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Heidegger e i Quaderni neri
A cura di Marco Baldino




Essere e Thule. Il Nazionalsocialismo “rurale” di Martin Heidegger
di Cesare Catà

22 gennaio 2015


Heidegger e il Nazismo: per un capovolgimento ermeneutico

Il rapporto tra la filosofia di Martin Heidegger e il Nazionalsocialismo, vexata quaestio sulla quale si è riversata una vastissima attenzione storiografica, [1] è stato principalmente analizzato da due opposte prospettive ermeneutiche: da un lato, nel tentativo di comprendere, alla luce dei testi heideggeriani e degli avvenimenti biografici dell’Autore, come quest’ultimo possa effettivamente essere considerato un pensatore di stampo nazista, con ciò rilevando come il suo sistema implicitamente esprima, in termini speculativi, i medesimi principi ideologici a fondamento del regime hitleriano; una seconda prospettiva, al contrario, si concentra sulla necessità di scindere la sostanza teoretica delle pagine di Heidegger dalla sua adesione al regime e dalla apologia che egli ne fece sino agli ultimi anni della sua vita. [2]

Se quest’ultima prospettiva parrebbe non prendere in considerazione esplicite affermazioni del filosofo, dati biografici ed evidenti posizioni interne ai suoi scritti che rimandano de facto alla Weltanschauung nazionalsocialista, [3] con ciò accogliendo arbitrariamente una prospettiva parziale dell’autore di Sein und Zeit; dall’altro lato, ridurre il sistema di Heidegger alle aberranti concezioni proprie del regime si rivela essere un’operazione semplicisticamente fuorviante. Come nel presente intervento si intende infatti osservare, se per un verso risulta evidente e non sottovalutabile il legame tra Martin Heidegger e il Nazionalsocialismo, simultaneamente tale legame non può tuttavia intendersi come una mera giustapposizione con i caratteri più evidenti e noti dell’ideologia nazista.

Si apre a questo proposito la possibilità di una terza via ermeneutica, che proceda considerando quei precipui e più celati tratti del Nazionalsocialismo che intrattengono una effettiva consonanza con le posizioni heideggeriane. Ciò che qui si vorrebbe mostrare è come, da un lato, la filosofia di Martin Heidegger non contenga teorie antropologiche accostabili all’antisemitismo hitleriano fondato sul concetto di “razza”; e, dall’altro lato, come al contempo intercorra una profonda affinità elettiva e spirituale, una sorta di Wahlverwandtschaft, tra il pensiero heideggeriano e alcuni specifici aspetti della visione del mondo fatta propria dal Nazionalsocialismo, in particolar modo per quanto concerne la prospettiva “ruralista” della residenza umana nel mondo.

La terza via ermeneutica che qui si propone di battere nell’analisi del rapporto tra Heidegger e il Nazionalsocialismo si caratterizza, dunque, in quanto non considera quest’ultimo come un concetto statico definito dalle vicende storiche, bensì come un complesso di eterogenee concezioni, tra le quali risulta necessario individuare quali di esse siano specificamente rispondenti a effettivi aspetti del pensiero heideggeriano. Ciò che interessa per la comprensione storico-filosofica della Wahlverwandtschaft tra Heidegger e il regime, infatti, non è in che misura Heidegger possa definirsi nazista — bensì che cosa, del Nazionalsocialismo, possiamo infine considerare congruente rispetto al sistema di questo pensatore. Specificamente, il ruralismo definito dalla dottrina del Blut und Boden, come vedremo, parrebbe porsi come un tratto del movimento nazionalsocialista effettivamente rispondente a un aspetto significativo del sistema heideggeriano.

Nell’avvincente romanzo dello scrittore argentino José Pablo Feinmann dal titolo La sombra de Heidegger, [4] si narra la storia di Dieter Müller, un immaginario allievo del filosofo di Freiburg che, prima di suicidarsi, scrive una lunga lettera al figlio. In quest’epistola Dieter narra come, nel pieno degli anni Trenta, egli fosse stato illuminato dalla lezione heideggeriana e dall’ideale incrollabile di una lotta contro l'universalismo giudaico della tecnica, per difendere la tradizione dell’Europa e il divino genio tedesco. Tutto ciò finché, rifugiatosi in Argentina dopo la guerra, la foto di un Ebreo condotto verso le camere a gas lo pose di fronte alla orrenda verità insopportabile della Shoah. Dieter non regge quella verità, in cui il credo di tutta una vita si mescola all’azione tremenda di un tale crimine, e deve infine togliersi la vita. Da quel momento, il figlio di Dieter ha un solo scopo nella propria esistenza, cioè scovare il vero responsabile della morte di suo padre: Martin Heidegger. Lo scritto di Feinmann, con taglio romanzesco, coglie nel centro il problema: fino a che punto Heidegger è il responsabile del suicidio di Dieter Müller? Cioè, fuor di metafora: esiste una relazione strutturale tra il sistema filosofico heideggeriano e le atrocità storiche del Nazionalsocialismo?

Le due impostazioni ermeneutiche a cui sopra si è accennato rispondono al quesito o assolvendo l’uomo Heidegger, alla luce di una interpretazione del suo pensiero non congruente con gli orrori nazisti; oppure condannando la sua filosofia, in forza dei legami che Heidegger stesso avrebbe intrattenuto con il regime e di sue esplicite affermazioni in tal senso. Nel primo caso, il figlio di Dieter, nel romanzo di Feinmann, si inganna nel dare la caccia a Heidegger, poiché egli è innocente: la sua connessione con il Nazionalsocialismo essendo contingente, superficiale, di facciata; nel secondo caso, la sua sete di giustizia è giustificata, poiché il sistema heideggeriano è, su di un piano intellettuale, responsabile in ultima analisi dei crimini del regime.

Entrambe le prospettive svolgono la comparazione tra Heidegger e l’ideologia nazionalsocialista considerando quest’ultima in modo unitario e non problematico. Tuttavia, il fenomeno ideologico e storico-politico del Nazionalsocialismo presenta complessi tratti difformi, considerando i quali risulterebbe necessario, per comprendere adeguatamente la connessione tra Heidegger e il regime, chiarificare quale fosse l’originaria concezione, propria del filosofo, di Nazionalsocialismo; infatti, se c’è un dato che risulta eclatante dalle vicende biografiche di Heidegger è la natura effimera, rimasta sostanzialmente astratta, del suo impegno in prima persona all’interno della struttura politica hitleriana. Lo dimostra lo stacco che intercorre tra il suo celebre discorso per l’assunzione del Rettorato presso l’Università di Freiburg tenuto il 27 Maggio del 1933, Die Selbsthauptung der deutschen Universität, [5] e i fatti che ne seguirono: le sue dimissioni a soli dieci mesi dal conferimento dell’incarico, il 21 Aprile del 1934; i contrasti con i vertici del partito; il successivo isolamento e l’assenza totale dalle strategie propagandistico-culturali del regime.
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Parrebbe mostrarsi una distanza tra la visione del Nazionalsocialismo che fu propria del filosofo di Freiburg e la sua attualizzazione. Assai significativo è quanto Heidegger afferma in un ben noto passo di Einführung in die Metaphysik:
Le opere oggi che oggi vengono considerate come filosofia del Nazionalsocialismo non hanno nulla a che fare con la profonda e imponente e verità che fu propria di questo movimento […]. Tali opere furono composte da personaggi che pescavano in torbide acque di valori totalitari. [6]
Queste affermazioni risultano illuminanti almeno da due punti di vista. In primo luogo, Heidegger concepisce questi pensieri nel 1935, ed essi non muteranno nelle edizioni successive dell’opera (ben oltre la fine politica del regime): ciò tradisce come egli tenga ben ferma, al di là delle contingenze, quella che considera «la profonda e imponente verità del Nazionalsocialismo»; risulta perciò difficile considerare il suo legame con il regime come un’aberrazione effimera, spiegabile con fatti biografici personali e scissa dalla natura stessa dei suoi ideali filosofici. In secondo luogo — ed è questo il punto ermeneutico decisivo — Heidegger pone un radicale distinguo tra ciò che viene comunemente definito Nazionalsocialismo, e la sua visione del movimento.

A quali opere il pensatore di Freiburg fa cenno, allorquando parla di sinistri «personaggi che pescavano nelle acque torbide di valori totalitari?». Il proseguo del suo discorso non lo esplicita; tuttavia, possiamo ben riconoscere nella sua affermazione un riferimento a testi-guida del Nazionalsocialismo quali gli articoli composti da Julius Streicher, [7] i libelli di Alfred Rosenberg, [8] o persino l’opuscolo-simbolo firmato dallo stesso Hitler, il Mein Kampf. [9] Si tratta senza dubbio di opere che «pescano nelle torbide acque di valori totalitari». Evidentemente, la filosofia heideggeriana non può trovare punti di contatto con l’antisemitismo maniacale di uno Streicher; né con il rozzo nietzschianesimo di un Rosenberg; né con il progetto di assoggettamento sociale perseguito culturalmente da Goebbels; [10] né, in ultima analisi, con le tesi allucinate della Battaglia di Hitler. Cionondimeno, Heidegger considerò se stesso un Nazionalsocialista, indipendentemente da ciò che il regime de facto fu; e — come dimostra la famosa intervista rilasciata al «Der Spiegel», rimasta nota con il titolo di Nur noch nin Gott kann uns retten [11] — indipendentemente dalla sua fine storica.

Dunque, quando consideriamo il problematico rapporto tra Heidegger e il regime occorre tenere presente la cifra precipua della sua personale concezione di Nazionalsocialismo — non giustapponibile, ma anzi contrastante, con quello che potremmo definire “Nazismo ortodosso”. Vediamo così capovolgersi l’impostazione ermeneutica atta a decriptare quali aspetti della filosofia heideggeriana siano considerabili nazisti, per aprire la via a una interpretazione che intenda, all’inverso, comprendere quali specifici aspetti del Nazionalsocialismo possano intendersi come heideggeriani.


Una contrastante affinità: la visione “ontologica” del Nazionalsocialismo heideggeriano

Prima di osservare — quale pars construens della presente analisi — uno specifico tratto heideggeriano del Nazionalsocialismo nel ruralismo dell’ideale del Bult und Boden, è utile svolgere ulteriormente la pars destruens atta a chiarificare la distanza tra Heidegger e gli aspetti più noti del movimento. Rivelativo è il livoroso attacco che il pensatore ebbe a subire nel 1934 da parte dei vertici nazisti sulla rivista «Volk im Werden», in un articolo a firma di Ernst Krieck:
Il tono fondamentale della visione del mondo sottesa alla lezione di Heidegger si caratterizza con i concetti di cura e di angoscia, i quali si riferiscono entrambi al nulla. La cifra di questa filosofia è un aperto ateismo e un nichilismo metafisico, equivalente a quello sostenuto in modo particolare da vari autori Ebrei: essa è perciò un motivo di disgregazione e fiaccamento del popolo tedesco. In Sein und Zeit Heidegger filosofeggia esplicitamente e volutamente a proposito della “quotidianità”; ma non vi è neanche un accenno in merito al popolo e allo Stato, alla razza, e al blocco valoriale della nostra immagine nazionalsocialista del mondo. [12]
«L’immagine nazionalsocialista del mondo» di cui parla Krieck si fonda sui concetti di «popolo», «Stato», «razza», che egli (a ragione) non riesce a riscontrare tra le pagine del sistema teoretico heideggeriano. Lo scarto rispetto al “blocco valoriale” del Nazionalsocialismo risulta evidente, secondo Krieck, in quanto la filosofia heideggeriana, ponendo in primo piano i concetti di cura e di angoscia, mette fondamentalmente a tema il concetto di nulla — con ciò giungendo a condividere l’orizzonte di pensiero di molti autori ebraici. Perciò — conclude l’invettiva — non solo il pensiero di Heidegger non ha nulla a che vedere con la verace essenza nazista; esso costituisce addirittura un motivo di indebolimento delle coscienze nazionali. Possiamo affermare che questo attacco di Krieck sia speculare alla sopracitata affermazione di Heidegger, secondo cui il Nazionalsocialismo non è da individuarsi nelle opere di coloro che pescarono in «torbide acque di valori totalitari». Il filosofo non riconosce la sua idea di Nazionalsocialismo nell’affermazione storica del regime, così come quest’ultimo non considera veracemente nazionalsocialista la filosofia heideggeriana.

La visione del Nazionalsocialismo che fu propria di Heidegger è radicalmente distinta, infatti, dalla concezione del Nazionalsocialismo che fu propria di un Ernst Krieck — concezione rispondente, possiamo ben dire, a quella definita da Streicher, da Rosenberg, da Goebbels, dal Mein Kampf. D’altronde, nelle memorabili lezioni su Nietzsche tenute tra il 1936 e il 1940 Heidegger criticherà esplicitamente la riduzione dei concetti di Wille zur Macht e Übermensch operati dalla propaganda di tali esponenti di partito. [13] Così come il Nietzsche di Heidegger non è in alcun modo considerabile alla stregua dell’utilizzo fattone da parte del regime, similmente la visione stessa di Nazionalsocialismo presente nella sua filosofia non può essere, sic et simpliciter, confrontata con la definizione del movimento codificata dai vertici della propaganda partitica. Asserire un tratto nazionalsocialista della filosofia di Heidegger, con ciò facendo cenno al concetto di Nazionalsocialismo cui il pensiero heideggeriano si contrappose proponendone un’alternativa fondamentale, significa fraintendere la sostanza del problema.

Come le ricerche d’archivio dello storico Hugo Ott hanno da tempo rilevato, le fulminanti dimissioni del filosofo dall’incarico di Rettore a Freiburg possedettero una genealogia fortemente politica, da rilevarsi in un contrasto insanabile creatosi tra il suo progetto di riforma dell’Università (e conseguentemente del popolo tedesco e della cultura europea) e le direttive dei gerarchi del partito. [14] In particolare, la rottura si produsse tra Heidegger e Alfred Baeumler (le cui indicazioni, non casualmente, animavano gli articoli di Krieck in uscita su «Volk im Werden» [15]).

Il 21 aprile del 1933, in seguito alle dimissioni del rettore in carica, Heidegger viene eletto alla unanimità a capo della Università di Freiburg. Condizione necessaria per l’assunzione del rettorato è l’ingresso ufficiale nel partito Nazionalsocialista, che il filosofo effettua il 27 maggio del 1933, tenendo per l’occasione il già citato discorso Die Selbsthauptung der deutschen Universität. Con echi che legano le sue parole alle riflessioni di Carl Schmitt e, soprattutto, a quelle contenute in Der Arbeiter di Ernst Jünger, [16] il maestro di Freiburg teorizza nel suo discorso un “compito destinale” dell’Istituzione Universitaria; tale compito avrebbe dovuto dispiegarsi, gerarchicamente, su tre livelli: il «servizio del sapere» (Wissendienst), da cui sarebbe dipeso il «servizio della difesa» (Wehredienst), dal quale sarebbe dipeso a sua volta il «servizio del lavoro» (Arbeitdienst). Con ciò Heidegger conferiva un primato politico alla cultura e, in particolare, alla cultura della Germania, la quale, trovando in sé il proprio fondamento, si sarebbe posta — attraverso l’Università — come guida e principio nella costruzione di un Occidente reformatus. Heidegger fa cenno a una possibile rinascita della cultura occidentale, sotto la guida della luce della cultura tedesca. Nel suo discorso per l’assunzione del Rettorato, egli si fa teorico e annunciatore del «grande e magnifico» (gross und herrlich) momento di «evoluzione» (Aufbruch) che la congiuntura storica del Nazionalsocialismo rappresenta per l’umanità. Siamo tuttavia assai distanti dalla visione goebbelsiana o baeumleriana di un’Europa soggetta ai parametri partitici nazisti. Come nota Alfredo Marini, se per Heidegger, a proposito del Nazionalsocialismo, «si poteva parlare di un grande e magnifico momento di rottura […], questo era un fatto puramente teorico, che accadeva unicamente […] nel suo pensiero: era la stessa svolta della necessità (Kehre) che la sua anima subiva seguendo il rovescio della questione dell’Essere da lui impostata in Sein und Zeit». [17] Lo stesso Karl Jaspers — a quel tempo già estremamente consapevole del potenziale terrifico dell’ideologia nazionalsocialista — ebbe a fornire una giudizio positivo sul Discorso heideggeriano, limitandosi a notarvi alcune necessarie «concessioni all’attualità». [18]

Tuttavia, a posteriori, Jaspers avrebbe poi, insieme a una vasta schiera di intellettuali, riconosciuto in Heidegger una “colpa” (nell’accezione storica forte che la filosofia jaspersiana ha affidato a tale concetto [19]) non sottovalutabile: Adorno avrebbe definito la filosofia heideggeriana “fascista nell’essenza”; [20] Lukàcs avrebbe letto l’ontologia di Sein und Zeit come un implicito progetto della ideologia imperialistica tedesca; Farias avrebbe individuato nel pensiero di Heidegger un portato intrinsecamente antisemita. Tali prese di posizioni tranchants parrebbero non considerare quella distanza, cui fin qui si è fatto cenno, tra la concezione del Nazionalsocialismo heideggeriano e i fondamenti del Nazionalsocialismo storico — distanza che si tradusse in un effettivo contrasto tra il vertici del partito e il pensatore, conducendo quest’ultimo a un sostanziale isolamento ed estromissione dalla conduzione delle politiche culturali del regime.

Cionondimeno, nel periodo postbellico l’autore di Sein und Zeit fu chiamato dalla Commision d’Epuration a rendere ragione delle sue compromissioni con le atrocità criminali del Nazismo. I fatti conseguenti porteranno Heidegger a una crisi nervosa e, nell’inverno 1945-4, sull’orlo del suicidio (faticosamente, egli ne sarebbe uscito solo anni più tardi, anche grazie alle cure del Dott. Viktor von Gebsattel nel sanatorio di Badenweiler [21]). La sua casa di Freiburg venne sequestrata; lui stesso costretto ai lavori forzati per lo sgombero delle macerie; la sua biblioteca personale requisita. Dopo altalenanti giudizi, la Commision decretò, il 5 ottobre 1946, l’interdizione del filosofo dall’insegnamento per «evidenti legami» con il regime. [22]

Sebbene Heidegger venisse tre anni più tardi reintegrato (importanti furono i pareri di Max Müller, Romano Guardini, e dello stesso Jaspers, [23] che ebbe a mutare prospettiva), contro il filosofo andò intessendosi nel corso del tempo una vasta scrittura diffamatoria, spesso indistinguibile dai giudizi storico-critici nei confronti della sua opera speculativa. Dati biografici de facto privi di riscontro — come l’episodio secondo cui Heidegger avrebbe tenuto le sue lezioni nella divisa delle SA; [24] o quello che narra come egli, da rettore, avrebbe proibito a Husserl (suo originario maestro e mentore) l’utilizzo della biblioteca universitaria in quanto Ebreo [25] — tendono, in molta storiografia, a divenire la cartina di tornasole per una conclusione ermeneutica che indichi il fondamentale Nazismo della filosofia heideggeriana.

In realtà, vari fatti biografici e prese di posizioni del filosofo parrebbero smentire una sua concezione antisemita o un suo qualsiasi giudizio di natura razziale nei confronti del popolo ebraico. Quello di Heidegger era un rifiuto di ordine speculativo rivolto alla Weltanschauung che, fondandosi sulla radice giudaica della cultura occidentale, rimaneva intrappolata all’interno di quel sistema metafisico che egli intendeva trascendere. Tuttavia, celebri interpretazioni del sistema heideggeriano hanno visto in questa filosofia un’ortodossa asserzione dell’hitlerismo. Una delle più eclatanti letture date in questo senso fu quella proposta a suo tempo da Victor Farias, [26] nella quale il critico ha tentato di dimostrare l’equazione tra le tesi heideggeriane e l’ideologia antisemitica hitleriana. Il lavoro è stato analiticamente oggetto di risposta in uno studio di François Fédier, in cui l’autore ha rilevato il taglio squisitamente diffamatorio e privo di storicità delle posizioni di Farias. [27]

Di ben altro spessore rispetto al lavoro di Farias, foss’anche solo per la mole del materiale documentario di cui si serve, è il più recente saggio di Emmanuel Faye, Heidegger, l'introduction du nazisme dans la philosophie. [28] Faye propone, scandagliando i corsi delle lezioni e delle conferenze tenuti dal filosofo negli anni 1933-44, di mostrare come l’intero sistema heideggeriano non sia altro che una giustificazione, sul piano teoretico, dell’agire politico criminale del Nazionalsocialismo. A differenza del testo di Farias, il saggio di Faye possiede un’ottima base storica a partire dalla quale vengono svolte tali argomentazioni (ricchissime altresì di rimandi comparativi a testi di altri autori considerati “filo-nazisti”, soprattutto Carl Schmitt). Ma se, da un lato, Faye mostra ad abundantiam come nella filosofia di Heidegger sia costantemente sotteso un rifiuto del soggetto umano inteso quale “semplice presenza”; dall’altro lato, tuttavia, la tentata equazione tra questo pensiero e il razzismo hitleriano parrebbe naufragare da un punto di vista teoretico, in quanto essa si fonda unicamente sul procedimento analogico, acriticamente adottato come metodo ermeneutico, secondo cui all’“anti-umanesimo” di Martin Heidegger corrisponderebbe la “dis-umanità” dei crimini razziali del Nazionalsocialismo. [29]

In realtà, come abbiamo osservato, quella heideggeriana fu una peculiare concezione di Nazionalsocialismo, metastorica e contrastante rispetto alla sua definizione effettiva. Se non ammettiamo il punto decisivo — che Faye lascia indimostrato — secondo cui il rifiuto del soggetto nell’analitica esistenziale heideggeriana corrisponde all’idea di “razza scelta” propugnata nel Mein Kampf e nel Nazismo ortodosso; ma assumiamo, piuttosto, la riflessione di Heidegger come punto di partenza per comprendere i connotati della sua peculiare concezione nazionalsocialista — l’intero lavoro di Faye potrebbe esser capovolto, e letto in una prospettiva che stacca definitivamente il filosofo da ogni visione barbaramente razzista e antisemita.

Heidegger, senza dubbio, al pari di Carl Schmitt e Ernst Jünger, non riconobbe mai nell’orizzonte civile democratico l’ideale della convivenza umana, quest’ultima fondandosi piuttosto su principi antropologici trascendenti e indisponibili. [30] Tuttavia, l’assunzione secondo cui tale posizione sia immediatamente e acriticamente ascrivibile al razzismo di stampo hitleriano risulta semplicistica, criticamente fuorviante. Possono valere, per Heidegger, le parole puntuali con cui Raymond Aron ha chiarificato la relazione tra il Nazionalsocialismo e Schmitt:
Egli non costituì mai una parte integrata ed integrante del partito nazionalsocialista. Un uomo di una tale cultura e levatura non poteva essere hitleriano, e non lo fu mai. Ma, dottrinario di destra, nazionalista, carico di disprezzo per la repubblica di Weimar, interpretò l’avvento al potere di Hitler e il formarsi della tirannia nazista come una speranza per un Rinascimento della Germania e, tramite esso, dell’intero mondo occidentale. [31]
Come Schmitt, Heidegger riconobbe nel Nazionalsocialismo l’apertura per la realizzazione di un uomo nuovo, nel quale si inverasse, come già intravisto nel Romanticismo hölderliniano e nella filosofia nietzschiana, il genio ultimo tedesco. Hitler, secondo Heidegger, avrebbe condotto il popolo tedesco fuori dalla depressione della Prima guerra mondiale e dalla rovinosa esperienza della Repubblica di Weimar, non dissimilmente da come lui stava redimendo il pensiero occidentale dall’errore della metafisica ontica.

Filosoficamente, infatti, il punto nodale del Nazionalsocialismo heideggeriano risulta essere la nozione di “orizzonte ontologico”, inteso come trascendenza e superamento del singolo soggetto nella sua individualità. In questo senso, numerose pagine di Sein und Zeit descrivono chiaramente un’idea di storia, di umanità e di essere che, sebbene non giustapponibile da nessun punto di vista al razzismo del Mein Kampf, mostra la fondazione di una ben precisa concezione di Nazionalsocialismo. Questo punto cruciale è accuratamente chiarificato dall’analisi di George Steiner, il quale scrive che vi sono
delle connessioni reali tra il linguaggio e la visione di Essere e tempo, specie nelle ultime sezioni, e quelli del Nazismo. Coloro che negano ciò sono ciechi o bugiardi […].
Sia il Nazismo sia l’antropologia ontologica di Essere e tempo sottolineano la concretezza della funzione dell’uomo nel mondo, la primordiale santità della mano e del corpo. Entrambi esaltano la mistica affinità tra il lavoratore e i suoi strumenti in una innocenza esistenziale che deve essere purificata dalle pretese dell’intelletto astratto. A questa accentuazione si accompagna una tensione sul radicamento, sul rapporto intimo fra sangue e ricordo, che un autentico sentire umano ha rispetto alle sue radici natali. La retorica heideggeriana del sentirsi-a-casa, dell’organico continuum che avvicina il vivente al morto ancestrale sepolto accanto, si adatta senza sforzo alcuno al culto nazista del sangue e della terra. Parallelamente, le accuse hitleriane ai cosmopoliti senza radici, alla plebaglia urbana e alla intelligencija senza patria che vive parassitariamente sull’elegante suolo della società, riecheggiano da vicino la critica heideggeriana del Sì della modernità tecnologica, dell’indaffarata irrequietezza dell’inautentico. [32]
L’analisi di Steiner fotografa la questione, rilevando le «connessioni reali» che intercorrono tra il sistema heideggeriano e il Nazionalsocialismo; tali connessioni, tuttavia, si riferiscono soltanto e squisitamente ad aspetti parziali, e storicamente minoritari del regime. Pretendere di scorgere la totalità dei caratteri del Nazionalsocialismo ortodosso nella filosofia heideggeriana (l’antisemitismo razzista, in primis, alla luce della sua precipua concezione del Nazionalsocialismo risulta perciò fuorviante. Ciò pone una sorta di inversione nella comprensione del rapporto tra Heidegger e il regime: è dalla filosofia heideggeriana che scaturisce il suo interessamento politico, non viceversa; il suo sistema non può perciò essere inteso come una “trascrizione” teoretica di quell’impianto valoriale, essendo piuttosto il modello a partire dal quale comprendere e rifiutare la sostanza del Nazionalsocialismo. Come giustamente nota Raymond Klibansky, «l’adesione di Heidegger al partito, mantenuta fino in fondo, scaturiva dalla sua filosofia, e in particolare dalla sua concezione della Geschichtlichkeit, della storicità dell’uomo. Secondo Heidegger, è l’essere che si rivela nel tempo, nel-la situazione storica: in questo caso, nell’ascesa e nel trionfo del Na-zionalsocialismo». [33]

In una tale prospettiva si chiarificherebbero, sia le enigmaticamente repentine dimissioni di Heidegger dall’incarico di rettore all’Università di Freiburg sotto l’egida del regime; sia la sua ferma volontà nel non prendere mai, negli anni del Dopoguerra, una posizione di condanna nei confronti del Nazionalsocialismo. Perché il pensatore, che pure manifestò un evidente contrasto con il partito rifiutando di esplicare la sua carica, non chiarificò in una condanna le ragioni di tale rottura, prendendo (come la quasi totalità di intellettuali compromessi con il regime) le distanze dalle atrocità naziste? Tale apparente paradosso si spiega, notando come, in un caso come nell’altro, a cozzare siano la concezione heideggeriana di Nazionalsocialismo e il Nazionalsocialismo storico: egli ne prende le distanze allorquando realizza la differenza insanabile che separa il suo ideale dalla effettiva realizzazione storica del regime; correlatamente, si rifiuta di prendere le distanze dalla sua concezione, condannando l’immagine storica del Nazionalsocialismo, cosa che avrebbe mescolato inevitabilmente i due piani. I fondamenti filosofici che Heidegger non abbandona dopo la caduta storica di Hitler sono i medesimi che aveva vanamente riposto nella speranza della sua ascesa, i quali sono dunque graniticamente indipendenti dallo stato di fatto; come giustamente scrive Leo Strauss, era nello spirito di una tale speranza che Heidegger perversamente accolse il 1933 come benvenuto. Fu deluso e si ritrasse. Che cosa gli insegnò il fallimento dei Nazisti? Che la speranza nietzschiana in un’Europa unita che go-vernasse il pianeta, un’Europa non solo unita, ma rivitalizzata da questa nuova, trascendente responsabilità del governo mondiale, si era rivelata un inganno […]. Decisivo, per Heidegger, è il fatto che questa società mondiale sia peggiore di un incubo. Egli la chiamava la “notte del mondo”. Essa implicava infatti la vittoria di un Occidente sempre più completamente urbanizzato e tecnologico sull’intero pianeta. Significava unità di razza umana al più basso livello, completa vacuità della vita […]; niente piacere, niente concentrazione, niente elevazione, niente distacco; nient’altro che lavoro e ricreazione; niente individui e niente popoli, ma solo folle solitarie. [34]

La Weltanschauung che Heidegger riconosce al Nazionalsocialismo coincide con la visione antropologica che egli delinea nella sua ontologia. Essa non è identificabile con l’antisemitismo hitlerista, bensì si riferisce a principi fondamentali e indipendenti dall’affermazione politica, dalla caduta e dalle aberrazioni criminali del Nazionalsocialismo storico. Infatti, nel momento in cui il filosofo esperisce la sfasatura fattuale tra la sua concezione del movimento e l’attuazione delle politiche culturali da parte del regime, ne prende le distanze e ne resta emarginato, ben prima del crollo storico del Nazionalsocialismo; dopo tale crollo, correlatamente rimane fedele alla sua visione nazionalsocialista.

La distanza tra Heidegger il credo nazista antisemita fondato su base razziale può essere ulteriormente rilevata notando, tra le righe, il profondo rapporto tra Heidegger e la cultura ebraica. [35] Da parte di esponenti del regime (come mostra la poc’anzi citata invettiva di Krieck), il filosofo fu non a caso a “accusato” di rivelare un tratto del suo pensiero collegabile ad alcuni aspetti dell’Ebraismo. Alcuni tra i maggiori interpreti del pensiero heideggeriano sono di origine ebraica, [36] così come gli autori che abbiamo sin qui richiamato per fare luce sul reale portato del Nazionalsocialismo di Heidegger. Quello del filosofo con la cultura ebraica rimane un aspetto interessante e problematico del suo sistema di pensiero; tale problematicità ebbe a concretizzarsi nel corso della sua vita in numerosi rapporti umani, [37] trovando probabilmente il suo momento più eclatante nel celebre incontro con il poeta Paul Celan. [38]

Se da un lato risulta dunque difficilmente argomentabile un effettivo antisemitismo heideggeriano, dall’altro si corrobora la tesi di un peculiare Nazionalsocialismo proprio del filosofo, da non intendersi alla luce delle dottrine ortodosse del regime. Un utile percorso ermeneutico può, in questo senso, consistere nella comparazione tra il sistema heideggeriano e le radici culturali più occulte del Nazionalsocialismo, [39] le quali non trovarono, se non in modo estremamente marginale, una loro concretizzazione storica. Facendo cenno a tali radici, nel loro fortunato saggio Le matin de magiciens, [40] Pauwels e Bergier definisco il movimento nazionalsocialista come «uno di quei rari momenti nella cultura occidentale in cui si è aperta una porta su un’altra cosa, una realtà ulteriore e trascendente, in modo clamoroso e visibile. È molto singolare che gli uomini fingano di non aver visto e sentito niente, tranne gli spettacoli e i rumori ordinari del disordine bellico e politico». [41] Questa porta che il movimento nazionalsocialista avrebbe aperto su “un’altra cosa” corrisponde alla ricerca di quella ulteriorità ontologica che Heidegger (estraneo ai «rumori ordinari del disordine bellico e politico») indicava nel superamento del primato metafisico del soggetto per una dimensione oltre-umana, non strettamente ontica ma ontologica. In questo senso, l’Essere fu la sua Thule. [42]

In particolare, la definizione della dottrina nazionalsocialista espressa da Walter Darré offre interessanti spunti comparativi per un approfondimento inedito dell’argomento.


Blut und Bodenständigkeit. Walther Darré e il ruralismo filosofico di Heidegger.

Nel 1929, Walter Darré — Reichbauernfürher e, dal 1931 al 1938, Reichminister per “l’Alimentazione e le Politiche Agricole” (Ernährung und Landwirtschaft), già precedentemente Caporeparto delle SS nella sezione per “la Razza e le Colonie” (Rasse und Siedlungshauptant) [43] — riprendendo il titolo di una rivista völkish degli anni Venti, “Blut und Boden”, pubblica il suo testo-manifesto Neuadel aus Blut und Boden [44]. Nel saggio, venivano poste alcune delle basi teoriche che di lì a poco, nel 1935, avrebbero ispirato la costituzione dell’Ahnerbe Forschung und Lehrgemeinschaft (“Società di ricerca e studio sull’eredità ancestrale”), fondata dallo stesso Darré insieme all’antropologo Hermann Wirth e al filologo Walter Wüst. [45]

L’aspetto più noto delle attività dell’Ahnerbe fu la ricerca di una linea etnico-culturale a fondamento della razza germanica; numerosi spedizioni, in questo senso, furono portate a termine dal Corpo speciale in vari luoghi del pianeta: dalle aree nordeuropee della Karelia e della Bohuslän, sino al Medio Oriente e al lontano Tibet. [46] Queste ricerche non erano ispirate soltanto dalla pretesa himmleriana del riconoscimento di un razza misticamente eletta che potesse rivivere nel culto delle SS; nella visione dell’Ahnerbe, prima di una supposta superiorità di ordine razziale del popolo germanico, vi è infatti una ben precisa concezione del rapporto tra l’essere umano e il suo territorio, conformemente a quanto indicato da Darré nel suo sistema di idee.

Esaltando il sistema rurale dell’economia contadina, Darré propone un modello antropologico fondato sulla relazione strutturale tra l’uomo e la terra; tale rapporto descrive, da un lato, una chiusura spaziale, individuata dall’atto stesso del lavoro del contadino; e, dall’altro lato, una espansione temporale, poiché viene a instaurarsi un legame di discendenza tra i morti che hanno coltivato la medesima terra e i nascituri che lo faranno in futuro. Le coordinate della stirpe (Blut) e della terra (Boden) divengono così per Darré i principi ideali per intendere il concetto di Heimat, inteso quale appartenenza condivisa a una medesima realtà etnico-culturale.

Tale posizione si accompagna a un netto rifiuto di ogni economia sovra-locale e di ogni urbanizzazione, parimenti individuate quali distruzioni disgreganti di quella comunità umana garantita dal rapporto originario tra l’uomo e la terra che il lavoro dei contadini preserva e perpetua. [47]

La dimensione rurale viene concepita da Darré come il fondamento identitario inabbandonabile per la formazione di un popolo, essendo il non mutevole elemento di congiunzione tra passato e futuro. In tale visione, il ceto contadino diviene il portatore simbolico dei principi etici e civici basilari, in quanto ponte reale tra i valori ancestrali della razza e la struttura della società contemporanea. Nel contesto nazionalsocialista, il contadino diviene inoltre il simbolo di quell’autosufficienza che il regime intendeva contrapporre alla plutocrazia e alla logica del libero mercato sovranazionale (perseguita dalla Repubblica di Weimar).

Non è arduo riconoscere, in queste tesi, importanti punti di contatto con posizioni espresse da Heidegger all’interno di suoi scritti: in Sein und Zeit; nel breve ma significativo intervento dal titolo Warum bleiben wir in der Provinz?; nonché nelle pagine ermeneutiche che egli dedica alla poesia di Johann Peter Hebel.

Nel pensiero heideggeriano troviamo una radicale emancipazione dalla distinzione cartesiana, caratterizzante la Modernità, tra res cogitans e res extensa; Heidegger concepisce, infatti, un rapporto di fondamentale reciprocità tra soggetto e oggetto, tra psiche e realtà esterna. Come il filosofo spiega in Sein und Zeit analizzando la nozione di In-der-Welt-sein, il superamento della distinzione cartesiana conduce, sul piano ontologico, a concepire una coappartenenza originaria della presenza umana e del mondo. [48] L’uomo non può, cioè, essere inteso come una realtà indipendente e a sé stante, alla quale si sommi successivamente, e in modo contingente, un mondo di riferimento; ciò che Heidegger definisce Dasein, “esserci”, è infatti un’apertura ontologica al mondo inteso quale suo orizzonte costitutivo. In questo senso, la terra abitata dall’uomo non è estrinseca alla sua natura, bensì tutt’uno con essa; scindere l’uomo dalla sua terra di appartenenza, concependo (modernamente) un soggetto indipendente da parametri geografico-spaziali significa, per Heidegger, ridurre l’uomo a una Vorhandenheit (“una semplice presenza a portata di mano”), privandolo del suo Was-sein (la sua “essenza costitutiva”). Ecco che il rapporto dell’uomo con la terra diviene perciò fattore ontologico fondamentale, modalità dell’Unverborgenheit (del “disvelamento ontologico”) della verità.

Non a caso, a partire da tali premesse teoretiche Martin Heidegger considera il Wohnen, (“l’abitare”) non come una semplice attività umana, bensì come l’essenza stessa della condizione antropologica, che si esplica negli atti del “costruire” (Bauen) e del “pensare” (Denken). [49] Questo portato ontologico che connette l’uomo alla terra prelude alla santificazione heideggeriana del gesto del contadino: quella mistica reciprocità tra il lavoratore e i suoi originari attrezzi, che un corretta visione filosofica deve emancipare dalle pretese dell’intelletto cartesiano astratto.

Quello che Heidegger definisce Dasein, cioè la peculiare realtà della vita umana, è una concretizzazione dell’Essere (Sein) caratterizzata dalla temporalità (Zeitlichkeit); la possibilità di esistere dell’Esserci può attuarsi in modo autentico (eigentlich) o inautentico (uneigentlich) a seconda di come la temporalità venga sviluppata. [50] Se vi è una preminenza del presente (nel momento in cui il soggetto si concentra sull’ego), si apre lo spazio della vita inautentica; l’Autenticità, al contrario, si afferma nel momento in cui l’Esserci conferisce un primato alle dimensioni del passato e del futuro (e dunque trascende la singolarità soggettiva). Ora, poiché ciò che preserva il legame tra le dimensioni del tempo, rifiutando una concezione di soggetto astratto a sé stante, è propriamente il legame con la terra; e poiché, in modo ancor più specifico, quest’ultimo è custodito simbolicamente dal lavoro del contadino, ecco che l’ambito rurale viene investito da Heidegger di un compito etico e mistico fondamentale, in quanto custodia dell’Autenticità (Eigentlichkeit) della vita nel disvelamento dell’Essere originario nell’Esserci dell’uomo.

La dimensione della Inautenticità (Uneigentlichkeit) è caratterizzata, per Heidegger, dal das Man (“il Si”), ossia la tendenza, insita nell’Esserci, di conformare il proprio comportamento in modo universalmente identico a quello degli “altri”. Conformandosi universalmente, l’Esserci si libera del fardello costituito dal dover decidere del suo stesso Essere. Solo la coscienza (Gewissen) induce l’Esserci alla decisione della Autenticità in cui consiste la sua Essenza. L’universalismo dell’economia libera, priva di confini, spazzando via il sistema rurale realizza esattamente, su di un piano sociale, ciò che Heidegger metafisicamente definisce Inautenticità. Con ciò, le accuse di Darré ai cosmopoliti astratti e senza radici, alla dimensione urbana e senza patria dei popoli moderni si congiungono strettamente all’analitica esistenziale heideggeriana.

I principi del Blut e del Boden propugnati da Darré si riallacciano alla concezione heideggeriana del sentirsi-a-casa; al continuum che il filosofo stabilisce tra il vivente, il nascituro e il sepolto — continuum custodito dal gesto simbolico del contadino, contrapposto all’universalismo liberal-democratico della Modernità. Heidegger ebbe a condensare tale prospettiva del suo pensiero nell’essenziale concetto di Bodenständigkeit, da intendersi come il “radicamento ontologico nel suo territorio” dell’essere umano.

Tale concetto — che Leo Strauss considera centrale nella filosofia heideggeriana [51] — venne aspramente criticato da Levinas, che ebbe ad affermare: «è possibile rimanere umani anche migrando. La migrazione di un uomo non distrugge né demolisce il significato del suo Essere». [52] Non senza ragioni, le parole levinasiane lasciano intendere che, nella prospettiva heideggeriana si concepisca la “migrazione”, vale a dire la separazione di un uomo dal suo spazio originario cui è ancestralmente legato, come una “distruzione e demolizione” del “significato del suo Essere”. In effetti, nello scritto Schöpferische Landschaft, [53] nel quale Heidegger dà ragione della sua permanenza nel contesto rurale della Foresta, vengono forniti molti spunti importanti.

Il dato biografico che mostra come Heidegger fosse visceralmente legato alla zona della Foresta Nera attorno a Freiburg (tanto da fare della sua “Denkhütte” a Todtnauberg una sorta di splendido esilio volontario [54]) è di per sé rivelativo di una tendenza umana e di una visione filosofica tese a idealizzare il contesto dei piccoli centri urbani. In uno dei passi più affascinanti della sua opera, Heidegger descrive la sua condizione nella Baita del Pensiero di Todtnauberg, sottolineando il legame comune che unisce il Denken e il Bauen, il pensiero del filosofo e la presenza del contadino: entrambi connessa alla terra in virtù dell’attività del lavoro.

La gravità delle montagne e la durezza delle loro rocce antiche, la crescita prudente degli abeti, la luminosa e semplice imponenza dei prati in fiore, il mormorio del ruscello nell’ampia notte d’autunno, la severa semplicità delle macchie di neve, lassù tutto ciò si insinua, si addensa e vibra nell’esistenza (Dasein) quotidiana. Neppure negli istanti voluti di immersione nel godimento e di identificazione artificiale, ma solamente quando il proprio essere si confonde nel suo lavoro, il lavoro apre soltanto lo spazio a questa realtà della montagna. Il ritmo del lavoro dimora incastonato nel succedersi del paesaggio […].

E il lavoro filosofico non avviene come un’attività collaterale del villeggiante. Esso appartiene chiaramente al mondo del lavoro del contadino. Quando il giovane contadino trascina la pesante slitta sul pendio, con il suo alto carico di ciocchi di faggio, e si avvia in un procedere pericoloso verso la sua fattoria; quando il pastore, con passi lenti e meditabondi spinge il suo gregge verso la cima, quando il contadino nella sua camera prepara in modo appropriato le innumerevoli assicelle per il suo tetto, allora il mio lavoro è della stessa natura. Di questo consiste la radice dell’inevitabile appartenenza al mondo contadino. [55]

Come nel suo Discorso per l’assunzione del Rettorato, qui Heidegger richiama una idealità del lavoro che riecheggia da vicino le posizioni jüngeriane. Nel Lavoratore, Jünger vede una «forma particolare agente secondo leggi proprie che segue una propria missione e possiede una propria libertà» [56] che gli permette, da un lato, di non essere inglobato nella folla anonima delle “masse”; e, dall’altro, di non ridursi a individuo solo e distaccato da ogni riferimento, connettendosi con una stirpe. A ciò, Heidegger aggiunge nella visione della vita contadina un’ulteriore notazione filosofica, in quanto rileva una “inevitabile appartenenza” del contadino al suo territorio; e poiché il lavoro del filosofo è della medesima natura di quello del contadino, ecco che il pensiero stesso, nella sua essenza, risulta connesso con il territorio, con il contesto rurale della vita non-urbanizzata.

La critica che Darré, nel suo opuscolo, muove al mondo delle città è, in questo senso, parallela e complementare alla riflessione di Heidegger sul mondo urbano dei “cittadini”. Afferma Darré che
[…] la città non può che influenzare negativamente la giovinezza […]. L’anima tedesca, con le sue tensioni, è radicata nel suolo della patria: da esso quell’anima è nata, da sempre rivolta verso fini nobili […]. Gli abitanti delle grandi città raramente trovano, nella loro costante inquietudine, in mezzo al loro mare di cemento, un luogo con il quale si sentano intimamente legati. L’ambiente cittadino genera una troppo precoce indipendenza nella giovinezza, che lascia vegetare la vita dello spirito preferendo il gusto per i pensieri superficiali […]. La città […] produce sempre individui fatti in serie […]
Il “senso interiore”, forse il dono più divino dell’umanità, sembra svilupparsi solo a contatto con la Madre Terra. Esso si sviluppa, infatti, solo nell’irraggiamento cosmico che la Natura produce con tanta abbondanza […]. Il paesaggio agreste agisce sull’anima, per ricevere a sua volta l’influenza della forza creatrice dell’uomo […]. Dall’intimo vincolo con la terra che ne deriva, nasce una maniera d’agire e di comportarsi che dà all’uomo il suo posto in seno al suo popolo […].
Il carattere fondamentale della città è invece il parassitismo. Ogni parassitismo muore quando gli viene sottratta la sua fonte nutritiva; perciò, nel momento in cui un popolo vuole creare una Nobiltà profondamente e stabilmente radicata […], esso non potrà mai realizzarla a partire dal rapporto instabile ed equivoco dell’uomo con la città. [57]
Ciò che Darré chiama “Nobiltà” corrisponde a quanto Heidegger definisce, su di un piano metafisico, “Autenticità”: i medesimi parametri della stirpe e del territorio, infatti, concorrono alla definizione di entrambi i concetti. La città, in questo senso, in quanto agglomerato urbano in cui è spezzato il legame ontologico tra la terra e l’uomo è un’alternativa antropologica nella quale la Nobiltà e l’Autenticità sono escluse. Così come Heidegger vede nell’ambiente cittadino un fatale capovolgimento del rapporto tra Wohnen e Bauen, in quanto l’abitare viene declinato in virtù delle necessità del costruire — con ciò spezzando il legame tra l’Esserci e la temporalità dell’Essere; allo stesso modo Darré riconosce il “parassitismo” come essenza dell’ambiente cittadino, in quanto la città non trova in se medesima il proprio sostentamento e il proprio fondamento, bensì dipende dalla globalità dei flussi, dai mezzi di informazione e da quelli di approvvigionamento — con ciò impedendo la conservazione della tradizione di cui ogni singolo di individuo è espressione.

Assai vicina alle affermazioni heideggeriane è altresì l’asserzione-chiave di Darré, secondo cui «Il paesaggio agreste agisce sull’anima, per ricevere a sua volta l’influenza della forza creatrice dell’uomo»; Heidegger descrive una identica relazione di mutua ispirazione tra la mente del pensatore e l’ambiente della campagna tedesca, definendo infatti la Landschaft — la Contea, il luogo fisico e simbolico di riferimento dell’uomo — come “Schöpferische”, ossia “portatrice di una forza creatrice”. Tale forza è mortificata dalla riduzione antropologica delle città, come Heidegger spiega, in termini filosofici che richiamano direttamente le medesime posizioni espresse da Darré sul piano socio-politico. Scrive Heidegger:
Il cittadino è spinto mediante un cosiddetto soggiorno in campagna tutt'al più a una sorta di eccitazione. […]. I cittadini si stupiscono sovente del lungo e monotono esser soli tra le montagne, in contatto con i contadini. Tuttavia non è un esser soli, piuttosto solitudine. Nelle grandi città, l'uomo può, in effetti, essere facilmente così isolato come in nessun altro luogo. Ma là egli non può mai essere facilmente così solo. Perché la solitudine ha la forza originaria che non ci permette di essere soli, ma al contrario getta l'intera esistenza nell'ampia prossimità dell'essenza di tutte le cose. […]
Il mondo cittadino come il pericolo di divenire preda di una funesta illusione. Spesso sembra che un solo importuno, molto rumoroso, molto attivo, e d’una raffinatezza eccessiva, si curi del mondo contadino e della sua maniera d’essere. Ma in questo modo si nega precisamente ciò che adesso si è reso necessario: tenersi a distanza dall'esistenza contadina, più che mai abbandonata alla sua propria legge; non si tocca — per non esporli a chiacchiere menzognere di letterati su ciò che l’essere proprio d'un popolo e il suo radicamento. Il contadino non ha affatto bisogno né vuole questo zelo dei cittadini. Tuttavia ciò di cui ha bisogno e vuole, è un tatto pudico nei confronti del proprio essere e di ciò che ne fa l'indipendenza. Ma molti cittadini in arrivo qui o di passaggio qui — non ultimi gli sciatori — si comportano oggi spesso nel villaggio o nella fattoria, come se essi “si divertissero” nei grandi luoghi di piacere delle loro grandi città. Tali modi di fare distruggono in una sola sera di più che in decenni di insegnamento scientifico su ciò che fa l'essere di un popolo e sulle sue tradizioni popolari. [58]
La riflessione heideggeriana non è di carattere squisitamente accademico, ma si concentra al contrario su un ideale di vita ben preciso, che l’ambiente contadino delle campagne può e deve preservare; allo stesso modo, le posizioni di Darré non sono di carattere strettamente civico e sociale, presupponendo piuttosto una visione antropologica dell’uomo “nobile” o, come direbbe Heidegger, “autentico”. La città, tanto per Heidegger che per Darré, riduce l’essere umano a una Vorhandenheit. Se Darré vede, nel “parassitario” ambiente cittadino, la perdita del «senso interiore» e il «lasciar-vegetare i pensieri più superficiali», Heidegger vi scorge lo spazio della Inautenticità e del dis-valore nel quale la voce della Gewissen è fatalmente silenziata.

Nella definizione del concetto di Bodenständigkeit il legame tra la speculazione di Heidegger e le teorie di Darré fondate sul Sangue sul Suolo diviene, infatti, esplicito. Scrive il filosofo:
L’appartenenza intima del lavoro [del contadino] con la Foresta Nera e con i suoi uomini viene dal secolare radicamento ontologico nel suolo (Bödenständigkeit) alemanno-svevo. [59]
Importante è inoltre la riflessione heideggeriana sul linguaggio che, come è noto, è al centro di tutta la sua produzione filosofica. [60] Così come l’Abitare, il Linguaggio non è concepito da Heidegger come una facoltà umana, bensì quale precondizione ontologica dell’esserci. Ecco perché il Bodenständigkeit, oltre che una dimensione spaziale nella Landschaft, implica un radicamento di ordine linguistico nel territorio di appartenenza. [61] Le radici del Linguaggio sono, in ultima analisi, le radici dell’Essere nella prospettiva heideggeriana. Heimat e Sprache sono nel suo sistema due concetti speculari e complementari. Un medesimo ruolo viene assegnato alla lingua da parte di Walther Darré e dal gruppo Ahnerbe; nelle spedizioni alla ricerca della Urheimat del popolo germanico il principio-guida di ricerca furono le riflessioni sull’Ursprache di Walther Wüst, collaboratore e sodale intellettuale di Darré. [62] Heidegger, non casualmente, torna sul tema del Bodenständigkeit e sulla contrapposizione filosofica tra città e campagna, nel momento in cui svolge un’ampia riflessione sul linguaggio vernacolare a partire dai versi del poeta Hebel. [63]

Hebel è per Heidegger lo Hausfreund, “l’amico di casa”, colui con il quale si condivide il destino “pellegrinante” dell’essere-uomo in una comune dimensione esistenziale. È il compagno sul sentiero dell’Essere, anche in quanto compagno nel medesimo luogo natale: la terra del Baden. Lo Hausfreund heideggeriano, come è stato notato, è colui che «più di ogni altro sa essere nostro compagno nel vagabonda-re terreno, facendoci intendere quanta ricchezza e quanto godimento possano essere implicati in tanta provvisorietà». [64] Per Heidegger, la cifra dell’opera Johann Peter Hebel è la nostalgia nei confronti della Heimat. In quest’autore tale richiamo, tipicamente romantico, non ha una valenza di ordine metafisico, escatologico o mistico. La Heimat per il cui struggimento si costituisce la poesia di Hebel è non altro che la sua terra natale, la svizzera tedesca e la zona del Baden. Di qui la scelta del vernacolo per comporre i suoi versi, come necessario richiamo di quel luogo perduto.

Pur vivendo a una manciata di chilometri dai suoi amati territori nativi, Hebel è per eccellenza il poeta dello Heimweh, concetto che potrebbe tradursi come “nostalgia inarginabile per il luogo natio”. Tale Heimweh è la modalità attraverso cui Hebel interpreta e declina la Sehnsucht romantica. Gli Allemannische Gedichte di Hebel, nota Heidegger, «sgorgano direttamente dal suo Heimweh per i luoghi perduti». [65]

È in primo luogo questo legame con le proprie radici a interessare Heidegger, in quanto manifestazione di quel legame con l’origine di cui la poesia deve essere realizzazione, ascolto. Ciò è più evidente osservando le considerazioni che Heidegger svolge riguardo l’importanza dell’uso del vernacolo in Hebel. Per Hebel, scrivere in vernacolo non fu meramente un’estetica scelta stilistica. La necessità di evocare i propri luoghi nativi conduce a in quella Muttersprache, quel “linguaggio materno” che è il vernacolo della propria terra. Il “colloquio” con Hebel svolto da Heidegger ruota attorno a una preziosissima considerazione: «Nel dialetto si radica l’essenza del Linguaggio», poiché «Il dialetto non è meramente il linguaggio della madre (Muttersprache); ma altresì la madre del Linguaggio». [66] Heidegger definisce il vernacolo «la fonte, sgorgante di misteri, di ogni ulteriorità del Linguaggio». [67] Possiamo ricordare in questo senso la preziosa distinzione che Heidegger svolge nel già citato saggio Sprache und Heimat. Vi sono per Heidegger due modalità di poesia vernacolare. La prima modalità si serve del dialetto per e-sprimere semplicemente emozioni e dati folklorici legati a un deter-minato luogo; e la seconda, attraverso il dialetto, dispiega l’essenza della poesia, così da far risuonare nel vernacolo una “eco” del Linguaggio originario.

Il concetto di Hausfreund — che Heidegger forgia per il poeta che seppe richiamare con l’uso nostalgico del dialetto le radici dell’Essere — può indicare lo status stesso di poeta: «Hausfreund è il nome di colui che noi definiamo un poeta. Lo Hausfreund non vuole né istruire né educare, egli consegna a chi legge la libertà, affinché pervenga egli stesso alla apertura dell’Essere». [68] Tenendo presente il rapporto stabilito da Heidegger tra Sein e Wohnen, possiamo notare com lo Hausfreund sia, in tale prospettiva, colui con il quale si condivide l’Essere. Lo Hausfreund, in altri termini, è colui che mostra che dichterisch wohnet das Mensch auf dieser Erde, “poetica-mente abita l’uomo su questa terra” — come scrisse Hölderlin affascinando Heidegger con risvolti decisivi. [69] Il Linguaggio (Sprache) è infatti la reale Heimat dell’uomo. Heimat che si manifesta nel legame fondamentale dell’uomo con la propria Terra Natale, come Hebel mostra. Su questi presupposti, il vernacolo del Baden può divenire, in quanto espressione dell’Heimat, il Linguaggio che dischiude l’Essere. Il richiamo a Hebel significa dunque per Heidegger mostrare come l’autentica (eigentlich) dimensione umana sia possibile soltanto nel chiuso di una dimensione che apra: nel luogo circoscritto al quale si appartiene, ossia la Schöpferische Landschaft.

La filosofia del linguaggio heideggeriana richiama dunque direttamente le teorie di Darré, il quale similmente riconosce un reciproco legame tra il linguaggio e la terra natìa. [70] Il linguaggio poetico, e in modo speciale il vernacolo utilizzato da Hebel, conferiscono all’uomo la sua dimensione di Autenticità, che implica il radicamento nella propria terra, nel proprio luogo di abitazione. Il vernacolo permette di (ri)stabilire la reciprocità ontologica tra uomo e mondo, realizzando la Was-Sein del Da-Sein, in quanto il vernacolo connette l’uomo alla propria Heimat o, per dirla nei termini di Darré, alla «dimensione rurale originaria del popolo tedesco». [71]

Benché abbia ricoperto ruoli di estremo prestigio all’interno del Reich, Richard Walther Darré può infine essere considerato, al pari di Heidegger, una figura che non ebbe effettiva possibilità di azione all’interno dei gruppi dirigenziali del regime. Entrato in contrasto con Heinrich Himmler, da un lato, e con il ministro delle finanze Hjalmar Schacht, dall’altro, Darré fu infine emarginato dai centri decisionali e la gran parte delle sue idee espresse in Neuadel aus Blut und Boden rimasero lettera morta. [72] La politica economica di Slacht non prevedeva in alcun modo la possibilità di esonerare le attività agricole dal mercato finanziario, come Darré auspicava nel suo programma; parallelamente, lo pseudo-misticismo militare himmleriano considerava la prospettiva darriana troppo teoretica, fondata su un concetto di tradizione che aveva le sue basi più nel ruralismo campestre che non in una selezione biologico-razziale di una civiltà di scelti, come concepito nell’occultismo nazionalsocialista. [73]

Troviamo dunque nella visione politica di Darré un precipuo (e storicamente minoritario) aspetto del Nazionalsocialismo che appare fondatamente accostabile al principio heideggeriano di Bodenständigkeit. Richiamando, sia concettualmente che terminologicamente, il binomio di Blut und Soil, il principio di Heidegger si connette al senso dell’Autenticità umana, corrispondente alla Nobiltà propugnata da Darré. Trattasi di una visione antropologica non biologista, bensì ruralista, la quale, concependo la Schöpferische Landschaft come luogo ideale di convivenza, assegna all’essere umano il radicamento in uno spazio campestre quale caratteristica ontologica del suo Esserci.


Conclusione: in che senso “ormai solo un Dio ci può salvare”

Il ruralismo heideggeriano (testimoniato altresì dalla grande abbondanza, nella sua scrittura, di lemmi e metafore collegate al mondo campestre e montano) si lega dunque intimamente con la visione politica di Darré; la scaturigine di tale visione risiede nel concetto di Dasein definito dal filosofo, in quanto esso implica una relazione ontologica inscindibile tra il soggetto umano e la sua terra d’appartenenza. A sua volta, tale concezione si fonda sulla differenza ontologica tra l’Essere e l’ente che è alla base di tutto il sistema heideggeriano. Il fondamentale anti-umanesimo di Heidegger prende le mosse esattamente dalla visione dell’Essere come orizzonte trascendente al soggetto, non riducibile a semplice-presenza. Non essendo il soggetto la misura della realtà, la prospettiva antropologico-politica di questo filosofo scorge nella ricerca di un’ulteriorità non “a portata di mano” l’aspetto teleologico di ogni convivenza umana. In tale specifico senso, l’anti-umanesimo di Heidegger può essere considerato come il più profondo e radicale rifiuto, nella storia della filosofia contemporanea, di ogni sistema democratico. Infatti, nella prospettiva heideggeriana la democrazia potrebbe essere definita come la fondamentale sistematizzazione di una convivenza umana intesa con parametri ontici, non ontologici.

Come è noto Heidegger, in Brief über den Humanismus, riprendendo una tesi già espressa in nuce in Sein und Zeit, spiega come l’esistenza umana possa considerarsi da due punti di vista: su di un livello existentiell, ossia secondo l’immediatezza della sua presenza; o su di un livello existential, ossia in quanto modalità dell’Essere che si esplica nell’Esserci. In questa seconda prospettiva, che è quella difesa dal filosofo, l’agire umano e tutto l’orizzonte etico-politico non possono strutturarsi in virtù di un fine immanente e plurisoggettivo, poiché il riferimento ultimo è posto in quell’Essere che trascende ogni presenza e ogni soggetto. La democrazia, per definizione, è la sistematizzazione di una visione antropologica di tipo existentiell. La visione di Heidegger — in questo tangente con quella di Carl Schmitt — si concentra su di un rifiuto degli organi democratici, in quanto tesa alla ricerca di un senso dell’umano quale segno di un’ulteriorità ontologica.

La Wahlverwandtschaft tra Heidegger e il Nazionalsocialismo ha probabilmente in tale prospettiva anti-umanistica il suo nodo più profondo; essa, da un lato, è scevra dai caratteri antisemiti propri del biologismo razziale hitleriano; e, dall’altro lato, prelude a quel ruralismo del Bult und Boden che, come abbiamo visto, è compendiato nella concezione di Darré.

Se la ricerca di una dimensione oltre-umana ha condotto una parte importante della cultura nazionalsocialista verso l’Occultismo e le pratiche magiche, [74] in Heidegger essa fonda un sistema filosofico che, rifiutando il primato moderno del soggetto, intende la presenza umana come concretizzazione dell’Essere trascendente: in entrambi i casi, sebbene con decisive differenze, l’orizzonte politico viene letto in funzione dell’espressione della differenza ontologica. Così come Otto Rahn si mise alla ricerca del perduto Graal [75] — potremmo dire con una icastica comparazione — per svelare il segreto mistico nel cuore della cultura europea, similmente Martin Heidegger intese evadere dal recinto della metafisica occidentale che pensa come equivalenti l’Essere e l’ente. Così come il destino di Otto Rahn si interruppe tragicamente tra le Montagne del Tirolo, quello di Martin Heidegger lo condusse al ritiro nella sua Baita nella Foresta Nera. Entrambi sono “sentieri interrotti” verso la ricerca dell’Essenza dell’Essere. Sentieri che hanno segnato cammini intimamente legati al credo nazionalsocialista, eppure al contempo non riducibili al senso ortodosso del movimento hitleriano.

Comprendiamo dunque l’apparentemente enigmatica risposta, «Ormai solo un Dio ci può salvare», che Heidegger riservò all’intervistatore del «Der Spiegel», nel 1966, riguardo la sua supposta “compromissione” con il Nazionalsocialismo. Tra i due, si pose un fraintendimento di fondo del quale il filosofo era estremamente consapevole, e che intendeva mostrare portandolo al parossismo. Il Nazionalsocialismo di cui parlava il giornalista era infatti altra cosa rispetto al concetto heideggeriano di Nazionalsocialismo. Questa decisiva ambiguità semantica non può essere sottovalutata in una lettura critico-ermeneutica del rapporto tra Martin Heidegger e il regime. Afferma il pensatore:
La filosofia non potrà più produrre nessun cambiamento nello stato attuale del mondo. E questo è vero non soltanto per la filosofia: ma anche per ogni altra intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, quale ultima possibilità, quella di predisporre – attraverso il pensare e il poetare – un’accoglienza all’apparizione di Dio o all’assenza di Dio nel tramonto (ossia il fatto che, al cospetto del Dio assente, siamo noi che tramontiamo). [76]
La posizione di Heidegger è irriducibilmente nazionalsocialista, in quanto il suo Nazionalsocialismo non possiede connotati storici, essendo un principio ideale. Il mondo che si dispiega dal Dopoguerra sotto gli occhi dell’Europa è, per il filosofo, la conferma del suo credo speculativo: il fenomeno geopolitico che sarà più tardi definito “globalizzazione” [77] può essere visto, infatti, come l’assoluto opposto del ruralismo heideggeriano che concepisce un rapporto ontologico tra l’uomo e la sua terra di appartenenza secondo il principio del Bodenständigkeit. In questo preciso senso, elisa ogni possibilità di sussistenza di una Landschaft, l’essere umano è privato della possibilità dell’Autenticità, venendo risucchiato inevitabilmente nel contesto universalistico, mediatico e democratico del das Man.

Deluso due volte dal regime — dalla sua affermazione politica e dalla sua negazione storica — la prospettiva della filosofia heideggeriana rimase in questo senso immutata dagli anni ’20 sino alla sua morte, nella ricerca di un orizzonte oltre-umano dell’esistenza che il Nichilismo della Modernità, non meno delle atrocità naziste, aveva a suo avviso disatteso fatalmente, impostando l’orizzonte del vivere europeo sull’equivalenza tra Essere e ente.

A quel mondo urbanizzato, il filosofo contrappose perciò il paesaggio della sua Landschaft, come una sorta di ultimo segno di vita autentica nel “tempo della povertà”:
Lungo il versante i prati e i pascoli salgono fino alle foreste di vecchi pini, alteri e oscuri. Su tutto questo si stende un chiaro cielo d'estate e nel suo spazio radioso due sparvieri si alzano in volo, descrivendo larghi cerchi in spirale […]. Recentemente ho ricevuto un secondo invito dell'Università di Berlino. In quelle occasioni abbandono la città per ritirarmi nel mio rifugio. Ascolto ciò che le montagne e le foreste e le fattorie hanno da dirmi. È così che vado a visitare un mio vecchio amico, un contadino di 75 anni. E gli ho letto nel giornale dell'invito di Berlino. Che dirà? Egli getta uno sguardo sicuro dei suoi occhi chiari nei miei, tiene la bocca rigorosamente chiusa, posa la sua mano grave e leale sulla spalla e scuote impercettibilmente la testa. Ciò vuol dire: decisamente No!. [78]


[1] Cfr. H. Zaborowsy, Eine Frage von Irre und Schuld?: Martin Heidegger und der Nationalsozialismus, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am M. 2010; A. Denker, H. Zaborowsky (a cura di), Heidegger und der Nationalsoziali-smus, Dokumenten, Interpretationen (2 voll), Verlag Alber, München 2009; O. Pöggeler, Philosophie und Nationalsozialismus: am Beispiel Heideggers, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1990; J. Altwegg (a cura di), Die Heidegger Controverse, Frankfurt am M., Athenaum, 1988.

[2] Per lo stallo di entrambe queste opposte interpretazioni, cfr. G. Sans, Al crocevia della filosofia contemporanea, Roma, Gregorian & Biblical Press, Roma 2012, p. 208. I saggi, più avanti citati, di E. Faye e di G. Vattimo possono considerarsi come esempi emblematici delle due prospettive.

[3] Cfr. G. Schneeberg, Nachlese zu Hidegger Dokumente zu seinem Leben und Denken, Suhr, Bern 1962; F. Fédier, Heidegger: anatomie d'un scandale, Gallimard, Paris 1988. I documenti citati sono presenti in M. Heidegger, Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweg, Klostermann, Frankfurt a M. 2000.

[4] J. P. Feinmann, La sombra de Heidegger, Seix Barral, Buenos Aires 2005.

[5] M. Heidegger, L’autoaffermazione della Università tedesca, a cura di A. Angelino, Genova, Il Melangolo 2002.

[6] M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, Niemeyer, Tübingen 1953, p. 208 (traduzione mia).

[7] Cfr. R.L. Bytwerk, Julius Streicher: Nazi Editor of the Notorious Anti-Semitic News-paper Der Stürmer, Cooper Square Press, New York

[8] Cfr. A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts. Eine Wertung der seelisch-geistigen Gestaltenkämpfe unserer Zeit, Beck, München, 1930. Per un approfondimento, J.B. Whisker, The Philosophy of Alfred Rosenberg, Noontide Press, Boston 1990.

[9] Cfr. W. Maser, Adolf Hitlers “Mein Kampf”. Geschichte, Auszüge, Kommentare, Bechtle, Esslingen 2001; B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf” – Eine Interpretation, Fink, München 2006.

[10] Cfr. D. Irving, Goebbels. Mastermind of the Third Reich, Parforce, London 1999.

[11] L’intervista fu rilasciata nel 1966 ma, per espressa volontà del filosofo, fu pubblicata solo dopo la sua morte, precisamente in «Der Spiegel», XXX, 1976, n.32 pp. 193-219; Edizione italiana a cura di A. Marini, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, Guanda, Parma, 1987.

[12] E. Krieck, «Volk im Werden», II, 1934, pp. 247, 249; traggo la citazione da F. Volpi, Guida a Heidegger, Laterza, Milano 2005, p. 37.

[13] Cfr. M. Heidegger, Nietzsche (2 voll.), Frankfurt a M., 1996-1997, di contro alle riflessioni di A. Baeumler, Nietzsche, der Philosoph und Politiker, Reclam, Leipzig 1931.

[14] Cfr. H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, Frankfurt a M., Campus, 1988.

[15] G. Moretti, “Alfred Baeumler”, in Filosofia oggi, n. 3 (1987), pp. 393-407.

[16] Cfr. E. Nolte, Heidegger e la rivoluzione conservatrice, Milano, SugarCo 1997.

[17] A. Marini, “La politica di Heidegger”, in M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 9.

[18] «Il suo discorso ha una sostanza credibile» – scrive Jaspers a Heidegger – «In Lei è lecito sperare che all’interpretazione filosofica faccia seguito una concretizzazione di quello che dice […]. È finora l’unico testo che documenti una volontà accademica destinata a durare». In M. Heidegger - K. Jaspers, Briefwechsel, 1920-1963, a cura di W. Biemel und H. Saner, Klostermann, Frankfurt am M.-München-Zürich 1990, p. 155.

[19] Cfr. K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Milano, 1996.

[20] Cfr. Cfr. T .W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit, Zur deutschen Ideologie, Frankfurt a M., Neuaufl. Suhrkamp, Frankfurt/M. 1992.

[21] H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, cit. pp. 88 sgg.

[22] Ibidem.

[23] Il 5 giugno del 1949, Jaspers scrive a Gerd Tellenbach, allora nuovo rettore della Università di Freiburg: «è un obbligo per la Germania e per l’Europa provvedere affinché un uomo della statura intellettuale di Jaspers possa lavorare in tranquillità, continuare la sua opera e pubblicarla […]. L’università tedesca non può permettersi di lasciare in disparte Heidegger» (Cfr. M. Heidegger - K. Jaspers, Briefwechsel, 1920-1963, cit., pp. 275-276).

[24] La notizia, senza nessuna testimonianza de visu, venne inizialmente fatta circolare da un articolo di Alfred Grosser apparso sul «France Observateur» il 9 dicembre del 1964.

[25] Episodio sostenuto per la prima volta in un articolo di Bondy nel Neue Zürcher Zeitung del 5 gennaio 1961. Fu la figlia dello stesso Husserl a smentire, con una lettera datata 30 ottobre 1967 alla rivista Critique (30 ottobre 1967), tutta la vicenda. Nella lettera si legge, tra l’altro, la seguente affermazione: «Che Heidegger abbia tra-smesso a mio padre un divieto personale è del tutto improbabile. Nelle numerose conversazioni avute con i miei genitori non ne ho mai senti-to parlare. Mio padre è andato in pensione nel 1928 e, da allora, non ha più frequentato l'Università. Dopo il 1933, ovviamente, ha vissuto in modo completamente ritirato. Non faceva già più uso della bibliote-ca da quando aveva smesso di insegnare» (In effetti, come testimonia anche Max Müller, Husserl, nel periodo del rettorato di Heidegger, «poteva filosofare come voleva e riscuoteva per intero il suo stipendio di professore emerito. Husserl fu risparmiato dalle persecuzioni. [...]. Mai, in nessuna occasione, Heidegger ha detto una sola parola contro Husserl» (M. Müller, “Martin Heidegger. Un filosofo e la politica”, in G. Neske, E. Kettering, Antwort. Martin Heidegger im Gesprach, Pfullingen, Verlag Neske, pp. 215-238).

[26] V. Farias, Heidegger et le nazisme, Verdier, Lagrasse 1987.

[27] F. Fedier, Heidegger e la politica: anatomia di uno scandalo, Egea, Milano 1993.

[28] E. Faye, Heidegger, l'introduction du nazisme dans la philosophie, Ed. italiana a cura di L. Profeti, Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012.

[29] A questo proposito, Gianni Vattimo ha icasticamente definito il lavoro di Faye come una sorta di “Processo di Norimberga” critico, in Faye, Heidegger non era razzista, «La Stampa», 6 Maggio 2012.

[30] Cfr. R. Panattoni, L’origine del conflitto. Martin Heidegger-Ernst Jünger-Carl Schmitt, Il Poligrafo, Padova 2002.

[31] R. Aron, Memorie: 50 anni di riflessione politica, Mondadori, Milano 1985, p. 36.

[32] G. Steiner, Heidegger, Fontana Collins, London 1978, Ed. italiana., a cura di D. Zazzi, Mondadori, Milano, p. 141.

[33] R. Kalibansky, “L’Université allemande dans les années trente (Notes autobiogra-phiques)”, in Revue de la société de philosophie du Québec, 139-158, p. 153.

[34] L. Strauss, Introduzione all’esistenzialismo di Heidegger, in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino 1998, pp. 357-378.

[35] Su questo tema, cfr. M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, Vita e Pensiero, Milano 1995.

[36] S. Fleischacker (a cura di), Heidegger’s Jewish Followers: Essays on Hannah Arendt, Leo Strauss, Hans Jonas and Emmanuel Levinas, Hardback, New York, 2007; R. Wolin, Heidegger’s Children. Hannah Arendt, Karl Löwith, Hans Jonas and Herbert Marcuse, Princeton, 2001; F. Volpi (a cura di) Su Heidegger. Cinque voci ebraiche (con scritti di: Günther An-ders, Hannah Arendt, Leo Strauss, Karl Löwith, Hans Jonas), Milano, 1999.

[37] Heidegger fu allievo e assistente di Edmund Husserl, amico di Max Scheler e di Edith Stein; ebbe tra i suoi più brillanti allievi Karl Löwith, Emanuel Levinas, Hans Jonas, Leo Strauss, Melene Weiss; quale assistente Werner Brock; come confidente-messaggero Frédéric de Towarnicki; come amante-discepola Hannah Arendt.

[38] Cfr. J. K. Lyon, Paul Celan and Martin Heidegger: An Unresolved Conversation, 1951-1970, John Hopkins University Press, Baltimore 2006; H. France-Lanord, Paul Celan et Martin Heidegger, le sense d’un dialogue, Fayard, Paris 2004; V. Vitiello, “Heidegger/Celan, Un rapporto impossibile”, in F. Duque, V. Vitiello, Celan Heidegger, Mimesis, Milano 2011, pp. 47-74; C. Catà, La passeggiata impossibile. Martin Heidegger e Paul Celan tra il niente e la poesia, Aracne, Roma 2012.

[39] Cfr. N. Goodrick-Clarke, The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology, New York, 1992; R. Alleau, Le origini occulte del nazismo. Il Terzo reich e le società segrete, Roma, 2000; G. De Turris (a cura di), Esoterismo e Fascismo, Roma, 2006.

[40] L. Pauwels, J. Bergier, Le matin des magiciens: introduction au réalisme fantastique, Gallimard, Paris 1960; edizione italiana, Il mattino dei maghi. Introduzione al realismo magico, Mondadori, Milano 1977.

[41] Ivi, p. 294.

[42] Cfr. R. Von Sebottendorff, Prima che Hitler venisse. Storia della società segreta Thule, Carmagnola, 1987; G. Zaffiri, Alla ricerca della mitica Thule: spedizioni ed esplorazioni naziste nel mondo, Bari, 2006.

[43] Per un approfondimento della figura di Darré, cfr. A. Bramwell, Blood and Soil: Waltehr Darré and Hitler’s Green party, Abbotsbrook, Buckinghamshire 1985.

[44] W. Darré, Neuadel aus Blut und Boden, J. F. Lehmann, München , 1929. Ed. italiana La nuova nobiltà di sangue e suolo, Ritter, Milano 2010.

[45] Cfr. M. Kater, Das “Ahnerbe” der SS 1935-1945. Ein Beitrag zur kultur Politik des Dritten Reiches, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1974.

[46] Cfr. C. Hale, Himmler's Crusade: The Nazi Expedition to Find the Origins of the Aryan Race, Castle Books, New Jersey 2007.

[47] Per un approfondimento, cfr. A. D’onofrio, Razza, sangue e suolo : utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista, Clio Press, Napoli 2007.

[48] Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Klostermann, Frankfurt a M. 1977 (1927), §§ 12-19.

[49] Cfr. M. Heidegger, “Bauen, Wohnen, Denken. Darmstädter Gespräche des Deutschen Werkbundes” (1951), in E. Führ, Bauen und Wohnen, Waxmann, Münster 2000.

[50] M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., § 9.

[51] L. Strauss, Studies in Platonic Political Philosophy, University of Chicago Press, Chicago 1980, pp. 33-34.

[52] E. Lévinas, Entre Nous, Columbia University Press, New York 1998, p. 117.

[53] M. Heidegger, “Schöpferische Landschaft. Warum bleiben wir in der Provinz?”, in Aus der Erfahrung des Denkens (1910-1976), pp. 9-13. Ed. it. “Perchè restiamo in Provincia?”, in M. Heidegger, Scritti Politici, Casale Monferrato, 1998, pp. 179-83.

[54] Cfr. F. de Torwanicki, Ricordi di un messaggero della Foresta Nera: incontro ad Heidegger, Diabasis, Reggio Emilia, 1997.

[55] M. Heidegger, “Perché restiamo in Provincia?”, in Id., Scritti politici, cit., pp. 179-83.

[56] E. Jünger, Der Arbeiter: Herrschaft und Gestalt, Klett-Cotta, Stuttgart, 1982, p. 85.

[57] W. Darré, La nuova Nobiltà di Sangue e Suolo, cit., pp. 81-86 (traduzione modificata).

[58] M. Heidegger, “Perché restiamo in Provincia?”, in Id., Scritti politici, cit., p. 180.

[59] Ibidem.

[60] Cfr., per un quadro introduttivo, L. Amoroso, “Arte, poesia e linguaggio”, in F. Volpi (a cura di), Guida ad Heidegger, cit., pp. 199-243.

[61] Cfr. l’importante scritto heideggeriano “Sprache und Heimat” in Aus der Erfharung des Denkens, Frankfurt am M., 1983; edizione italiana, “Linguaggio e terra natìa”, Aut-Aut, 235 (1990), pp. 3-24.

[62] Cfr. C. M. Hutton, Linguistics and Third Reich: Mother-tongue fascism, race and science of language, Routledge, New York, 1999.

[63] Cfr. M. Heidegger, Hebel, der Hausfreund, Pfullingen, 1957; edizione italiana Hebel. L’amico di Casa, Aquaplano, Perugia 2012. Di Hebel Heidegger parla anche nell’affascinante saggio, già citato, “Sprache und Heimat”. Due frammenti contenenti considerazioni su Hebel sono inoltre costituiti da “Für das Langenharder Hebelbuch” e “Die Sprache Johann Peter Hebels”, in Denkerfahrungen, Klostermann, Frankfrut a M. 1984. Per un approfondimento cfr. G. Moretti, “Heidegger interprete di Hebel”, in G. Moretti (a cura di), Heideggeriana. Saggi e poesie nel decennale della morte di Heidegger (1976-1986), Itinerari, Lanciano 1986, pp. 302-319; R. Minder, “Heidegger und Hebel oder die Sprache von Messkirch”, in Idem; Dichter in der Gesellschaft, Insel, Frankfurt am M. 1966, pp. 210-264; F. Favino, Hebel: l'amico di casa presentato da Heidegger, Tipografia Operaia, Roma, 1957.

[64] F. De Alessi, Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991, p. 100.

[65] M. Heidegger, Hebel, der Hausfreund, cit., p. 10.

[66] M. Heidegger, “Sprache und Heimat”, in Aus der Erfharung des Denkens, cit., p. 3.

[67] M. Heidegger, Hebel, der Hausfreund, cit., p. 10.

[68] Ivi, p. 13.

[69] Cfr. per un’introduzione alla tematica, B. Allemann, Holderlin und Heidegger, Atlantis verlag, Zurich 1954.

[70] W. Darré, Neuadel asu Blut und Boden, cit., pp. 91 sgg.

[71] Ivi, p. 14.

[72] Cfr. A. Bramwell, Blood and Soil: Waltehr Darré and Hitler’s Green party, cit.

[73] Cfr. N. Goodrick-Clarcke, Die okkulten Wurzeln des Nationalsozialismus, Stocker Graz, 1997.

[74] Cfr. G. Galli, Hitler e il Nazismo magico, Rizzoli, Milano 2007; L. Hans-Jurgen, La luce del sole nero. Il Rasputin di Himmler e i suoi eredi, Settimo Sigillo, Roma 2007.

[75] Cfr. H.G. Lange, Otto Rahn und die Such nach dem Graal, Arun-Verlag, Berlin 1999.

[76] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 136.

[77] Per un’introduzione al tema in tale prospettiva, cfr. Z. Baumann, Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma 2012; A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale: per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2012.

[78] M. Heidegger, Perché restiamo in Provincia?, cit., p. 183.



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