Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2021


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Heidegger e i Quaderni neri
A cura di Marco Baldino




Silentium
L’autodistruzione della filosofia
di Marco Baldino

25 febbraio 2021


Tutti sanno, o almeno tutti coloro, diciamo “grosso modo”, che in qualche modo si interessano di filosofia, sanno come si conclude il Tractatus Logico-Philosopichus di Ludwig Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.» (Proposizione n. 7). Questa non è affatto un invito al silenzio, come dice ingenuamente Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017). Il senso della proposizione, alla luce del Tractatus, è piuttosto questo: che su ciò su cui non ci sono parole per generare una proposizione sensata e, a fortiori, una concatenazione di tali proposizioni, non si può che tacere. Il silenzio è in certo senso il confine del linguaggio rigoroso e tale linguaggio designa tutto ciò che c’è: «Il pensiero è la proposizione munita di senso» (proposizione. 4) e «La totalità delle proposizioni è il linguaggio» (proposizione n. 4.001), inoltre «Nessuna proposizione può enunciare qualcosa sopra se stessa» (proposizione n. 3.332), quindi, a rigor di logica, nessuna proposizione può enunciare qualcosa come l’Essere di Heidegger, il quale verrebbe a trovarsi al di sopra della proposizione stessa. E tuttavia, a rigor di logica, il linguaggio designa il mondo, in un certo senso il linguaggio è tutto ciò che c’è; il linguaggio è il mondo. E dico “in un certo senso” perché il linguaggio comune è polisemico e dà adito a enormi confusioni, di cui la filosofia stessa è piena (ivi, p. 18). Su ciò che non appartiene a tutto ciò che c’è non c’è niente da dire.

Wittgenstein ha poi riconosciuto che oltre i confini del linguaggio fattuale vi è ancora qualcos’altro e quest’altro è il mistico e il mistico è ancora qualcosa. Ma solo nella misura in cui se ne può ancora parlare. Mentre il silenzio continua a essere tale, il silenzio non è nient’altro che silenzio. Per ciò che eccede il linguaggio fattuale potremmo forse evocare le figure dell’insensatezza di cui Foucault parla nella sua Histoire de la folie a proposito delle “Tentazioni di sant’Antonio” di Hieronymus Bosch. In quest’opera magistrale, il santo è tentato da figure assurde (teste senza corpo), forse elementi di un sapere difficile, certamente chiuso, esoterico, così lontano eppure così vicino, offerto e dissimulato nello stesso tempo dal sorriso del grylle, il quale, nella sua innocente grullaggine, possiede questo sapere inaccessibile e del quale l’uomo di ragione non percepisce che qualche aspetto frammentario (Storia della follia, p. 27). In fondo, potremmo dire, mistico e follia convertuntur. Ebbene, Heidegger è il pensatore che ha spostato l’intera questione del pensiero, della filosofia e quindi della scienza propriamente detta, sul terreno della mistica, e quindi, se il richiamo a Foucault ha senso, sul terreno della follia. Qui vigerebbe una strana commistione di silenzio e parola. Nei Quaderni neri Heidegger afferma che
La filosofia nella singola opera creativa, e solo in modo tale da andare dritto alla a cosa stessa [che, come vedremo meglio, è l’essere in quanto essere], conquista il silenzio [c.n]. (Quaderni neri, p. 13).
Invece di concepire lo sviluppo del pensiero occidentale come una serie di cesure e ripartenze, come una serie di discontinuità e ricapitolazioni, come di fatto è, Heidegger ha voluto concepirlo da un lato come un esiziale tradimento e, dall’altro, come un’emozionale ripetizione dell’inizio. Giunta la metafisica all’apice del suo sviluppo, Heidegger vi si inserisce praticando una sorta di smontaggio della tradizione filosofica, volta sì al ricupero di frammenti dell’antico, e orientandosi di essi, ma lasciando dietro a sé solo le rovine di un sistema unificato dal discredito; un sistema che ha obliato, di più, cancellato il problema stesso di che cosa sia più degno di essere pensato, dedicandosi, invece, al dominio dell’ente, alla sua manipolazione, alla sua sottomissione. Di contro Heidegger concepì il proprio pensiero come una ripetizione della dimensione aurorale, e perciò, e solo per questo, autentica (perché l’originario e l’aurorale dovrebbero essere più autentici di ciò che viene dopo, Heidegger non lo dice). Solo colui che intravede la possibilità di quel salto all’indietro si pone al di fuori della metafisica e, con ciò, all’inizio di una nuova fase della storia del mondo. Ponendosi al cospetto del silenzio dell’essere, un tale pensatore avvierebbe un cammino di rifondazione, e questo pensatore è lui stesso, il mago di Meßkirch, che dismette gli abiti del “filosofo” per indossare quelli del “profeta” e del “redentore”. La filosofia occidentale, dalla cesura romana, che ripulì la filosofia dai residui mitici, fino alla fenomenologia di Husserl, l’ultimo grande tentativo di costituire la filosofia come scienza, si sarebbe invece sviluppata nella continuità del tradimento.

Originariamente il pensiero, non più pura poesia e non ancora mera tecnica, pensava l’essere e l’essere soltanto e questa è, o sarebbe, la sua cosa, la cosa più considerevole per il pensiero. Ma proprio perché tale pensiero si trova in una zona grigia, intermedia tra poesia e tecnica, il “logos” heideggeriano si rivolge alla poesia, cioè alla più polisemica, oscura ed e incerta di tutte le forme di linguaggio, attivando una pratica funambolica di lettura dei poeti antichi e moderni. Tutti i termini chiave della tradizione filosofica vengono costretti a significare qualcosa di nuovo e di diverso: l’ϵῖναι dei Greci, l’essere, l’essentia dei latini, non è più la presenza al νουϛ, ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra e che perciò può essere afferrata dal νουϛ, dall’intellectus della scolastica medievale, ma ciò che ritraendosi lascia che l’ente emerga. L’essere per Heidegger è invece sempre assente, non è abbracciabile come una presenza, ma guizza nell’ente come assenza. In questo modo Heidegger comincia ad avvolgersi in formulazioni paradossali. L’ἀλήθεια, la verità, non è più il frutto di un accordo razionale ottenuto per mezzo del dialogo, la corrispondenza della cosa al pensiero, ma l’“apertura” nella quale l’ente si presenterebbe per grazia dell’Essere. Così L’ἐνέργεια di Aristotele viene interpretata come χἁριϛ, grazia, anziché come actus. Tutto lo sforzo del pensiero romano e medievale di fissare il concetto di azione come potenza dispiegata, viene rigettato nel limbo del tradimento in nome di vere e proprie forzature filologiche. Gadamer lo ha riconosciuto senza mezzi termini:
Heidegger era «il pensatore famoso per le forzature delle sue interpretazioni, il pensatore impaziente che spesso metteva da parte ogni preoccupazione storiografica pur di ritrovare nei testi se stesso», e ancora: «Senza dubbio l’esordio del pensiero greco è avvolto nell’oscurità» e a questa oscurità Heidegger si aggrappa come a un fondamento inconcusso, garantito da qualcosa come una stabilità inconcussa. Ora «Quello che Heidegger riconosceva in Anassimandro, in Eraclito, in Parmenide era certamente lui stesso. Ma in realtà si trattava solo di frammenti raccolti qua e là, che non erano conservati né come testi veri e propri né nel complesso di discorsi e meditazioni. Quello che in questo modo [Heidegger] cercava di accatastare per la costruzione del suo edificio erano frammenti continuamente rivoltati e ricomposti secondo la propria idea costruttiva». (I sentieri di Heidegger, p. 128).
E, d’altre parte, lui stesso afferma, nel 1931, che
Chi “oggi” — e con ciò intendo sotto l’inevitabile potenza dell’inizio della filosofia occidentale nell’antichità —, deve filosofare, tocca il compito […] di interpretare gli antichi come se non importasse affatto nient’altro che lasciarli venire alla parola (inizio e storia della questione dell’essere) e quindi […] di un più vasto e profondo domandare interpretativo […] come se non importasse altro che, in una piena solitudine, favorire l’Ausbruch dell’essere. […]. [Questo Ausbruch] è comunque la grazia dell’essere [c.n.]. (Quaderni neri, pp. 15-16).
Ausbruch significa scoppio, esplosione, eruzione, impeto. Iadicicco ha preferito “eruzione”, e sia. Per Heidegger gli inizi erano due: l’aurora del primo inizio greco, orientato all’Essere, e la ripetizione di questo inizio in un pensiero preparatorio orientato a un altro inizio [andere Anfang], configurantesi come compito del popolo tedesco in quanto popolo filosofico, e “popolo filosofico” grazie all’affinità della lingua tedesca con quella greco, tutte affermazioni arbitrarie; pensiero preparatorio che Heidegger chiama “pensiero aurorale”. Tale Ausbruch è la grazia [χἁριϛ] dell’Essere, il quale si dà senza lasciarsi afferrare.

Dell’essere quindi non si può dire nulla, una baluginante presenza silenziosa che lumeggia nell’aura dell’ente, un cuore indeterminabile e, allo stesso tempo, misteriosamente capace di garantire il radicamento degli enti in qualcosa che li supera, qualcosa che non è afferrabile, ma che ne fonda il senso. Il meccanismo è puramente mistico, come si vede: il senso delle cose del mondo discende da qualcosa di cui non si può parlare in modo fattuale, si può solo ascoltare ciò che di esso traspare nel pensiero poetante dei filosofi più antichi e nel poetare pensante di alcuni poeti moderni. Agli heideggeriani convinti non viene neppure in mente di dubitare che l’entusiasmo esoterico che anima l’ermeneutica di Heidegger, e la nebulosità delle sue formule, potrebbero non essere più in su di ciò che la tradizione ha tramandato sotto il nome di “scienza”. L’estasi affascina più della nozione, il fermento dell’entusiasmo seduce più della fredda scomposizione analitica. L’analitica dell’esserci qui è del tutto dimenticata. Ciò che riluce (lucus a non lucendo) nella penombra sembra esibire maggiori vibrazioni di ciò che il perito analitico può disporre in piena luce sul tavolo anatomico. La tesi secondo cui non si passa indenni dinanzi al pensiero, sembra caratterizzare assai bene questa dimensione della speculazione di Heidegger.

Per chiarire quest’ultimo punto mi par utile fare ricorso al mito omerico delle sirene. Il canto delle sirene è un’enigmatica promessa di sapienza, non molto dissimile da quella che si mostra nel sorriso ebete delle figure che tentano il santo nelle “Tentazioni di Lisbona” di Hieronymus Bosch, ma per chi si pone in ascolto del loro incanto non c’è salvezza possibile; fanno fede i cumuli di ossa, di corpi putrescenti e di pelli raggrinzite tutto intorno a loro. Ciò che in tale incanto balugina è la profondità abissale del mito e, mutatis mutandis, della follia. Il mito (e la follia) è “il più considerevole” per il pensiero; il mito è la cosa stessa del pensiero aurorale. La sapienza promessa è l’abisso dell’essere, il suo folle giacere sul senza fondo. Carlo Sini lo ha messo bene in luce: “il più considerevole per il pensiero è per Heidegger il mito” e ciò che balugina nella penombra del mito è l’insondabilità dell’essere, la sua abissale differenza, la sua incolmabile distanza da tutto ciò che si presenta sul piano degli enti. E qui si tratta strettamente di “fidarsi”, visto che dell’essere non si può dire nulla, che non ci sono parole o proposizioni che possano determinarlo. L’essere è paradossalmente fuori da tutto ciò che c’è; l’essere è il trascendente puro e semplice. L’ascolto del pensiero aurorale e della poesia ce ne rimanda qualche vibrazione. Bene, la decrittazione di questi messaggi, provenienti da profondità insondabili, è detta da Heidegger, certo molto arditamente, pensiero e scienza. E questo ardimento è ciò che seduce esegeti ed epigoni. Tuttavia Ulisse, con uno stratagemma che anticipa quella virtù del ricercare e del descrivere che è la conoscenza filosofica, passa indenne davanti alla follia del mito, cosa che gli heideggeriani non hanno colto.

Il passaggio dalla filosofia come scienza, alla “filosofia” come ascolto (Hören) del silenzio frusciante che spira (Lichtung) tra il fogliame del più considerevole, ossia il mito come dire originario (Sage), addirittura, a sentire Sini, come voce della «“tradizione” preistorica», ha creato un vulnus purulento nel corpo della tradizione continentale, spostando l’asse del pensiero verso una mistica del dire poetico che invita l’uomo essenzialmente a una coraggiosa attesa (cfr. Kinesis, pp. 48-67). La “filosofia” di Heidegger è tutta qui, in questo spostamento dal pensare logico-critico a un non-pensare che si orienterebbe attraverso un originario dire poetico. Secondo Sini, Heidegger parlerebbe come un antico caldeo (p. 63). Il problema è che sembra giunto il momento di chiedersi se questo vulnus non possa essere cicatrizzato, richiudendo la ferita apertasi con il riconoscimento che il mistico, l’estasi, la follia, sarebbero più degni di essere pensati che non la fredda necessità che conduce, o dovrebbe condurre, al costituirsi della realtà attraverso l’esperienza della coscienza. Se non sia giunto il momento — dicevo — di riposizionare l’antico caldeo nel processo che informa il divenire della scienza, di archiviare il silenzio e di riportare la vibrazione ontologica nel quadro di qualche teoria ondulatoria, se necessario, anziché lasciarla libera di trasformare l’estetica, come di fatto accade, in qualcosa come un’ontologia fondamentale.

Se i sortilegi ermeneutici di Heidegger sembrano convincere il lettore che la tradizione filosofica avrebbe davvero tradito, rovesciato e subornato l’autentico pensiero greco e che il compito del pensiero post-metafisico sarebbe ora quello di distruggere questa tradizione, di superare il dominio della tecno-scienza e di salvare il mondo dalla macchinazione nichilistica attraverso una ripetizione dell’inizio greco; se gli heideggeriani sono così convinti da ritenere che il loro compito sia quello di iterare all’infinito l’ascolto del silenzio come via all’ontologia, si dovrebbe almeno tener presente che la verifica storica ha letteralmente falsificato questo modo surrettizio di ricapitolare la tradizione occidentale e di immaginare il compito del pensiero. L’approdo di questo pensiero è infatti il nazismo e qualsiasi correzione possa poi esser stata aggiunta per mitigarne l’effetto, non elimina il rapporto tra “nuovo inizio” e le direttive fornite dalla propaganda nazista. Heidegger aderì in toto al nazismo, fin da prima dell’ascesa al potere e fino alla fine. Non si trattò di un’adesione d’opportunità, di una semplice tessera di partito. Heidegger faceva parte del nucleo di cervelli che il partito teneva presenti per le sue elaborazioni ideologiche e propagandistiche. Heidegger, ora ci è noto, studiava i discorsi di Hitler. Fece parte della delegazione che si recò a Roma al seguito di Göring per trattare il famoso “patto d’acciaio”. Prese parte ai convegni dei giuristi nazisti e, alla fine, giunse a mistificare la Shoah come forma di autoannientamento degli ebrei. Se questa non è una confutazione, non mi pare che si possa aggiungere altro.


BIBLIOGRAFIA

M. Foucault, Storia della follia, trad. di F. Ferrucci, Edizioni CDE, Milano 1989, © Rizzoli, Milano 1963.
H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, trad. di R. Cristin, Marietti, Genova 1987.
M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987.
M. Heidegger, Quaderni neri, 1931-1938, trad. di A. Iadicicco, Bompiani, Milano 2015.
C. Sini, Kinesis. Saggio di interpretazione, Spirali, Milano 1982.
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1974.




Pompei. Photo credit: WordPress.com




Home » Culture Desk » Heidegger e i Quaderni neri

© 2021 kasparhauser.net