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Deleuze vent’anni dopo
A cura di Giuseppe Crivella




Deleuze e la logica della vita.
Nota a Alain Badiou
di Giuseppe Crivella


12 dicembre 2015


È nella seconda sezione dell’Appendice generale alla Grande Logica [1] che Badiou analizza con estrema precisione i concetti binari di quella riflessione bifronte che egli persegue da anni insieme all’autore di Différence et répétition: essere ed evento qui sono le due nozioni saldate da una stretta congruenza teoretica che tuttavia assumono sfumature estremamente diversificate in Deleuze e in Badiou.

In questa breve nota non ci sarà concesso di scendere nel dettaglio di queste differenziazioni sottili ma radicali, pertanto ci limiteremo ad una rapida disamina del modo in cui il filosofo della Théorie du sujet affronta e contestualizza Deleuze in seno al proprio pensiero.

Facendo avvitare il proprio discorso intorno a quattro assiomi, tutti desumibili direttamente dalla produzione deleuziana, Badiou enuclea una teoria dell’evento intesa come logica dell’apparire, ma di un apparire aporetico, controverso, incorporeo nell’accezione dichiaratamente stoica, un apparire quindi che intrattiene non pochi legami con la logica dell’evento, tratteggiata da Deleuze in Logique du sens e ricostruita proprio partendo dagli studi di Bréhier e Goldschmidt sulla nozione di incorporeo presso gli stoici. [2]

Ma quali sono questi quattro assiomi? Badiou li enuncia in questo modo, prendendoli direttamente dal dettato originario di Deleuze:
1. Il divenire-illimitato diventa l’evento stesso.

2. L’evento è sempre ciò che è appena accaduto o ciò che sta per accadere, ma mai ciò che accade.

3. L’evento è di natura diversa rispetto a quella delle azioni o delle passioni del corpo, ma risulta da essa.

4. Una vita si compone sulla base di un solo e medesimo evento, malgrado l’immensa varietà di ciò che può accaderle. [3]
Come è possibile vedere già da una prima occhiata, Badiou tenta di fornire un quadro unitario e, potremmo dire, derivativo della teoria dell’evento. Muovendo da una definizione di carattere generale basata su di una equivalenza subitanea e indimostrabile — divenire-illimitato = divenire tout court — l’autore giunge in seconda battuta a delineare la cronologia sfuggente e rapsodica dell’evento, sempre sfalsato rispetto alle proprie determinazioni, quindi concepibile solo come la proteiforme penombra di un punto di fuga che non smette di frazionarsi in una dispersione illimitata di soste apparenti, la cui natura è inassimilabile a quella dei corpi che lo incarnano e in parte lo definiscono nel suo decantato prodursi, come viene appunto espresso nel terzo punto. Quale quarto momento Badiou individua in ultimo quella sorta di immenso monismo evenemenziale che fa coincidere l’unicità dell’evento, che si esprime nella molteplicità della vita in esso espressa, con l’univocità dell’essere da essa espressa, in una specie di vastissima risonanza a lungo raggio con le tesi che Deleuze aveva esposto nel 1968 nel suo studio dedicato a Spinoza e che forse rappresenta il nucleo speculativo costante a cui il filosofo del pensiero nomade è rimasto fedele. [4]

In effetti, se si analizzano le osservazioni che Badiou fa seguire alla enunciazione dei quattro assiomi, si noterà come egli da subito insista sulla necessità di ravvisare nei quattro estratti deleuziani la postulazione esplicita di una realizzazione ontologica dell’Uno visto come una concentrazione della continuità della vita e come una intensificazione delle molteplicità dell’essere che si concatenano nella espressione plurale di un divenire che non ammette contraddizione, pur sopportando la possibilità di forze contrarie in seno ad esso. L’evento è quindi l’immanenza espressiva nell’Uno dei vari divenire che in esso accadono senza tuttavia totalizzarlo o esaurirlo mai e soprattutto senza esaurirsi essi stessi mai nel momento della loro attualizzazione:
la durata pura, il grande passato totale, che si compone col virtuale, non possono essere detti temporali, perché essi sono l’essere del tempo, la sua designazione univoca secondo l’Uno. Le differenti istanze del tempo sono sezioni [coupes] di questa durata, tenendo presente che in Deleuze la parola /sezione/ sostiene sempre una intuizione completa dell’attualizzazione (la filosofia stessa, considerata come costruzione di un piano di immanenza, è una sezione del caos). Deleuze deluciderà Bergson (o Bergson deluciderà Deleuze, conformemente alla esistenza attiva, co-presente al presente, del passato) distinguendo tre sezioni immobili, o istantanee, che sono gli oggetti; sezioni mobili, che sono i movimenti; infine, fondamento delle due precedenti, sezioni totali, piani in cui davvero si tratta dell’Uno intemporale e in cui gli oggetti, sprofondando e perdendo i loro contorni, si riuniscono nella durata. [5]
È proprio quest’ultimo tratto che ci conduce a parlare del secondo assioma, sulla base del quale possiamo considerare l’essere-illimitato dell’evento come una sintesi identificativa del passato e del futuro, ma disgiuntiva del presente con gli altri due momenti temporali, nonché con se stesso. Sconfinamento e connessione diventano qui gli assi portanti del discorso di Badiou: è ancora una volta Logique du sens l’opera chiave a cui bisogna rifarsi per una intelligenza piena di questi passaggi. [6] È inoltre in questa parte che l’autore tocca uno dei punti più problematici della propria riflessione, ovvero la caratterizzazione di una controversa ontologia del tempo legata alla virtualità. [7] Ma perché l’evento non accade mai nel presente, perché esso non può non attualizzarsi eppure non può, nello stesso tempo, non eludere e schivare sempre tale attualizzazione continua?

Poiché esso non cessa di illimitarsi, non cessa di espandersi nel tempo creandolo come inassegnabile forma formans di una ulteriorità che apre lo spazio del presente proprio nell’attimo in cui questo accade e lo apre su una sorta di intercapedine cronologica che si dilata verso il futuro rendendo infinitamente potenziale ciò che ora è solo attualmente determinato e soprattutto facendo proprio di questo attualmente determinato la potenzialità a posteriori di una virtualità regressiva, la quale cioè trova nel passato la traccia genetica ancora attiva della propria delineazione presente.

Il tempo dell’evento deleuziano è simile alla fontana di Hubert Robert narrata da Proust in Sodome et Gomorre, [8] composta cioè di un continuo fluire endogeno di transizioni e trasformazioni, ricadute e accentuazioni che non si concretizzano mai in una fisionomia finale ma sempre riprendono da capo a plasmarsi in un divenire illimitato di possibilità concretizzate o solo accennate, che fanno dell’essere una continua propulsione vivente di presentificazioni [9] in grado di infrangono ogni presente. Proprio alla luce di questo Badiou può notare:
il passato così creato è incorporato in una memoria gigantesca, totale, che è l’essere del tempo come durata pura, cambiamento qualitativo permanente in cui tutto il passato agisce come virtuale. Le corrispondenze sono del resto strette. Come il tutto, in quanto attuale, ha la sua propria virtualità in se stesso, nello stesso modo ogni presente possiede il suo proprio passato in sé. E come le differenti virtualità si differenziano in profondità, andando a costituire il virtuale, nello stesso modo i differenti passati si agglomerano e si compongono per costituire la durata, o passato totale [10].
È ancora una suggestione spinoziana quella che porta Deleuze-Badiou a vedere i corpi quali effetti di una eternità disgiuntiva e il corpo quale concentrazione di una molteplicità intensiva. Nel terzo assioma compare uno dei termini più importanti per Deleuze, il corpo appunto, inteso qui nell’accezione di risultante differenziale di forze e processi che ruotano attorno alla Relazione. Il corpo è un organismo instabile, una macchina trasformativa i cui costituenti solcano obliquamente territori difformi, molteplici, remoti, insituabili gli uni rispetto agli altri. Per questo motivo Badiou è costretto a fare del corpo il punto di convergenza di un eterogeneo turbinare di strutture generative e degenerative la cui predicabilità occupa il campo di una disciplina che si trova nella terra di nessuno tra la biologia e la cibernetica.

Il pensiero diventa un diagramma di forze ignare di ogni fuori, o meglio, in grado di integrare in sé l’istanza di ogni fuori iscrivendolo in una comunicazione con l’Uno costituito di oggetti disgiunti che entrano in una composizione formale in cui l’esteriorità, pur conservandosi, è come attivata dal fatto di essere colta nella intersezione aperta e mobile di figure locali del fuori. Ecco perché Badiou può constatare:
il pensiero si fa topologia delle forze del fuori, raggiungendo una nuova domanda: quali sono gli strati, le diversità, i bordi, le connessioni che compongono tale topologia? Come coprire le configurazioni delle forze che popolano il fuori? Deleuze consacra a questo aspetto della sua identificazione ontologica del pensiero innumerevoli pagine, moltiplica i casi, affina le indagini. Al punto che si è arrivati a credere che egli non facesse altro che sostituire alla fenomenologia una fenomeno-topologia [11].
Nel corpo divenire ed evento per la prima volta sembrano disgiungersi, in esso lo spazio del primo è precostituito dalle potenzialità formali dell’organismo e, nello stesso tempo, l’evento — finora presentatosi a noi come coestensivo al divenire — sorge in esso come una attualizzazione ormai compiuta. Il corpo incarna le virtualità del divenire per disinnescare quelle dell’evento. Esso è quindi uno spazio di cesura, un punto di incongruenza, una linea di frattura che separa divenire ed evento traducendoli però in una dimensione di collimazione altra rispetto a quella finora vista. È grazie al corpo infatti che appare un’altra nozione centrale in Deleuze, quella della singolarità [12].

Ma che cos’è una singolarità? Insieme a virtuale, essa è in primis un altro nome dell’essere, di un essere transitorio — che è diverso da transeunte — che a partire dalla sua univocità si fa però concretizzazione limitata di una possibilità specifica. L’univocità non è il generico, non è l’astrattezza, l’univocità dell’essere è la sua espressività plurale e rizomatica che non smette di autodefinirsi. La singolarità appartiene ad essa ma ne costituisce come una pausa trasversale che raccorda vari momenti in un dispiegamento originale dei momenti pregressi. Nella singolarità molteplice, univoco e specifico cospirano in una polifonia di agencements assolutamente indeducibili a partire dai domini di derivazione delle varie componenti in gioco.

Relazione e singolarità non possono quindi non condurci alla esplicazione del quarto assunto, nella cui formulazione unicità dell’evento e varietà della vita si trovano posti su di una linea di continuità che, per quanto possa sembrare tortuosa, in realtà non fa altro che predicare sempre l’immanente principio di espressione dell’Uno, il quale del disparato fa l’identico, del contingente una delle forme — non identitarie o simulacrali — del perpetuo, e del ritorno lo spazio inattingibile delle possibilità differenziate di un medesimo che nel suo musicale prodursi realizza l’univocità dell’Uno esponendola a variazioni potenzialmente infinite, poema stellare che fa della propria latente e inevitabile diffrazione la logica trascendentale di un empirismo sottratto ad ogni esperienza.

In ultimo è molto interessante notare inoltre quanto spazio Badiou consacri al problema del segno, aspetto che, per quanto sia effettivamente centrale nel pensiero dell’autore di Différence et répétition, non ha forse trovato la giusta dimensione critica all’interno delle riletture dedicate all’opera di Deleuze. Le cause di questa svista possono essere molte; non ci dilungheremo qui nell’elencarle, preferendo indicare alcuni passi utili per la ricostruzione di una aberrante semiologia deleuziana da affiancare senza dubbio a quella folgorante imagologia che egli mette a punto nel dittico sul cinema.

È soprattutto in uno dei primi testi che Deleuze sente il bisogno di affrontare il tema del segno, nello specifico nel saggio su Spinoza del 1968 [13]. In esso infatti possiamo trovare una intera sezione dedicata al problema del segno e dell’analogia visti il relazione oppositiva rispetto alla tradizione espressionista che trova invece in Leibniz e Spinoza i principali esponenti. Ma qual è questa relazione oppositiva? Risalendo al lemma εξελιττειν che riveste una posizione più che cardinale all’interno delle Enneadi plotiniane [14], Deleuze sottolinea quanto abbiano giocato un ruolo rilevante per aggirare le aporie dell’emanatismo e dell’impartecipabilità del principio presso autori come Cusano, Bonaventura ed Eckhart [15].

Tale vertiginoso sguardo en raccourci sulle vicende crepuscolari della filosofia medievale permette a Deleuze di mettere in frizione la teoria dell’espressionismo della univocità e dell’immanenza dell’essere con le logiche del segno che troveranno terreno fertile nella controversa filosofia dei dualismi in cui sfocerà il cartesianesimo. Là dove il segno infatti è legato per via analogica a ciò che comunica e quindi è per forza di cose esterno ad esso e altro da esso, rinchiuso in una diversità irriducibile che non può essere riassorbita nella forma di estrinsecazione attraverso la quale l’oggetto significato verrebbe ad essere rivelato, la teoria dell’espressione invece costituisce una matrice di significazione che non produce alcun fenomeno di insanabile frantumazione tra ciò che si esprime, l’espressione e ciò che è espresso. Ciò accade perché, letto in questo senso, il principio non è né trascendente, né eminente rispetto agli esseri deputati ad comunicarli in forme offuscate o distorte. L’essere per la teoria espressionista che Deleuze disseppellisce in Spinoza è immanente ad ognuna delle sue espressioni le quali non sono altro da esso ma sono esso stesso espresso secondo gradi di perfezione ampiamente variabile e suscettibile di incremento o diminuizione continui.

Il problema e il rischio della alterità insanabile del segno è pertanto schivato. L’espressione diventa la modalità tramite la quale la sostanza esprime se stessa e ciò che la esprime non è altro rispetto alla sostanza ma è essa stessa che si esplica a livelli diversi di adeguatezza implicandoli e complicandoli in sé. In tal senso l’espressione cessa sia di emanare da altro, di significare solo perché rassomiglia ad altro; essa pertanto, procedendo da una causa a cui è immanente, non risulta annoverabile né tra le similitudini esemplari né tra le similitudini imitative, ma piuttosto diventa la forma stessa dell’essenza che costituisce la sostanza. Ecco come Deleuze chiosa tale stato di cose:
Spinoza arriva a contrapporre due domini sempre confusi dalle tradizioni precedenti: quello dell’espressione e della conoscenza espressiva, l’unica adeguata e quello dei segni e della conoscenza tramite segni, per apofasi o per analogia. Spinoza distingue differenti tipi di segni: segni indicativi che ci portano a concludere qualcosa a partire dallo stato del nostro corpo; segni imperativi che ci consentono di cogliere delle leggi come leggi morali; segni di rivelazione, che ci portano essi stessi ad obbedire […]. In ogni caso però la conoscenza tramite segni non è mai espressiva [16].
È vero, una teoria del segno leggermente diversa da questa è desumibile dal saggio di Deleuze dedicato a Proust precedente di quattro anni questo studio [17], così come in Logique du sens, tramite l’innesto della riflessione sui segni di matrice stoica [18], tale configurazione subirà non pochi rimaneggiamenti, ma va detto comunque che nella lettura che Badiou propone di Deleuze forse l’affondo riferito a ciò che egli chiama “ermeneutica del visibile” meriterebbe una contestualizzazione un po’ più ampia, contestualizzazione che qui ci siamo limitati solo ad accennare.


[1] A. Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, Seuil, Paris 2006, pp. 403-411. La seconda sezione si intitola proprio L’evento secondo Deleuze.
[2] G. Deleuze, Logique du sens, ed. de Minuit, Paris 1969, pp. 13-22 e 152-158. Cfr. inoltre, E. Bréhier, La théorie des incorporels dans l’ancien stoicisme, Vrin 1928 e V. Goldschmidt, Le système stoicien et l’idée du temps, Vrin, 1953.
[3] A. Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, cit., p. 407. Traduzione nostra.
[4] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, ed. de Minuit, Paris 1968.
[5] A. Badiou, Deleuze, la clameur de l’être, Hachette, Paris 1997, p. 97. Traduzione mia.
[6] G. Deleuze, Logique du sens, pp. 74-83.
[7] Cfr. C. Buci-Glucksmann, “Les cristaux de l’art. Une esthétique du virtuel”, Rue Descartes, “Deleuze, immanence et vie”, n. 20, 1998, pp. 95-111.
[8] M. Proust, Sodome et Gomorrhe, ed. Folio Classique, Gallimard, Paris 2002, p. 217.
[9] Termine naturalmente non schiettamente deleuziano che noi riprendiamo, con ampio beneficio di inventario, dalla terminologia fenomenologica di Husserl.
[10] A. Badiou, Deleuze, la clameur de l’être, cit., p. 93. Traduzione mia.
[11] Ivi, p. 124. Traduzione nostra. [12] Badiou non esplicita questo aspetto in Logique des mondes, ma lo sviluppa in modo impeccabile in Deleuze, la clameur de l’être, cit., pp. 139-150.
[13] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, cit., pp. 153-169.
[14] Ivi, p. 158.
[15] Cfr. in proposito gli studi di Maurice de Gandillac, cfr. La philosophie de Nicolas de Cues, Aubier, 1942. Posizione non secondaria è riservata anche a Duns Scoto, richiamato da Deleuze tramite l’analisi di Gilson, Jean Duns Scot, Vrin 1952.
[16] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, pp. 164-165. Traduzione mia.
[17] G. Deleuze, Proust et les signes, Seuil, Paris 1964.
[18] G. Deleuze, Logique du sens, cit., pp. 22-35 e 159-167.



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