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L’Affaire Hannah Arendt
A cura di Marco Baldino




Il Dispositivo antisionismo
Hannah Arendt, François Châtelet, Gilles Deleuze, Michel Foucault

di Marco Baldino

23 settembre 2017


PREMESSA

Mi rendo conto che chiamare in causa alcuni importanti nomi, forse tra i più importanti nomi filosofici del secondo Novecento, a proposito di antisemitismo, significa dissacrare intoccabili icone [1], ma in verità, per quanto mi riguarda, si tratta solo di argomentare intorno all’influenza che il loro pensiero esercita sulle nuove forme di antisemitismo. Il nostro problema non sarà tanto rovistare nei panni sporchi di alcuni intoccabili, ma di interrogarci intorno a ciò che in essi invece permette anche paradossalmente l’antisemitismo.

Michel Foucault, rispondendo ad alcune domande sul Gulag, ha affermato un giorno: «C’è chi pone la il problema del Gulag e chi non lo pone». Tra i pochi che se lo pongono ci sono quelli alla ricerca dell’errore, della deviazione, della mistificazione speculativa o pratica per il quale «la teoria ha potuto essere tradita a tal punto». Mentre il problema è «al contrario, interrogare questi discorsi [segnatamente Marx e Lenin] (…) a partire dalla realtà del Gulag. Invece di cercare in questi testi ciò che potrebbe assolverli a priori, si tratta di chiedersi ciò che in essi ha permesso il Gulag». Questo atteggiamento, che è rivelativo dell’approccio di Foucault, lo adotteremo, per quanto ne saremo capaci, nel presente seminario: non cercare nei nostri intoccabili qualcosa che li assolva a priori, ma interrogarci intorno a ciò che in essi invece permette il “nuovo antisemitismo”. [2]


TESI

In primo luogo vorrei tentare rimettere sulle gambe una questione che ha subìto nel tempo un rovesciamento complicato, la questione del sionismo. Rovesciando il rovesciato vediamo emergere una veduta scomoda per la sensibilità contemporanea, almeno in certe settori acculturati della società, (“progressisti”, “di sinistra”). A questi bisognerà pur ricordare che il sionismo è il movimento politico internazionale il cui fine era ed è l’affermazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato ebraico. Tale questione assume un aspetto del tutto nuovo e un’imprescindibilità del tutto particolare dopo l’Olocausto. L’Olocausto ha costituito la differenza ebraica per mezzo di una nuova articolazione che ne esprime l’identità per mezzo: a) di uno statuto vittimario; b) dello sforzo di resistenza allo sterminio. La manifestazione storica di questa differenza si chiama “Israele”. La questione di Israele non può quindi essere disgiunta dal fattore resistentivo dell’identità ebraica. Del resto così è sentita dagli ebrei di tutto il mondo e, sebbene in modo capovolto, dagli antisemiti di tutto il mondo. Una convergenza curiosa che, almeno io, tendo ad assumere con valore di dimostrazione.

Gilles Deleuze
Un testo dove può essere rinvenuto con chiarezza il rovesciamento a cui accennavo è il saggio che Gilles Deleuze ha dedicato alla grandezza di Arafat (1983) [3]. Non intendo esprimere giudizi su Deleuze, sarebbe persino ridicolo, ma leggere il suo testo in relazione al nostro problema. Del resto si tratta di un brevissimo scritto, ultra minore, che non impegna la riflessione deleuziana nel suo insieme. Non così sarà per altri autori. Ma questo lo vedremo.

In questo articolo, Deleuze, ciò che è proprio del popolo israeliano, lo viene predicando del popolo palestinese, attraverso un capovolgimento che non posso non definire irritante. Eccone i termini: non direste che il popolo ebraico ha saputo resistere e resiste (allo sterminio fisico e alla cancellazione dell’identità), che da popolo diasporico è diventato una nazione armata, che si è dato un organismo che non si limita semplicemente a rappresentarlo, ma lo incarna anche fuori dal territorio sul quale ha edificato uno Stato? Ebbene, Tutto ciò, resistenza allo sterminio, passaggio dalla condizione diasporica [?] a quella di nazione armata, costituzione di un organismo politico capace di incarnarlo dentro e fuori il suo Stato, tutto questo Deleuze lo attribuisce, paradossalmente, quasi irrisoriamente direi, ai Palestinesi [4]. Non voglio discutere il fatto se i Palestinesi possano o no essere oggetto di una tale descrizione, osservo solo che una conseguenza di tale rovesciamento, oggi che anche Deleuze è morto da ventitré anni, è che il “nuovo antisionismo” si presenta come negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato “ebraico”. A tale proposito vorrei chiarire subito una cosa: lo stato ebraico non è uno stato confessionale, perché, come vedremo, l’elemento identitario del popolo che vi si incarna non è la religione — su questo punto Deleuze ha fallato orribilmente. Questa negazione del diritto degli ebrei a costituirsi in un stato ebraico, qualsiasi cosa si spensi dei Palestinesi, è un “antisemitismo”. È questo il terminus technicus, così come il “sionismo” è l’appello con cui tale “diritto” risuona nel mondo. Ed è per questo che l’antisemitismo si presenta oggi per lo più nella forma di un antisionismo ed è esattamente questo che fa problema, molto più delle forme residuali neonazi.

Hannah Arendt
Tra i fondamenti filosofici del “nuovo antisemitismo” — questo è il secondo rovesciamento a cui è soggetto il rapporto Israele e diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico — si trovano alcune conclusioni presenti negli scritti di Hannah Arendt. Arendt, ebrea scampata allo sterminio, nega strettamente la legittimità dello “stato ebraico”.

Ecco alcuni esempi di “nuovo antisemitismo”: la voce “Cisgiordania” della libera enciclopedia on line Wikipedia, riporta, al paragrafo “Lo status della regione”, la seguente affermazione: «legittimità giuridica della fondazione dello Stato di Israele», accompagnata da un punto interrogativo tra parentesi tonde: «legittimità giuridica della fondazione dello Stato di Israele (?)». Non si discutono più le scelte politiche di questo o quel governo di Israele, si sposano semplicemente le tesi dell’illegittimità dello stato ebraico. Qui l’autore lascia il lettore un certo grado di libertà: sarà vero? Si tratta proprio di legittimità giuridica? Altro esempio è quello della Southampton University, una delle più prestigiose università del Regno Unito che, nel 2105, aveva programmato un grande convegno internazionale su “International Law and the State of Israel: Legitimacy, Responsibility and Exceptionalism” in cui veniva posta in discussione in modo inequivocabile non la politica di Israele, ma la sua natura, il suo diritto all’esistenza. [5]

Tale negazione è posta in nome della nozione di “uomo in generale” quale membro autentico della Polis. La Arendt ripete spesso nei suoi saggi sulla questione palestinese (che ai tempi non era la questione del popolo palestinese, ma la questione dell’insediamento ebraico in Palestina), che «Il vero obiettivo degli ebrei, in Palestina, [è, dovrebbe essere] l’edificazione di una patria ebraica [cioè il focolare nazionale ebraico in Palestina nello stile Balfour-Weizmann]. [E che] Questo obiettivo non deve [dovrebbe] mai essere sacrificato alla pseudo-sovranità di uno Stato ebraico» [6]. La Arendt distingue qui il principio Homeland (patria) da quella forma di sovranità politica che lei crede essere di origine tedesca, lo Staat-prinzip, e che invece è di origine francese [7] e illuministica [8], da dove i tedeschi l’hanno presa. E anche se in un saggio del 1948 [9] la Arendt sembra ormai aver digerito l’esistenza dello Stato ebraico come tale, appare comunque strana, vedremo, l’inversione tra i termini patria (focolare nazionale) e Judenstaat (stato ebraico). Ora, tale inversione, che per altro conduce al cuore della teoria politica della Arendt, sta alla base anche della sua critica al sionismo. Cerco di chiarire.
Il suo problema è quello della Polis. Noi sappiamo che di lì a poco, nel 1958, darà alle stampe il suo libro più noto e studiato, The Human Condition (in italiano: Vita activa [10]), il quale prende le mosse dalla riabilitazione del significato greco di Polis. Arendt ricorda che se presso i Greci l’oikía (di contro alla pólis) era l’ambito del governo di uno solo, una monarchia, una tirannide [11], mentre nel mondo moderno, dove l’antica demarcazione tra pubblico (pólis) e privato (òikos) si stempera, accade che, con il sorgere della società, nel XVIII secolo, certe caratteristiche dell’antica famiglia vengano assorbite da macrostrutture che perpetuano la distinzione tra dimensione pubblica come ambito della libertà e dell’azione e dimensione privata come ambito della tirannide, del governo di uno su tutti [12]. Questo era tuttavia il suo problema già nel 1950, quando trattava dei temi palestinesi, della realizzazione di una forma di stato il più vicino possibile al modello della Polis greca. Nel caso della Palestina, Polis, per lei, era l’amalgama arabo-ebraico. La nozione di una sovranità ebraica era perciò vista come una manifestazione tirannica, un rovesciamento del principio stesso del politico — del resto la Arendt non aveva mai smesso di negare che il movimento herzliano meritasse l’appellativo di “movimento politico” — a favore di un potere autocratico a carattere privatistico, in altre parole lo Judenstaat di impostazione herzliana. Lo Judenstaat era, per la Arendt, dell’ordine dell’oikía, mentre la Homeland, di impostazione balfouriano-weizamanniana, era, almeno tendenzialmente, dell’ordine della pólis. È la stranezza di questa inversione che la spinse a equivocare sull’origine della forma-stato e a preferirgli, nel caso della Palestina, la Home-land [patria], ossia quella terra che è la casa [òikos] dove si abita con la famiglia. Lo Judenstaat, invece, per la Arendt è né più né meno che una contraffazione di stato, l’instaurazione di una “pseudo-sovranità”, perché lo Stato non può essere definito per mezzo di un aggettivo etnico, particolare, quindi “privato”, lo Stato o è pubblico, cioè universale, o non è. Esattamente come in Spinoza, che non a caso esclude gli ebrei in quanto ebrei dalla Polis. C’è un bel libro di un filosofo e rabbino tedesco-israelo-candaese, Emil Fackenheim, morto a Gerusalemme nel 2003, che mostra come nella “Prefazione” del Trattato teologico-politico Spinoza, nel tracciare le linee fondamentali della Polis o, nel linguaggio di Fackenheim, dello Stato liberale, l’ebreo come tale non vi trovi posto [13]. La Polis non può ergersi sulla fedeltà al Libro. L’ebreo come tale, proprio perché fedele a un Libro, non solo è inassimilabile (Spinoza), ma non può nemmeno dar vita ad uno “Stato” (Arendt), perché ne farebbe appunto uno Stato ebraico, mentre la Polis può ergersi solo sulla forma “uomo-in-generale”, non sulla particolarità “popolo-del-Libro”. E per Spinoza — è utile ricordarlo — l’ebraismo è “particolaristico” in sé e per sé. [14]

A questa posizione possono essere mosse due obiezioni. La prima è che la forma “uomo-in-generale” è la base su cui si sviluppa il “razzismo di stato”, rapporto messo in luce da Foucault nel 1976.

Gli argomenti sull’infondatezza dell’universalismo sono in verità due, quello di Foucault, analizzato più sotto, che fa derivare il razzismo di stato dalla trasformazione illuministica delle compagini sociali in stati-nazione, ovvero in omogeneità bio-politiche; e quello di Lyotard, per cui lo stato-nazione repubblicano nato dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese, è sempre minacciato dal paradosso dell’autorizzazione: chi autorizza l’istanza d’enunciazione? È sempre un’istanza particolare a dichiarare il valore universale di questo e di quello (l’assemblea che rappresenta un popolo singolo, il Führer di un particolare Volk, il professore di una particolare disciplina, università, città, paese, lingua). Combinando i due argomenti si nota come l’universalismo dello stato-nazione repubblicano è in realtà la manifestazione di un particolarismo bio-politico sempre minacciato dalla deriva razzista nei termini di Foucault (e questo lo vedremo meglio), che quindi si auto-confuta. [15]

La seconda è che la forma su cui si è istituita la sovranità ebraica dopo il ’48 non è quella di “popolo-del-Libro”, ma quella di “popolo-della-Shoah”.

È possibile tracciare le linee essenziali di tale trasformazione identitaria con riferimento ad alcune cesure storiche. La prima è senz’altro la svolta imposta da Chamberlain alla politica inglese nel 1939 nei confronti del movimento sionista, che da una posizione di sostanziale fiancheggiamento passa ad una posizione di aperta ostilità. Questo cambiamento di prospettiva, che prevedeva la limitazione dell’immigrazione ebraica entro un terzo della popolazione totale, il divieto della vendita di terre agli ebrei in Samaria, nella Striscia di Gaza e nella regione di Be’er Sheva, avviene subito dopo la fine della rivolta araba contro le autorità britanniche e, dopo il 1937, contro l’ipotesi, formulata dalla Commissione Peel, di una spartizione della Palestina. Preso atto del peso politico del mondo arabo che, nel suo insieme, osteggiava la nascita di uno stato ebraico in Palestina, il libro bianco inglese del 1939 cancellò l’ipotesi di spartizione e promise la smobilitazione nel giro di dieci anni, dopo di che la regione si sarebbe retta da sola, secondo il principio di maggioranza. Questa svolta produsse un choc nella comunità ebraica di Palestina: Ben-Gurion dichiarò che quello era “il più grande tradimento perpetrato dal governo di un popolo civilizzato” e Weizmann lo designò come “una condanna a morte per il popolo ebraico”. La seconda cesura è ovviamente l’Olocausto. Dopo lo spettacolo della snazionalizzazione, della deportazione, del concentramento, dello sterminio nelle camere a gas e dello smaltimento nei forni crematori, dopo il riprodursi dell’antisemitismo ancora dopo il ’45 (blocco dell’emigrazione voluto dagli inglesi, violenti pogrom antisemiti in Polonia, ricollocazione degli internati in campi che erano stati campi di sterminio, episodio Exodus: 1947), il fatto che i confini di molte nazioni europee rimanessero chiusi ai profughi ebrei in cerca di una nuova collocazione, la lentezza con cui le potenze vincitrici si rendevano consapevoli della nuova situazione degli ebrei nel mondo. Di fronte a tutto ciò, la coscienza ebraica subì una torsione definitiva. Tra il ’40 e il ’46 l’Irgun, l’Organizzazione Militare Nazionale ebraica, intensificò l’attività terroristica; l’ebraismo mondiale cominciò a guardare alla Palestina come a una concreta possibilità e all’azione militare esercitata in proprio come a una necessità oggettiva. Nell’universo dei rifugiati nacquero organizzazioni ebraiche con l’obiettivo di costituire uno stato ebraico indipendente in Palestina. Nel ’45 Truman fece alzare un poco il tetto del contingente d’emigrazione, ma dopo la dichiarazione della nascita dello stato di Israele ci fu uno spostamento in massa di ebrei, 250.000 secondo le valutazioni dell’UNISCOP. 320.000 ebrei, dopo 1948, furono espulsi dai paesi arabi, secondo l’equazione “Nuovo stato di Israele = ebrei a qualsiasi titolo”. Dal Marocco alla Siria, dall’Egitto allo Yemen, gli ebrei abbandonarono le loro case per trovare rifugio in Israele (a tutt’oggi il totale degli ebrei espulsi è di circa 1.000.000). Il quadro storico è così sommariamente tracciato. Dentro questo reticolo, il tradizionale rapporto ebraico con la propria memoria, per lo più piegato entro una comprensione messianica di ogni sciagura presente [16], subì una trasformazione chimica. Non che la Bibbia, il Talmud, i Midrash, ecc. scomparissero, ci sono ancora, come ci sono ebrei che cercano di mantenersi nel “cerchio incantato” della tradizione e che cercano di inserire la sciagura appena trascorsa in un’immutabile contemporaneità [17], ma la realtà è che la massa ebraica vive il presente in un modo che esige sempre più la relativizzazione delle forme della tradizione e che per comprendere la propria realtà non si sogna nemmeno di ricorrere alle cosiddette “ragioni divine”, mentre accade semmai il contrario: Dio stesso deve essere riproblematizzato dopo Auschwitz (Jonas). Il sionismo si è trasformato radicalmente, l’ebreo stesso si è radicalmente trasformato, non è più “l’appartenente al Libro”, ma “colui che ha attraversato la Shoah essendone sopravvissuto e, secondo, si è riterritorializzato in Palestina, opponendosi a qualsiasi tentativo di distruzione del suo nuovo Stato. Resistenza allo sterminio quindi (antisemitismo, espulsioni, violenze, respingimenti, aggressioni militari nei confronti di Israele, dichiarazioni di annientamento, fino alla tesi odierna dell’illegittimità) e vittimarietà come matrice della crescita demografica e della legittimità dello stato ebraico: lo stato di Israele diviene così la casa dei sopravvissuti alla Shoah e dei loro discendenti e la patria elettiva di ogni ebreo nel mondo non disposto a lasciarsi condurre silenziosamente al mattatoio. Rosenzweig non aveva ragione sul fatto che il popolo ebraico, osservando leggi eterne, si era sottratto al flusso della storia, o, per essere più precisi, non poteva avercela, perché morì nel 1929. Auschwitz, nuovo a-priori storico, è pertanto l’apertura di una nuova, anzi nuovissima immissione nel tempo. Grazie a quella sovranità pseudo-politica¬ tanto criticata dalla Arendt, e alla nuova realtà della diaspora che da ciò scaturì, “gli ebrei (…) sono rientrati pienamente nella storia”. [18]

Non si tratta più di uno stato che presuppone la religione (Spinoza), bensì di uno stato che presuppone l’esser vittima assoluta della guerra onto-storica contro l’elemento ebraico (Judentum) [Heidegger]. E questo è un dato che Hannah Arendt mancò drammaticamente.


POPOLO DELLA SHOAH

Ora, il popolo ebraico diventa popolo-della-Shoah non a causa del Libro e tanto meno a causa del nazionalismo etnico herzliano, ma per una serie di motivi di cui Hannah Arendt avrebbe potuto e dovuto cogliere il dispiegamento in certe pieghe della sua stessa formazione (il riferimento è qui ad Heidegger): il popolo ebraico divenne popolo-della-Shoah: 1) perché diasporico (Weltjudentum) e, quindi, sradicato (entwurzelt), privo di mondo (Weltlos); 2) perché portato a mischiarsi (Durcheinandermischens) con ogni altro popolo, ma senza perdere la sua caratteristica più propria (inassimilabilità); 3) perché diffonde l’infezione del calcolo predittivo (Rechnen, Prophetie), con il quale compensa la mancanza di mondo, a livello planetario, in un progetto di tirannide mondiale; 4) perché dissemina il nichilismo, che ha nell’usura (leggi: finanza), nella rapina (leggi: capitalismo) e nel calcolo dell’ente (leggi: tecno-scienza) i suoi principi operativi, di cui americanismo, bolscevismo e democrazia sono i correlati ontici. Sono questi i motivi, folli, per i quali l’ebreo divenne oggetto di sterminio. Tutti questi elementi sono rinvenibili nei Quaderni Neri di Martin Heidegger, di cui si è discusso molto tra 2016 e 2017.

Alfred Rosenberg
Gli ebrei sono diventati popolo delle Shoah non a causa del giudaismo o del nazionalismo herzliano, ma perché un pensiero centrale li ha identificati come “razza malvagia”. Ecco come si esprimeva Alfred Rosenberg: «Bastardo per eccellenza […]. L’ebreo non ha la Seelengestalt [è privo di anima] e dunque non ha [nemmeno] la Rassengestalt [è privo di forma razziale]»; la sua propria forma è — scrive — l’informe. E ancora più in esplicito: l’ebreo «è l’uomo dell’universale astratto, opposto all’uomo dell’identità, singolarizzata e concreta» [19]. Strana inversione, di nuovo: per Rosenberg gli ebrei diventano il popolo dello sterminio a causa della loro mancanza di forma (Seelengestalt, Rassengestalt) e a causa della mancanza di un’identità singolarizzata e concreta. D’altro lato Hannah Arendt, dopo il ’45, condanna la loro ansia di riterritorializzazione, la loro ricerca di un’identità singolarizzata, la loro estraneità a quel principio di universalità che solo merita l’appellativo di Stato, di comunità politica e non si accorge che il popolo ebreo si era trasformato da popolo-del-Libro in popolo-della-Shoah. Hannah Arendt — che ha sempre negato che gli ebrei della Galut [diaspora] potessero costituire un popolo [20] — riceve dalla mani di Rosenberg una compagine costituita “popolo” dallo sterminio, ma non se ne accorge, anzi continua a criticare tale compagine in nome di vecchi concetti di fedeltà al Libro e di nazionalismo etnico di stampo herzliano. Ciò che va notato è che se per la Arendt gli ebrei non hanno mai costituito un popolo in quanto strutturalmente diasporici, per Deleuze i Palestinesi sono invece un popolo per il semplice fatto della loro stanzialità. La colpa dei sionisti/Israele per Deleuze è quella di non riconoscere il semplice fatto di questo popolo [21]. Gli Ebrei, dal canto loro, non sono un popolo a causa della loro dispersione (Heidegger-Rosenberg), mentre i Palestinesi lo sono a causa della loro appartenenza alla terra “palestinese”, a causa della loro “lunga permanenza sul suolo” [Bodenständigkeit].


INTEGRANDO

Il nuovo antisemitismo si serve di questo intrico di argomenti in modo e disinvolto, secondo una strategia d’accerchiamento: 1) gli Ebrei non sono un popolo, ma una pura e semplice disseminazione planetaria (Rosenberg-Heidegger). Non sono un popolo perché non hanno rapporti di stanzialità con un territorio, sono senza terra, senza patria, senza forma ontologica (Heidegger), sono l’universale astratto (Rosenberg), cioè l’uomo-in-generale (paradosso Rosenberg-Arendt); 2) i Palestinesi sono un popolo perché h anno un rapporto di stanzialità con un determinato territorio (Heidegger-Deleuze); 3) allo stesso tempo gli ebrei non sono un popolo perché non si pensano dentro la forma “uomo-in-generale”, ma dentro la forma “uomo-del-Libro” (Arendt-Spinoza), sono tuttalpiù una deriva mistica (Deleuze); 4) ma se tentano di ricostituirsi popolo per mezzo di uno Stato territoriale, secondo la prospettiva illuministica, ecco che diventa una macchina genocidiale “genocidio freddo” lo chiama Deleuze. Secondo Deleuze il sionismo “fa[rebbe] subire a questi altri [i Palestinesi] una parte di ciò che gli ebrei hanno subito (l’espulsione, la ghettizzazione, la scomparsa di un popolo). Con mezzi più «freddi» del genocidio si vuole ottenere lo stesso risultato [22]; 5) lo stato ebraico è dunque illegittimo perché usurpa la terra ai legittimi occupanti (Deleuze); 6) se lo stato palestinese è legittimo perché palestinese (Arafat-Deleuze), lo stato ebraico è illegittimo perché ebraico (Arendt-Spinoza). E via di questo passo. Chi non coglie il senso paradossale di queste argomentazioni non potrà mai comprendere l’attuale posizione di Israele nel mondo.
Due punti di particolare interesse: il punto di vista della Arendt coincide entro certi limiti con quello di Rosenberg (gli ebrei non sono un popolo), mentre quello di Deleuze, sempre entro certi limiti, coincide con quello di Heidegger (la lunga permanenza su un suolo istituisce un’identità). La trama di questo intreccio è la seguente: questo popolo (gli Ebrei) non è un popolo perché privo di rapporto con la terra, perché diasporico per essenza e, quindi, propalatore dello sradicamento — motivo per il quale i nazisti li avvieranno allo sterminio — ma nel momento in cui tentano la conquista un territorio, dopo aver resistito alla cancellazione, rivendicando un diritto di stanziamento, diventano, loro, agli occhi di un mondo che non si emancipa mai del proprio antisemitsmo, i veri carnefici. Bastardi tra i popoli perché senza terra, diventano carnefici tra i popoli nel momento in cui cercano di attivare un principio di riterritorializzazione. Principio di infezione in quanto allocati nel calcolo sradicante e diffusivo e, allo stesso tempo, principio di infezione in quanto cercano di allocarsi in un terra che altri gli contendono.

François Châtelet
Interessante notare che François Châtelet (stesso luogo di intervento di Deleuze) [23] riconosce invece il legame storico paritetico di determinate etnie e culture a quella terra e cita, in ordine, quella ebraica, quella islamica e quella cristiana.

Châtelet riconosce il legame storico e culturale degli Ebrei con la Palestina. Non solo, ma nel saggio che Cronopio riunisce in un’unica edizione con quello di Deleuze, riconosce anche che lo “stato-nazione” è, volenti o nolenti, l’“unica cornice obbligata dell’esistenza politica”. La frase è significativa non solo perché, dribblando la tesi deleuziana dell’usurpazione, dà ragione al rappresentante Urss all’Onu, Semyon Tsarapkin, il quale, nelle fasi di discussione della Risoluzione 181, sosteneva che «Gli ebrei lottano per uno Stato che sia loro, e sarebbe ingiusto rifiutar loro il diritto di conseguire questo obiettivo», ma anche perché predicare il diritto alla stato-nazione per i Palestinesi è un’implicita affermazione di un eguale diritto per gli Ebrei, cosa che poi Châtelet dichiara apertamente: «stesso diritto storico e morale». [24]

Châtelet non dice, come Deleuze, che i Palestinesi sono un popolo a cui è stata sottratta la terra, anche se il vagheggiato progetto di uno stato laico che riunisca sotto di sé le diverse etnie, mutuato probabilmente dalla Arendt del 1950, è vanificato già nel 1937, all’indomani della Comissione Peel. Uno dei caposaldi della tesi deleuziana sul “genocidio freddo”, è che Israele non riconosce ai Palestinesi lo statuto di “popolo”, considerandoli Arabi in generale [25]. Nel 1965, Arafat, nel primo articolo dello statuto di Al-Fatah, scrive, con buona pace di Deleuze, che «La Palestina è parte del Mondo Arabo, e i Palestinesi sono parte della Nazione Araba e la loro battaglia è parte della battaglia della Nazione Araba», cosa che, dal punto di vista della Arendt, dovrebbe suscitare l’interdetto contro l’oikía, cioè contro la tirannide implicita in ogni tentativo di conferire a un’entità di carattere privato, il diritto di chiamarsi pubblico.

Come stanno dunque le cose? È certo che gli Ebrei a vantino una lungo legame con quel territorio che chiamiamo Palestina e se la lunga permanenza è indice di esistenza e identità collettiva, questa non può essere loro negata o, in altri termini, l’usurpazione è senz’altro un argomento fallace. Non si capisce, per esempio, in che senso gli Ebrei si sarebbero insediati in terra d’altri, ammesso che questo discorso abbia un senso, visto che ogni conquista è conquista di terre già precedentemente conquistate e ogni espropriazione è espropriazione di terre già a loro volta espropriate. In ogni caso, gli Ebrei in Palestina ci sono sempre stati, anche se la popolazione ha conosciuto fasi di forte impoverimento. Non so fin dove sia corretto risalire per stabilire la certezza di un Bodenständig ebraico, ma di certo, nel ’46, un terzo dell’intera popolazione di quei territori transgiordani, poi suddivisi dalla risoluzione Onu numero 181 del 1947, era costituito di ebrei. E se Deleuze, nel 1983, non pensava che Israele dovesse essere rigettato nel nulla, e nemmeno Hannah Arendt, certo il nuovo antisemitismo, che si serve dei loro schemi teorici, oltre a quelli di Heidegger, e forse, senza nemmeno sospettarlo, quelli di Rosenberg, per giustificare le tesi delegittimanti anti-stato-ebraico, ahimè sì.


PARADOSSI

Costituiti popolo-dello-sterminio dalla loro astratta universalità (Rosenberg), gli Ebrei vengono negati popolo, cioè entità pubblica capace di esistenza politica, a causa della loro riterritorializzazione, — cioè dell’acquisita identità singolarizzata e radicalmente priva di universalità (Arendt) — per la cui assenza erano stati portati ad Auschwitz. L’Ebreo, elemento diasporico per antonomasia, quindi sradicato e privo di forma, in Israele si riterritorializza, riacquista forma e radici. Ma questo non piace alla teorica del politico che vuole ragionare solo sulla base dell’uomo-in-generale: l’ebreo deve in un certo senso, perdere continuamente forma particolare, come se lo sterminio fosse un accidente e non un evento “onto-storico”. La negazione che investe l’ebreo avviene quindi sia in nome del suo esser sradicato (l’ebreo della Galut, incapace di assimilarsi), sia, paroadossalmente, in nome del suo esser radicato (Israele, volontà di riterritorializzazione). Questa manovra a tenaglia, che non consente difesa, sviluppa però resistenza: “mai più ci lasceremo condurre come pecore al macello”, e oppone all’antisionismo il clangore della Shoah (identità vittimaria). Le critiche di Hannah Arendt al sionismo hanno probabilmente una loro ragion d’essere, ma solo fino al completo emergere della Shoah. Non sono affatto convinto che la Arendt abbia compreso questo evento nella sua portata “onto-storica”, come apertura di un nuovo orizzonte di senso proprio nel senso del suo maestro. Per Arendt lo sterminio è un événement, qualcosa che accade, passa, diventa materia di indagine storiografica e socio-politica e poi finisce sui libri, ma il fatto che il passato della Germania non passi, e sono passati 40 anni dalla morte dalla stessa Arendt, dimostra che Auschwitz non è un evento come gli altri, non è un événement destinato all’oblio, non così facilmente, ma qualcosa di più. È mia convinzione è che la Shoah costituisca l’imprescindibile del nostro tempo, l’a-priori storico di tutta un’epoca. Auschwitz rinvia a una nuova griglia di intelligibilità, meglio: alla sospensione di ogni griglia di intelligibilità accreditata come certa nell’età moderna: sovranità, universalismo, verità, incontrovertibilità, diritto, Dio, giustizia, libertà, uomo.


POSTILLA SULLA FUNZIONE OMICIDIALE

Nel 1976 Foucault, in un corso al Collège de France, ha sostenuto che alla fine del XVIII si era instaurato un nuovo tipo di potere capace di stravolgere la teoria classica della sovranità, dove il potere, com’è noto, si identificava con il diritto di vita e di morte («funzione omicidiale»). La nuova forma di potere si presentava invece come capacità di far vivere e volontà di lasciar morire. Quello che a noi interessa è però che la funzione omicidiale andava in ogni caso mantenuta, pena la scomparsa della sovranità stessa. Ebbene, com’è possibile mantenere viva la funzione omicidiale in un contesto dove il potere non vuole far morire, bensì vivere? La risposta è il razzismo. Il razzismo frammenta il campo biologico istituendovi delle cesure, stabilendo una relazione che non è di scontro violento, ma di tipo bio-medico e bio-morale, secondo una griglia che colloca su un lato il “migliore”, il “superiore”, ciò che sta in cima in base a un criterio di “purezza”, e sull’altro lato il “peggiore”, il “degenerato”, il “dannoso”, ciò che quindi è “destinato a soccombere” e che deve essere eliminto. La funzione omicidiale è pertanto ammissibile non se tende alla vittoria sui nemici politici, ma se ha di mira l’eliminazione del pericolo bio-etico, ciò che minaccia l’integrità del corpo sociale, rappresentato dalla presenza di elementi corrotti — di qui si può giungere all’idea di una corruzione biologica, oppure all’idea di una corruzione ontologica, ma il senso della posizione sacrificabile del corrotto non cambia. E dal momento in cui lo stato prende a funzionare in questo modo, la funzione omicidiale non può essere assicurata che dal razzismo. Nella società monistica nata dalla Rivoluzione francese, la funzione omicidiale rappresenta la possibilità, per lo stato, di mettere a morte quegli individui che, a sue giudizio, rappresentano una minaccia per l’integrità bio-politica della nazione. Al tema della guerra delle razze in una società multirazziale, tipico della Francia post-romana e pre-rivoluzionaria, viene sostituito il tema di una società biologicamente monista e omogenea, minacciata da elementi eterogenei, non essenziali, sacrificabili e, al tema dello stato ingiusto, cioè dello stato come strumento di dominio di una razza sull’altra, viene a sostituirsi il tema dello stato giusto, ovvero dello stato bio-eticamente omogeneo, di cui va protetta l’integrità: giusto, quindi, solo se omogeneo. Ora, la società monista di cui parla Foucault nasce nel cuore dell’illuminismo. L’Encyclopédie aveva definito lo stato-nazione come una moltitudine di uomini che instaura una lunga permanenza su un territorio delimitato da frontiere certe e obbediente a leggi e a un governo unici. La Rivoluzione vi aggiunge questo: Che cos’è il terzo stato? Tutto, la condizione storico-sostanziale della futura (ma non ancora esistente) nazione francese. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla, esso è cioè privo di quel riconoscimento formale che ne farebbe una nazione intera. Ebbene, esso chiede ora di diventare nientemeno che la nazione stessa (rivoluzione), tutta intera. I rivoluzionari non costituivano da soli la totalità del corpo sociale, ma assunsero che una parte del corpo sociale fosse la nazione intera, adottando, come unico criterio di validità, la capacità di svolgere la funzione totalizzatrice dello stato, permettendo cioè al particolare di porsi come l’universale [26]. Come dire che Il Terzo Stato è tutta la nazione nella misura in cui sa imporsi come tale. Lo stato-nazione nato dalla Rivoluzione francese è la forma politica dell’universalismo moderno, il quale nasce dall’identificazione di un particolare (popolo), installato su un solo territorio, asservito a una sola legge, etnicamente omogeneo, ecc., con l’universale. Ma proprio questa mossa totalizzatrice verrà anche legittimando il razzismo come unico strumento capace di tenere in vita la funzione omicidiaria dello stato, cioè la sovranità, che non scompare con le trasformazioni di fine Settecento e inizio Ottocento, ma si trasforma anch’essa. L’uomo che dichiara i diritti dell’uomo e del cittadino è di fatto un uomo particolare (il rivoluzionario francese) che si arroga il diritto di parlare in nome dell’uomo-in-generale, anche se ciò dovesse costare il Terrore. Di fatto costò lo sterminio della cosiddetta nazione aristocratica. Solo se un gruppo particolare può parlare in nome dell’uomo-in-generale la nazione corrispondente diventa stato, Polis, comunità d’impresa politica. In caso contrario, si ha il dominio di una razza sulle altre, l’oikía, l’ordine privato, la privus lex, la tirannide. Il particolare non può costituirsi in Polis se non identificandosi con l’universale e questo può avvenire solo se si accetta di introdurre il razzismo come garante della sovranità.


NUOVO ANTISEMITISMO

In Occidente attecchisce oggi un nuovo tipo di antisemitismo, istituzionalizzato, che trova la sua giustificazione nell’amalgama teorico messo a disposizione da autori come Heidegger, ma anche, abbiamo visto, come Arendt e Deleuze. Deleuze afferma per esempio che i sionisti/Israele, trasformando il più grande genocidio della storia in male assoluto, instaurano una visione mistica della storia [27]. L’espressione “male assoluto”, è vero, si presta a un fraintendimento, se non altro a causa del suo carattere etico (male) e onto-teo-logico (assoluto), mentre il suo significato andrebbe piuttosto interpretato come l’accadere di un orizzonte evolutivo entro il quale un’umanità storica si trova gettata anche quando viene formulando i suoi criteri epistemologici, le sue categorie antropologiche, le sue equazioni logiche, e così via. Sicché l’espressione “male assoluto” non significa qualcosa di “mistico”, ma qualcosa di “storico-evolutivo”. Tra virgolette perché non banalmente evenemenziale. Assoluto significa invece “intrascendibile” ed indica il limite o il margine approssimandosi al quale il pensiero si frange, proprio perché il suo stesso sorgere è vincolato a quell’evento, ha la sua condizione in quel limite, oltre il quale non vi è che il sordo frastuono dello sterminio.
Con la critica di Deleuze, il principio arendtiano (e spinoziano. Questo ripetuto rinvio a Spinoza è dovuto in primo luogo al fatto che Spinoza è una fonte per il deleuzismo, e in secondo luogo perché Spinoza rappresenta, prima della Arendt, l’esclusione dell’ebreo come tale dalla Polis o “nuovo mondo”, in nome dell’uomo-in-generale) per cui uno stato eretto su istanze particolari non può essere Polis, ma solo una struttura mon-archica e repressiva, è in qualche modo santificato quando si tratta di palestinesi e demonizzato quando si tratta di ebrei. Lo stato, nonostante tutto, lo stato-nazione dell’uomo-universale nato dalla Rivoluzione francese continua ad incarnare, anche in Deleuze, l’universalismo post-cristiano, nonostante il fatto che Deleuze sia in qualche modo il differenzialista più spinto del panorama filosofico del secondo Novecento.
Allo stesso tempo è inaugurata l’inversione del rapporto vittima-carnefice, dove Israele (l’istituzione della potenza che osteggia la volontà negatrice del diritto del popolo ebraico ad opporre resistenza ad ogni ulteriore tentativo di sterminio) viene identificato con il carnefice. La negazione dello statuto vittimario-resistentivo dell’identità ebraica viene pensata come falsificante maschera dietro la quale si nasconde un “vero” volto, còlto appunto attraverso quel rovesciamento di cui si fa qui problema: se Israele è illegittimo, è perché il paradigma vittimario è una maschera, perché Israele, in quanto stato “ebraico”, non fondato quindi sull’idea di uomo-in-generale, è usurpatore della terra e razzista nei confronti delle popolazioni arabe, così i nuovi antisemiti. I sionisti/Israele, sorretti in questa macchinazione dall’ebraismo internazionale, che agita costantemente il fantasma della Shoah, fanno di questa vittimarietà l’alibi per esercitare in piena libertà il disegno genocidiale entro i confini del territorio palestinese, che, a quanto Deleuze lascia intendere, appartiene ai Palestinesi.
Esercitare l’antisemitismo nei confronti degli Ebrei della diaspora è così un modo per togliere a Israele ogni alibi vittimario, in modo tale che, privato di ogni alibi, appaia per quello che è, un disegno di usurpazione che applica una strategia eliminatrice per appropriarsi di una terra d’altri. Dietro Israele il nuovo antisemitismo vede agitarsi l’intero Occidente che, attraverso gli ebrei, dentro e fuori lo stato ebraico, esercita il controllo su un quadrante energeticamente appetitoso. In tal modo il nuovo antisemitismo viene saldando l’ostracismo anti-Israele con l’odio anti-ebraico, creando, fra l’uno e l’altro, linee di transito più o meno dissimulate. In modo quasi analogo, Bernard-Henri Lévy, nel suo ultimo libro, Le Génie du Judaïsme, identifica le tre pieghe del nuovo antisemitismo nel modo seguente: 1) L’antisionismo (gli ebrei sarebbero gli amici di uno “Stato assassino”); 2) il negazionismo (gli ebrei sarebbero dei “trafficanti di memoria”, si servirebbero cioè dei loro martiri per “intimidire” il mondo); 3) la competizione vittimaria (gli ebrei monopolizzerebbero il capitale mondiale della compassione impedendo di portare l’attenzione su altre vittime). [28]
Il punto, per quanto mi riguarda, non è quindi, essenzialmente, l’antisemitismo della Arendt in termini generali (del problema, com’è noto, si occupa, in senso generale, anzitutto Emmanuel Faye [29]), che pure va messo in chiaro, ma quanto il lascito della Arendt o, per essere più precisi, il lascito universalistico dell’illuminismo, non si presti oggi a fornire una fondazione teorica a un antisemitismo disposto a giustificare, nei termini analizzati da Foucault, l’espletazione di una funzione negatrice nei confronti di quello “stato” che, nella compagine umana in-generale, continua ad esser posto come elemento eterogeneo, capace di minare l’omogeneità anzitutto mediorientale e araba e poi tendenzialmente universalistica della comunità dei popoli e che avrebbe in Israele il suo strumento di potenza.
La contraddizione è evidente. La negazione dello stato-ebraico nei termini della Arendt, implica, negli stessi termini, la negazione dello stato-arabo (Arafat-Deleuze) e/o dello stato-islamico (Hamas) e viceversa, come riconosciuto da Châtelet, per il quale predicare il diritto alla stato-nazione per i Palestinesi è un’implicita affermazione di un eguale diritto per gli Ebrei [30]. Mentre il collegamento della sovranità politica con la nozione di Uomo-universale (Arendt) implica, nei termini di Foucault, l’adozione di un antisemitismo legale che mira all’estensione della funzione omicidiaria in seno alla comunità internzionale nei confronti dell’eterogeneità ebraica — basti pensare all’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale nei confronti degli attentati quotidianamente compiuti da elementi palestinesi, o da forze politico-armate palestinesi, nei confronti della popolazione ebreo-israeliana o delle autorità di quel paese. Il filosofo italiano Gianni Vattimo ha recentemente affermato che i Gazewi (Vattimo non distingue tra Gazewi e Hamas), fanno bene a riempire di razzi Israele, anzi bisognerebbe fornire loro armi più efficaci, capaci di fare più vittime [31]. Antisemitismo che agisce secondo il doppio registro della negazione del diritto all’esistenza dello stato ebraico come tale e della corrosione dei diritti di sicurezza e protezione delle minoranze ebraiche nell’Occidente europeo, favorendone l’emigrazione verso Israele e, nello stesso tempo, diffamando Israele, assimilandolo a quella macchina di sterminio che ne ha determinato la nascita, la seconda nascita, e la sua stessa attuale funzione nel mondo.

Belgio, Francia, Germania, Italia, Svezia e UK sono, secondo un sondaggio Ipsos commissionato dalla Fondation du judaïsme français, i paesi nei quali gli ebrei sono meno sicuri. Nel 2016 cinquemila ebrei sono emigrati dalla Francia in Israele. Entro il 2021 l’Italia perderà il 7% della propria popolazione ebraica. Putin vieta ai Rothschild di entrare in Russia (secondo Putin l’85% del governo sovietico del 1917 era costituito da ebrei della famiglia Rothschild [32]). In Francia la candidata 2017 alla presidenza dell repubblica, Marine Le Pen, conferma che, con la propria elezione, gli ebrei francesi, a differenza per esempio dei cittadini franco-russi, non potranno conservare la doppia cittadinanza [33]; Jeremy Corbyn, capo dei laburisti inglesi, nel 2014 compie un viaggio in Tunisia per deporre una corona di fiori sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi responsabili del massacro della squadra olimpica israeliana, compiuto a Monaco nel 1972, e via di questo passo.


NOTE
[1] Vedi per esempio, per quanto riguarda Hannah Arendt, L. Profeti, “Faye e la Arendt, via i pregiudizi”, L’Avvenire, 5 novembre 2016, https://www.avvenire.it/agora/pagine/faye-e-la-arendt
[2] Cfr. M. Foucault, “Poteri e strategie”, in Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, p. 18, raccolta di articoli e interviste apparsi qui e là su rivista e per lo più già noti al lettore italiano, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano 1994.
[3] G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, trad. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2002. Il volumetto contiene anche un saggi di F. Châtelet, “Riflessioni su un’ipotesi: «La Grande Palestina»”. Entrambi gli articoli sono apparsi originariamente in Revue d’Études Palestiniennes, 17, 1984.
[4] Cfr. G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, cit., p. 22.
[5] http://criticallegalthinking.com/2015/03/05/international-law-and-the-state-of-israel-legitimacy-responsibility-and-exceptionalism/
[6] H. Arendt, “Salvare la patria ebraica. C’è ancora tempo” [1948], in Ebraismo e modernità, trad. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 173 (corsivi miei).
[7] Cfr. A. Kojève, “L’impero latino” [1945], in Il silenzio della tirannide, a cura di A. Gnoli, Adelphi, Milano 2000, p. 166 e, in generale, l’intero primo capitolo.
[8] Cfr. M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato [1976], a cura di M. Bertani e A. Fontana, Ponte alle grazie, Firenze 1990, Lezione decima, 10 marzo 1976, passim.
[9] Il saggio “Peace or Armistice in the Near East?” [1948], apparve in The Review of Politics, XII, 1, 1950. La traduzione italiana è compresa nella silloge Ebraismo e modernità, cit. (“Pace o armistizio nel Vicino Oriente?”).
[10] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1988.
[11] Cfr. H. Arendt, Tra passato e futuro [1961], trad. di T. Gargiulo, Garzanti, Milano 1991, p. 161.
[12] Cfr. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 28 sgg.
[13] Cfr. E. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo, trad. di M. Doni, Medusa, Milano 2010, pp. 60-75.
[14] Cfr. Ivi, p. 60.
[15] Per Lyotard vedi: “Memorandum sulla legittimità” in J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987.
[16] Per un inquadramento vedi Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, trad. di D. Fink, Pratiche, Parma 1983.
[17] cfr. Y.H. Yerushalmi, Zakhor, cit. p. 107.
[18] Ivi, p. 110.
[19] A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1930), cit. in Ph. Lacoue-Labarthe, J.-L. Nancy, Il mito nazi, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1992, pp. 45-57, passim.
[20] Cfr. H. Arendt, “Herzl e Lazare” [1942], Ebraismo e modernità, cit., p. 27.
[21] Cfr. per es. G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, cit. p. 19, ma il concetto è ripetuto qui e là.
[22] Ivi, p. 18. [23] Si tratta del numero 10 della Revue d’études palestiniennes, diretta da Elias Sanbar, uscito nel 1984 a Beirut. Per Châtelet, cfr. Id. “Riflessioni su un’ipotesi: «La Grande Palestina»”, in G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, cit..
[24] Cfr. F. Châtelet, “Riflessioni su un’ipotesi: «La Grande Palestina»”, cit., pp. 30-31 e p. 40.
[25] Cfr. G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, cit., p. 18.
[26] M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, cit., p. 145 (ed. Feltrinelli pp. 191-192).
[27] Cfr. G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, cit., p. 18.
[28] B.-H. Lévy, Le Génie du Judaïsme, Grasset, Paris, 2016.
[29] E. Faye, Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée, Albin Michel, Paris 2016.
[30] F. Châtelet, “Riflessioni su un’ipotesi: «La Grande Palestina»”, cit., pp. 30-31.
[31] https://www.youtube.com/watch?v=-mDNx5OA9AY.
[32] Cfr., anche se da controllare, https://politicalvelcraft.org/2013/10/17/vladimir-putin-speech-85-of-the-1917-soviet-government-was-made-up-by-rothschild-jews-jew-being-a-misnomer-zionist-khazars-being-more-accurate/.




Hannah Arendt c. 1966 (Photograph courtesy of the Hannah Arendt Bluecher Literary Trust)


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