre lingua. Heidegger, Hebel e il dialetto», in “Tellus”, 1993, n°. 11.
(30) C. Magris, «Nota su Heidegger e Hebel», in “Aut-Aut”, 1990, n°. 235, p. 26.
(31) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 32 s. (trad. mia).
(32) M. Heidegger, «Linguaggio e terra natia», trad. it. a cura di R. Cristin, in “Aut-Aut”, 1990, n°. 235, p. 4.
(33) Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 161.
(34) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 10 (trad. mia).
(35) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 99 s. Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 35 e ss.
(36) M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 204.
(37) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 11 (trad. mia).
(38) M. Heidegger, Hebel – Der Hausfreund, cit., p. 33 (trad. mia).
(39) M. Heidegger, «La lingua di Johann Peter Hebel», trad. it. a cura di C. Resta, in “Tellus”, 1993, n°. 11.
(40) M. Heidegger, A colloquio con Richard Wisser, a cura di R. Wisser, trad. it. a cura di O. N. Ventura, Ed. Città Nuova, Roma 1972, p. 86.
(41) M. Heidegger, Hebel – der Hausfreund, cit., p. 20 (trad. mia).
(42) M. Heidegger, Hebel – der Hausfreund, cit., p. 37 (trad. mia).
(43) M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, vol. II, pp. 21 e ss.
(44) M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 179.
(45) M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 52.
(46) M. Heidegger, Hebel – der Hausfreund, cit., p. 38 (trad. mia).



Gabriele Münter, Il viale davanti alla montagna, 1908
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