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Aiôn: temporalità dell’evento-virus
di Fabio Vergine

15 maggio 2020




Si può appartenere davvero al proprio tempo non appartenendovi affatto. Si può essere attuali soltanto essendo strenuamente inattuali, in una coincidenza costitutivamente perduta sin dall’inizio con il proprio presente. Si è davvero attuali quando si è perduta ogni intima connessione con il tempo a cui si appartiene, o si crede di appartenere. Si è attuali quando si cessa di dirsi figli del proprio tempo. Solo in uno scarto per certi versi anacronistico si può percepire con più forza l’autenticità del proprio tempo, afferrarlo con maggior lungimiranza, riconoscerlo nei suoi dettagli più infinitesimali.
Come in qualche luogo del suo corpus sostiene Giorgio Agamben, essere contemporanei chiama in causa una singolare relazione col proprio tempo, per la quale vi si aderisce ed insieme vi si prendono le distanze, secondo una forma peculiare di sfasatura cronologica.
Essere contemporanei significa, in altre parole, mancare a quell’appuntamento che non si può che mancare, arrivarvi troppo presto o troppo tardi.
Stando all’approfondimento delle dimensioni con cui siamo soliti dipingere il tempo della nostra vita, come ritiene Henri Bergson il presente non è mai dell’ordine dell’ontologia: solo del passato si può dire che esso è realmente, mentre il presente non può che esser considerato secondo la logica del funzionamento, secondo il meccanismo di qualcosa che, non cessando mai di scorrere, non può dirsi davvero esistente.
Se dunque ha ragione Agamben, e il presente non è altro che la parte di non vissuto in ogni vissuto, così allora il nostro presente, il presente segnato dal virus, un presente talmente dilatato da sembrarci dolorosamente eterno, è in realtà qualcosa che ancora non abbiamo vissuto sino in fondo, ancorché l’impressione sia quella di averlo vissuto così intensamente da averne definitivamente abbastanza. Come possiamo dunque provare a pensare la verità di un tempo attraversato dall’insorgenza pandemica di questo virus se ancora non abbiamo vissuto pienamente il suo tempo? Ogni tentativo non può che restare tale, ineluttabilmente. Siamo ancora così talmente vicini, così talmente immersi nel tempo del virus che ogni tentativo di sguardo comprensivo o di valutazione oggettiva non può che risultare fallimentare. Ma possiamo, io credo, esorcizzare il fallimento dell’impresa provando a tornare nel nucleo di questo presente che, nonostante tutto, ancora non abbiamo vissuto sino in fondo in tutte le sue implicazioni, ovvero nel nucleo di quel presente in cui non siamo mai stati davvero.
L’esperienza più significativa a questo proposito è quella che tutti noi abbiamo fatto la mattina del 21 Febbraio quando, con l’accertamento del primo caso di Codogno, in provincia di Lodi, abbiamo percepito per la prima volta di essere realmente sotto scacco.
In qualche modo l’esperienza traumatica di questo brusco risveglio ci ha coinvolti tutti nel medesimo modo: dall’Hubei alla Lombardia il mondo intero si è denudato di fronte all’universalità del contagio. Ma ciò che più conta, a questo riguardo, è che pressoché chiunque si è reso improvvisamente conto della grande unità che connota il pianeta che abitiamo. In un istante ci siamo accorti di quanto ogni distanza geografica sia inconsistente. In un istante la reale paura del contagio ci ha esposti all’infondatezza di quell’atteggiamento con il quale reputiamo ogni infausto accadimento nel mondo troppo distante perché possa colpirci in prima persona.
Se è vero che un solo filo teneva drammaticamente insieme lo stesso grado di indifferenza con cui guardiamo tanto all’apocalisse delle morti dei migranti nel Mediterraneo quanto ai ponti autostradali che crollano sotto il peso dell’incuria e della negligenza, è bastato prendere atto dell’invisibile proliferazione di una minuscola entità biologica per spezzare quel filo e traghettarci nella piena consapevolezza che, come ebbe a dire in una qualche occasione televisiva lo scrittore bresciano Aldo Busi, “non esistono incendi lontani”.
E così abbiamo cominciato ad assistere ad un rimpallo d’opinioni ben poco edificante: limitato alla Cina e più in particolare a Wuhan e alla provincia dell’Hubei, il virus costituiva a tutti gli effetti un potenziale pericolo globale da arginare ad ogni costo; difficile trovare pareri contrastanti. Ma quando poi ci siamo resi conto del rischio effettivo che l’epidemia potesse diventare a tutti gli effetti una pandemia, ma soprattutto quando la sensazione che il virus potesse varcare i confini del nostro Paese è divenuta tangibile, tanto i canali di informazione tradizionale quanto la popolazione dei principali social networks hanno cercato di sopire ogni preoccupazione e sedare ogni angoscia, ridimensionando la pericolosità del virus stesso. Sono alla memoria di ciascuno le schizofreniche campagne di apertura delle attività, gli inviti a non asserragliare la vita nelle catene della paura. Di lì a poco queste campagne avrebbero invertito il loro segno, pur mantenendo il medesimo coefficiente di persuasione collettiva. Con la forza mediatica che l’hashtag possiede di questi tempi, beninteso.
Nel giro di pochissimo tempo il fenomeno Covid-19 ha assunto i caratteri di una tragedia epocale, o almeno questo è ciò che racconta l’evidenza di numeri di contagi e decessi molto probabilmente sottostimati in quasi ogni angolo del pianeta. Si può dire che il monopolio che Covid-19 ha esercitato e continua ad esercitare nei confronti dei mezzi di informazione, non meno che nelle voci eterogenee della popolazione dei social networks, non abbia precedenti. Ma se è vero che si tratta a tutti gli effetti di una tragedia, credo ci sia qualcosa che non convince sino in fondo nel linguaggio apocalittico adottato per lo più dai media. Non certo perché non ne si debba riconoscere l’assoluta gravità, quanto piuttosto perché è facile riscontrare nei toni e nel linguaggio che ha circonfuso — e circonfonderà — l’evento Covid-19 in questi mesi e per molto tempo ancora, vizi formali che minano la tenuta dell’argomentazione, ma che soprattutto acutizzano l’impossibilità di collocare l’emergenza che stiamo vivendo in un corretto registro temporale.
Da che ne conservo memoria, ad ogni infausta occasione l’opinione pubblica si unisce nel coro di coloro che credono che giunti alla nostra contemporaneità certi avvenimenti non possano più essere ammissibili: capita con le grandi tragedie del mondo, ma anche con gli incidenti stradali, ferroviari, aerei. O con le morti bianche sul lavoro. O ancora, con i terremoti, o in genere con le calamità naturali. Meno, invece, con i numerosi conflitti civili che funestano molte parti del globo, o con la negazione dei diritti umani, ma questo — purtroppo — è un altro discorso.
Non poteva che capitare anche con l’emergenza Covid-19. In particolar modo per quanto riguarda la grave situazione dovuta alla scarnificazione del Servizio Sanitario Nazionale e conseguentemente del numero di posti in terapia intensiva, si crede che, se da un lato l’emergenza sia anche e soprattutto figlia illegittima di politiche sciagurate, dall’altro lato si continua a sostenere con apparente convinzione che situazioni di questo calibro non possano e non debbano più accadere. Più specificamente è come se le espressioni utilizzate a questo riguardo chiamassero in causa una certa maturità dei tempi perché queste cose non possano più essere considerate ammissibili: «Nel 2020 non si può più morire per carenza di posti letto in rianimazione».
Argomentazioni di questo tipo, innocenti nell’intenzione di comunicare legittimamente sdegno, malcontento ed indignazione, nascondono in realtà un vizio formale difficilmente tollerabile, spesso cavalcato dai media e ripreso senza ambagi dal popolo del web.
Dietro un lecito malcontento, si celerebbe una forma inutile e nociva di auto-assoluzione. Detto altrimenti, davvero esiste un tempo in cui le tragedie possono essere collettivamente giustificate, riconosciute e considerate come ammissibili? E davvero esiste un tempo limite nella storia dell’uomo e del mondo oltre il quale ciò non sarebbe più possibile?
Paradossalmente ciò che viene così attivata è una logica della redenzione di sé stessi, per la quale, convincendosi che il tempo altro non sia che una freccia progressiva ed irreversibile o, ancor più radicalmente, una linea infinitamente evolutiva che dal passato conduce al futuro, si finisce per sentirsi costantemente al sicuro, immuni da ogni malevolo destino — come se in qualche modo il caso non potesse colpire tragicamente coloro che una simile concezione del tempo ben disporrebbe verso un futuro definitivamente migliore del passato.
L’idea di un destino beffardo, certamente funzionale ad una qualche forma di pensiero metafisico o teologico, mal si coniuga con un virus che si diffonde attraverso le vie respiratorie. A questo proposito, infatti, l’orientamento fallace di alcuni organi di informazione ha lasciato intendere che il virus potesse colpire con differente virulenza diverse zone geografiche, come se il contagio fosse quantificabile intensivamente alla stregua delle scale di misurazione utili a calcolare, ad esempio, la distruttività di un sisma.
Chi ha la fortuna — o sfortuna — di trascorrere un po’ di tempo su Facebook o su altri networks si sarà certamente imbattuto in strenui sostenitori della sanità lombarda, i quali non mancano di sottolineare — a fronte di ogni drammatica evidenza — come nella regione considerata locomotiva d’Italia, malgrado tutto, il sistema sanitario abbia retto, evitando una strage. A questa considerazione, nondimeno, si accompagna sovente l’esigenza di evidenziare la cronica fragilità del Sud Italia, che se avesse subìto una virulenza anche di poco inferiore a quella cui è stata soggetta il Nord, avrebbe ceduto ben prima sotto il peso di un’ecatombe.
Eppure i sostenitori di questa argomentazione dimenticano che Sars-CoV 2 non è un terremoto né una tempesta tropicale o un’inondazione, ma una struttura biologica parassitaria la quale, al di fuori di un organismo vivente, non “sopravvive” che qualche ora, e che per ciò stesso non può diffondersi geograficamente se non attraverso la libera circolazione degli individui che lo ospitano. Per questo l’idea di un destino malevolo con il Nord Italia e maggiormente benevolo con il Sud ha ben poca ratio.
Il virus è un evento, in molti l’hanno precisamente ribadito. E come ogni evento, esso separa irrimediabilmente il prima dal poi. L’evento rifugge dall’ordinaria scansione cronologica del tempo. Come già sapientemente sosteneva Gilles Deleuze pensandolo nella sua radicalità, l’evento non coincide con uno stato di cose, pur non potendo fare altro che incarnarvisi. L’evento non è senza accadimento, ma l’accadimento non è l’evento.
L’evento, in altre parole, rovescia il tempo con cui noi siamo soliti registrare l’esperienza che facciamo del mondo e nel mondo. In fin dei conti noi facciamo esperienza delle cose secondo quella logica temporale per cui il nostro presente può potenzialmente assumere tutte le estensioni possibili; diciamo presente l’istante in cui indichiamo e proferiamo l’adesso, ma diciamo presente anche quell’intervallo variabile in cui annoveriamo l’intera durata di un’esperienza più o meno lunga. Diciamo presente un minuto, un’ora, un anno, un’epoca, una vita. Ed in tutti questi intervalli di tempo il passato e il futuro sono trattenuti e contratti in quello stesso presente del quale essi non sono che le dimensioni possibili. Il tempo è tempo Kronos.
È il tempo cronologico, è il tempo degli accadimenti, è il tempo grazie al quale è possibile scandire con precisione le coordinate di un accadimento, è il tempo mediante il quale di un accadimento è possibile sancire l’inizio e la fine.
Ma se è vero che il virus è un evento, esso allora non può che manifestarsi e darsi a vedere in un tempo altro rispetto a Kronos.
Da questa appartenenza altra esso trae la propria peculiarità. Come di nuovo ci ricorda Deleuze facendo propria la lezione dello stoicismo, il tempo dell’evento è il tempo della contro-effettuazione di un accadimento, ovvero il tempo Aiôn, il tempo di una soglia impalpabile, di un istante senza spessore che incessantemente divide la linea del tempo in due; e per tale ragione, alla luce di questa soglia senza estensione alcuna, il tempo non può che essere un eterno passato-futuro. Così, nel cuore della temporalità dell’evento, il presente non si dà mai a vedere, non si manifesta, se non nella forma di una cesura che senza posa taglia il tempo in due getti. Nella linea del tempo Aiôn, solo il passato e il futuro esistono davvero, dacché l’evento, come dice Deleuze, schiva il presente.
Se questo è vero, allora, l’evento non si dà altrimenti che nella forma temporale di un eterno passato-futuro. E se anche il virus risponde, come credo, ai requisiti deleuziani — ma non solo — dell’evento, allora anche l’evento-virus non può che manifestarsi secondo la logica temporale di ciò che arriva sempre troppo presto o troppo tardi.
Ed è proprio alla luce di questo aspetto che costituisce l’intima sfasatura temporale di ogni evento che si comprende davvero l’inconsistenza delle argomentazioni di chi, credendo inconsciamente ad una concezione progressivamente ed infinitamente evolutiva del tempo, ritiene inammissibile che ancora certi fenomeni possano irrimediabilmente continuare a minacciare la vita nel suo complesso. Se di evento in senso proprio si tratta, il virus ci fa percepire davvero quella spinoziana univocità della sostanza, o per dirla con Deleuze, quel piano di immanenza assoluta che percorre e attraversa ogni cosa, nel quale nessuna gerarchia degli enti può essere realmente contemplata in seno alla vita stessa.
L’evento-virus, con l’innegabile carico di dolore che esso reca con sé, è quell’esperienza impersonale, assoluta, universale che ci mostra direttamente il paradossale funzionamento della temporalità dell’evento in generale. E se è vero, come spesso si legge o si sente, che l’evento-virus ci ha colti impreparati è perché forse, in fondo, non poteva che essere così, allorché l’evento — ogni evento — non accade mai nel tempo che gli è proprio; o per meglio dire, esso non ha tempo proprio: il suo tempo non è mai l’eterno presente di Kronos, ma l’eterno passato-futuro di Aiôn, un tempo in cui esso non può che rivelarsi strutturalmente sempre in anticipo o in ritardo.
Così l’evento-virus ci restituisce all’organico anacronismo che struttura l’autentica appartenenza all’attualità del nostro tempo. E come ogni evento, non può che coglierci alla sprovvista.

Rilievo con Aion/Phanes nel cerchio dello zodiaco. Gallerie Etsensi, II secolo d.C.


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