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Verso l’endotempo e l’endospazio
Le difficoltà del motivo della profondità carnale in Merleau-Ponty*

di Pierre Rodrigo

(Traduzione di Elisa Lucarelli)



20 settembre 2020


Lungo l’intero arco della sua opera, Maurice Merleau-Ponty cerca di ripensare e di ridefinire la relazione del soggetto con il mondo. Essendo un erede fedele di Husserl, egli l’ha fatto smarcandosi dai due approcci tanto classici quanto antagonisti che hanno, scandito tutta la modernità: l’approccio empirista e l’approccio idealista.
Ma svincolarsi non ha mai significato per lui negare ogni validità rispetto a ciò da cui si allontanava. Al contrario, Merleau-Ponty ha costantemente affermato che l’empirismo e l’idealismo, nonostante si opponessero, anzi proprio perché essi si opponevano alle rispettive concezioni della soggettività, avevano perfettamente ragione di rigettare ciò che rifiutavano della posizione avversa.

Ciò significa che ai suoi occhi l’empirismo e l’idealismo, anche se non positivamente, avevano ragione almeno in negativo. Per dirlo in maniera più precisa, l’idealismo aveva avuto ragione nel rifiutare di considerare il soggetto come una semplice parte del mondo, l’empirismo, d’altra parte, aveva avuto ragione nel rifiutarsi di ammettere che il mondo potesse al contrario ridursi ad una nostra rappresentazione. Ma due buone ragioni in negativo non costituiscono una positiva ragione concludente ed è per questo che l’impresa fenomenologica di rifondazione della soggettività e dell’oggettività del mondo può rappresentare una terza via feconda, che è proprio quella che Merleau-Ponty ha percorso.
Questa posizione è rivelatrice della fedeltà metodologica di Merleau-Ponty rispetto a quello che è stato il movimento di pensiero più tipico di Husserl a partire da Ideen I fino alla Krisis, cioè il doppio movimento di filiazione e di rifiuto che Husserl ha sempre praticato sia nei confronti di Descartes che di Hume. Per attenersi a ciò che riguarda propriamente Merleau-Ponty, si può far riferimento alle prime pagine della prefazione di Phénoménologie de la perception. Si ricordi come in queste pagine liminari è la fenomenologia stessa, intesa come metodo d’indagine del senso dell’esperienza, che Merleau-Ponty introduce.

Tali pagine dunque mirano a far comprendere meglio il senso dell’esigenza husserliana di un ritorno «alle cose stesse», e lo fanno opponendo il ritorno fenomenologico alle cose stesse a ciò che Merleau-Ponty qui chiama «il ritorno idealista alla coscienza», detto in altri termini alla concezione idealista della soggettività. Ma, come dicevo poco sopra, ciò non significa che quest’ultima prospettiva — la concezione idealista del soggetto — non abbia alcun merito. Merleau-Ponty in effetti precisa subito, in termini completamente positivi che:
Descartes et surtout Kant ont délié le sujet ou la conscience, en faisant voir que je ne saurais saisir aucune chose comme existante si d’abord je ne m’éprouvais existant dans l’acte de la saisir, ils ont fait paraître la conscience, l’absolue certitude de moi pour moi, comme la condition sans laquelle il n’y aurait rien du tout et l’acte de liaison comme le fondement du lié [1].
La grandezza dell’idealismo cartesiano e kantiano è e rimane quella di aver liberato la soggettività da tutti quei legami intramondani che ne facevano una realtà tra le altre, e di aver potuto infine affermare, contro l’empirismo, l’immanenza del soggetto a se stesso con il ruolo di fondamento per ogni altra esperienza e per ogni altra conoscenza. Tuttavia, questo ritorno alla coscienza ha liberato la soggettività da un lato solo per vincolarla meglio dall’altro; la verità delle cose e del mondo si basa sulla correttezza delle rappresentazioni soggettive. La debolezza dell’idealismo risiede dunque in ciò che ha considerato la sua forza, cioè la sua debolezza consiste nella sua operazione di sostituzione delle sintesi rappresentative con le presenze oggettive.
ainsi la réflexion s’emporte elle-même et se replace dans une subjectivité invulnérable, en deçà de l’être et du temps. Mais c’est là une naïveté, ou, si l’on préfère, une réflexion incomplète qui perd conscience de son propre commencement [2].
Qual è dunque questo cominciamento reale che manca alla soggettività del kosmotheoros? Nient’altro che l’a priori co-relazionale. Infatti, se si unissero i contributi rispettivi dell’idealismo e dell’empirismo che, lo ricordo, sono veri in ciò che essi rifiutano piuttosto che in ciò che essi affermano, si vedrebbe che il vero cominciamento non può che essere indissolubilmente costituito dalla presa della riflessione sull’irriflesso (è la lezione da conservare del rifiuto idealista dell’empirismo) e dalla presa della riflessione nell’irriflesso (è la lezione questa volta impartita dal rifiuto empirista dell’idealismo).
Se la prima presa può essere ipostatizzata in un potere assolutamente costituente — considerala per sé sola, come ha fatto l’idealismo — l’inclusione della seconda presa impedisce alla coscienza costituente di dimenticare ciò per cui essa rimane in relazione con un mondo non riducibile alle sue rappresentazioni e che è già la prima di tutte le sue operazioni di sintesi.

Ora, quello per cui una coscienza è sempre alle prese con il mondo è il suo corpo, il suo corpo proprio; quel corpo di cui Merleau-Ponty precisa, nel secondo capitolo della prima parte di Phénoménologie de la perception, appunto intitolata «Le corps», che esso deve essere considerato:
non plus comme objet du monde, mais comme moyen de notre communication avec lui, au monde non plus comme somme d’objets déterminés, mais comme horizon latent de notre expérience, présent sans cesse lui aussi, avant toute pensée déterminante [3].
Questo approccio alla soggettività si riassume in ultima analisi in una formula sorprendente, nella quale si trova come condensato il rapporto critico che Merleau-Ponty intrattiene con la concezione idealista della soggettività, la cui grandezza è d’altra parte più volte riconosciuta da lui. Questa formula è la seguente: «la coscienza non è originariamente un io penso che ma un io posso» [4] — corredata da una nota a piè pagina relativa all’io posso sulla quale vorrei soffermarmi un momento: «il termine è usuale negli inediti di Husserl».
Si sa per certo, grazie alle precisazioni apportate dalle note a piè pagina di Phénoménologie de la perception, che Merleau-Ponty aveva effettivamente potuto consultare presso gli Archivi Husserl di Lovanio i manoscritti inediti di Ideen II, della terza parte della Krisis e della sesta Meditazione cartesiana [5]. È proprio a partire da questi manoscritti che Husserl aveva sviluppato una teoria «del corpo proprio in quanto organo di volontà e supporto del libero movimento», come si evince dal titolo del §38 di Ideen II (che Merleau-Ponty qui evidentemente segue da vicino), cioè una teoria del corpo proprio inteso come potere poiché, conclude lo stesso paragrafo di Ideen II:
il soggetto, che si costituisce in contro-partita alla natura materiale, è un ego al quale pertiene un corpo come campo di localizzazione delle sue sensazioni, esso ha la facoltà (io posso) di muovere liberamente questo corpo e di conseguenza tutti gli organi in cui questo corpo si articola e, per loro mezzo, di percepire un mondo esterno. [6]
Nell’esperienza – aggiunge più avanti Husserl per essere maggiormente chiaro – l’io posso e l’io non posso si distinguono attraverso la loro struttura fenomenologica. C’è un fare che non incontra alcuna resistenza e di conseguenza una coscienza del potere senza resistenza, vi è anche un fare nel sormontare una resistenza, un fare con unopposizione e una coscienza, che vi si riferisce, del potere di sormontare la resistenza. [7]
Questo corpo, questo corpo che è mio e che è la sede di un potere immediato il quale non trova in me alcuna resistenza, Husserl lo chiama negli inediti Leibkörper o, più raramente, Leib. È il corpo vivente in cui, dirà la Krisis, la mia anima «si incarna». Ora, una Verkörperung der Seelen di tal genere, una incarnazione delle anime [8] di tal genere non si può vivere che in prima persona, poiché, aggiunge la Krisis nello stesso paragrafo:
la corporeizzazione [corporéisation] delle anime è qualcosa che ciascuno non sperimenta in modo originale che su se stesso. Ciò che significa nella sua propria essenza il fatto di essere carne [Leiblichkeit], io non lo sperimento che sulla mia carne [nur an meinem Leib], cioè sulla mia costante dominazione immediata – e unicamente in questo corpo dato. [9]
Ho appena citato la traduzione di Gerard Granel, che traduce Leib con chair, tale scelta è senza dubbio giustificabile ed è tra l’altro condivisa dalla maggior parte dei traduttori francesi di Husserl; tuttavia è necessario tener presente un punto fondamentale per il corretto svolgimento delle analisi successive: cioè che il concetto husserliano di Leib e Leiblichkeit non hanno né lo stesso senso né la stessa portata ontologica del concetto merleau-pontiano di chair.
E ciò nonostante il fatto che, in alcuni ambiti tutta l’evoluzione di Merleau-Ponty, da La phénoménologie de la perception fino a Le visible et l’invisible, sia stata resa filosoficamente necessaria, essendo un omaggio costante reso anche ai considerevoli progressi teorici di Husserl, dalla messa in rilievo delle carenze del Leib husserliano e, nello stesso tempo, di quelle del concetto di corpo proprio. È da questa disamina critica che provengono lo sviluppo e il senso specificamente merleu-pontyano di chair..

È quindi opportuno domandarsi in cosa l’apprensione dell’io posso, attraverso cui il pensiero fenomenologico si smarca dall’idealismo e dalla sua impresa di fondare la soggettività, sia compromesso dall’apprensione dell’io posso a partire dal corpo proprio o Leibkörper.
In altre parole, la questione che si pone ora è questa: sotto quali aspetti il pensiero del corpo proprio risulta ancora carente, nonostante esso abbia permesso di reinquadrare in una nuova prospettiva i due versanti del dilemma classico tra empirismo e idealismo? Io risponderei che la mancanza in questione si situa a livello della determinazione della spazio-temporalità del corpo proprio o del Leibkörper; o meglio, al livello dell’assenza di una determinazione specifica e rigorosa di questa spazio-temporalità. Infatti cosa ci insegna Husserl quando si tratta di definire lo spazio e il tempo dell’io incarnato in un corpo di carne?

Leggiamo ancora una volta il §62 della Krisis, su cui l’autore de La phénoménologie de la perception ha certamente meditato:
certo, grazie alla sua carne corporea (körperliche Leiblichkeit), [un io posso] può essere individuabile da ogni altro io, quindi da tutti, in virtù della sua posizione nello spazio corporeo, posizione che egli deve, in quanto inautentica, alla sua carne corporea. Ma la possibilità di essere distinti e identificati da tutti nella spazio-temporalità, con tutte le determinazioni psico-fisiche che entrano in gioco, non gli apre alcuna possibilità di partecipazione al suo essere in quanto ens per se. Ha, in quanto tale, in se stesso la sua unicità. Per lui spazio e tempo non sono dei principi di individuazione, non conosce alcuna causalità naturale, che, per sua stessa natura, è inseparabile dalla spazio-temporalità; la sua azione è una determinazione egologica, e questa si produce immediatamente attraverso le sue cinestesi come una forma di controllo sulla sua carne (Leib), e solamente in modo mediato (poiché la sua carne è anche un corpo) come forma di controllo sugli altri corpi [10].
Per Husserl dunque, il controllo egologico immediato del soggetto sulla sua propria carne, o sul suo Leib, nella forma in cui si manifesta attraverso l’io posso, non sfocia nella spazio-temporalità intramondana, nella misura in cui esso non appartiene all’ordine della causalità fisica. Al contrario la forma di causalità che è qui in questione è verificabile sul piano della mia azione sugli altri corpi, sui quali io posso agire nello spazio e nel tempo perché, come chiarisce perfettamente Husserl, «la mia carne è anche un corpo».

Tuttavia, per quanto sia certo questo punto della teoria, esso crea difficoltà nel momento in cui, per quanto sia mediato questo processo di azione spazio-temporale sul mondo, il mio corpo proprio viene annoverato, malgrado tutto, tra le cose del mondo e in esso si muove. Husserl può pure affermare che questa dimensione specifica della mia egoità incarnata sia inautentica, ma egli dovrebbe non di meno costruire e dimostrare concettualmente in cosa consista la differenza tra il movimento autentico e quello inautentico del corpo proprio.
In breve dovrebbe tematizzare nel proseguo ciò che, per esempio, Jan Patocka, definirà come, da un lato, il movimento dell’esistenza, e dall’altro, il movimento naturale, che è sottomesso alla causalità fisica e si svolge nella spazio-temporalità fisica. Così sarebbe perfettamente coerente sostenere, come fa Husserl, che il Leib in quanto tale, o in proprio, non appartiene allo spazio e al tempo fisico; questo però non è sufficiente perché il Leibkörper si muove anche nel mondo fisico ed è, per usare i termini husserliani, ciò che tutti percepiscono della mia egoità incarnata spazio-temporalmente [11].
Partendo a questi presupposti, quale soluzione rimane ad Husserl e con lui, come si vedrà, all’autore de Phénoménologie de la perception? Quale soluzione resterà per evitare ad entrambi di ricadere in un dualismo — che sarebbe quello che vedrebbe contrapporsi l’essere spazio-temporale e il non essere spazio-temporale — del quale si teme non essere altro che una nuova riproposizione del dualismo tra anima e corpo? In entrambi la soluzione ha un medesimo nome: espressione. Ora, nel contesto in cui i nostri autori impiegano questa nozione, essa ha un significato piuttosto fluido, tanto da lasciar pensare che non sia stata sufficientemente cesellata.

Difatti in modo particolarmente sintomatico, Husserl scrive nell’ultima parte del manoscritto di Ideen II, dedicato allo studio della costituzione del mondo dello spirito che una persona, in altre parole un soggetto egologico in quanto tale
non è mai un frammento di natura, un qualche cosa di contenuto nella natura in quanto dato reale, ma è qualcosa che si esprime nell’oggetto corpo umano nella misura in cui esso è l’ambiente circostante, in cui il corpo umano non è che il semplice correlato di un soggetto. [12]
Certo, si potrebbe replicare ad Husserl che cosa voglia esattamente intendere quando dice che un ego si esprime in un Leibköper che «è consapevole dell’ambiente circostante?». Si è costretti ad ammettere che nelle Ideen II non viene messa a punto alcuna risposta a questa domanda. In effetti, se ci si situa al di fuori del contesto molto specifico della Prima Ricerca Logica — in cui, trattandosi di segni e non della corporeità, l’espressione esterna, l’Ausdruck, è effettivamente tematizzata e lo è proprio in funzione della sua opposizione al significare interno alla coscienza, alla Besinnung — il solo testo husserliano che, per quanto ne so, mette fuoco, per quanto in maniera poco estesa, la nozione di espressione corporea è l’Appendice XXII al §62 della Krisis. In questo testo piuttosto interessante, datato 1935, l’espressione corporea è tematicamente compresa a partire dalla considerazione del rapporto intersoggettivo.
il corpo [Körper], che appare nel campo della percezione, vale per me come espressione [Ausdruck]; è per me come un sistema di espressione [...] [Ausdruckssystem]. Nella natura non vi è gioco d’espressione [Mienenspiel], non vi è sguardo lanciato sulle cose di sfondo, non vi è un rossore che colora le guance, non vi sono soprassalti per lo spavento, ecc., che appaiono […]. Quando io comprendo un’espressione [Ausdruck], io faccio esperienza dell’uomo in quanto persona, ed è proprio in questa che vi è ora un tema di esperienza vero e proprio, non naturale, bensì dello spirito. [13]
Tutto ciò sta a significare che un corpo fisico è semplicemente determinato, nella sua individualità, dal e nel suo ambiente spazio-temporale, un corpo vivo, un Leibkörper, è tale solo in funzione dell’espressione di un egoità spirituale che esso esprime. Ma se non fosse così, se non risultasse così consequenziale, nel momento in cui si interpreti questo fenomeno alla luce della coppia Ausdruck/Besinnung delle Logische Untersuchungen, che è il solo strumento concettuale che Husserl ci abbia dato a proposito della questione dell’espressione, che il corpo vivo non sia altra cosa che un segno espressivo esterno di una significazione spirituale interna?

E, se questo è il caso, il significato e la portata fenomenologica dell’io posso non si troverebbero forse profondamente indebolite, dal momento che sarebbero viste soltanto come semplici segni ostensivi di una spiritualità interna già costituita in e per se stessa? L’espressività che Husserl attribuisce al Leibkörper si rivela dunque essere, in fin dei conti, il nodo di una reale difficoltà teorica della fenomenologia del corpo proprio. Medesima è la sorte del concetto di espressione nella Phénoménologie de la perception, anche se quest’opera si prefigge di superare le insufficienze delle analisi dei manoscritti husserliani che senza alcun dubbio Merleau-Ponty aveva presenti.
or le corps est éminemment un espace expressif. Je veux prendre un objet et déjà, en un point de l’espace auquel je ne pensais pas, cette puissance de préhension qu’est ma main se lève vers l’objet […]. Mais notre corps n’est pas seulement un espace expressif parmi tous les autres. Ce n’est là que le corps constitué. Il est l’origine de tous les autres, le mouvement même d’expression, ce qui projette au dehors les significations en leur donnant un lieu, ce qui fait qu’elles se mettent à exister comme des choses, sous nos mains, sous nos yeux. [14]
È evidente che in questo passaggio la nozione di espressione è ripresa ed elevata ad un nuovo livello di importanza in cui Merleau-Ponty riprende l’analisi husserliana dell’ io posso corporeo, presentata nel §60 di Ideen II, declinandola in maniera magistrale con l’introduzione del termine espressione, che per l’appunto è assente in Husserl allorché tratta del movimento corporeo nello spazio e nel tempo e quando l’oppone all’immediatezza del io posso, che ciascuno sperimenta sulla propria carne.
In modo davvero notevole dunque, Merleau-Ponty estende qui il senso dell’espressione a tutto ciò che chiamo volentieri l’espressione di tutto il senso per mezzo del corpo proprio. È proprio in virtù di quest’estensione che egli può arrivare ad affermare che il nostro corpo costituisce il luogo della nostra appropriazione del mondo e che «è il nostro mezzo complessivo per avere un mondo» [15].

Tuttavia Merleau-Ponty è ben consapevole del rischio in cui, come si è visto, è incorso Husserl: quello cioè di una riduzione dello statuto del corpo a semplice segno espressivo, cosa che di conseguenza non permetterebbe più di determinare il senso dell’ io posso corporeo. Egli è dunque perfettamente consapevole della necessità sempre più impellente di costruire un concetto di espressione che possa evitare tale rischio, che gli permetta dunque di non perdere i vantaggi connessi ad un pensiero del corpo proprio.
Con ogni evidenza, La phénoménologie de la perception si adopera, a più riprese, per l’elaborazione concettuale di un senso di espressione che non si esaurisca con la funzione di ostensione del segno, cioè con l’Ausdruck husserliana, ed è necessario supporre che, per Merleau-Ponty stesso, questo punto fosse d’importanza capitale, poiché i suoi sforzi per chiarificare il concetto di espressione saranno, come si sa, mirabilmente rinnovati nel suo primo corso al Collège de France, nel 1952-53, dedicato a Le monde sensible et le monde de l’expression. Ritorniamo, per il momento alla Phénoménologie de la perception. La questione è di vedere in che modo in questo testo si elabori una teoria soddisfacente dell’espressività del corpo proprio. Essa muove le prime mosse grazie all’analisi del corpo sessuato, che, secondo il filosofo francese, è da considerarsi come «una delle acquisizioni più durature della psicanalisi», cioè che la sessualità esprime nel modo più chiaro possibile tutta l’ambiguità che inerisce all’esistenza umana, che è come l’atmosfera generale della nostra esistenza; la sessualità effettivamente mostra come «l’esistenza sia indeterminata in sé, a causa della sua struttura fondamentale, poiché essa è l’operazione stessa attraverso cui ciò che non aveva prima un senso, ne acquisisce uno».

Il corpo sessuato è dunque espressivo solo nell’esatta misura in cui esso è l’espressione di un senso costantemente in fieri, non di uno precostituito. In altri termini, l’espressione corporea non deve essere compresa come l’ostensione di un senso dato in precedenza nell’interiorità del sé, ma come il movimento stesso di creazione del senso: «il segno qui non indica solamente il suo significato, questo lo abita, esso è in qualche modo ciò che significa». Questo incontestabile sforzo per concepire il corpo proprio come una modalità di espressione specifica, non si spigherebbe, sembrerebbe, che a partire dal tentativo di allentare la morsa dialettica tra l’essere e il non essere spazio-temporale, in cui la dialettica husserliana della Leiblichkeit permane definitivamente intrappolata.
Questo progetto trova conferma, prima ancora che nell’analisi del corpo sessuato che abbiamo appena ricordato, in quella della parola, esposta nel capitolo successivo di La phénoménologie de la perception. In questo capitolo Merleau-Pony pone le basi per una teoria che non smetterà mai di sviluppare in futuro, come si vede nella sua teoria della parola parlante. La tesi qui è perfettamente chiara: «la parola non è il segno del pensiero, nel senso di un fenomeno che ne annuncia un altro come il fumo annuncia il fuoco«. In altri termini, la parola non esprime un pensiero già elaborato nell’interiorità spirituale del sé, al contrario lo completa, lo realizza, tutto ciò va a costituire una forma di espressione completamente nuova. Per l’autore de La phènoménologie de la perception, l’esempio che è in grado di dar conto nel migliore dei modi di questa funzione pensante della parola è quello dell’espressione estetica poiché, almeno in quest’ambito, appare piuttosto chiaramente che significare non vuole affatto dire comunicare un senso precedentemente dato grazie ad un utilizzo adeguato di segni già disponibili, ma che, al contrario, significa creare il senso nel movimento stesso dell’espressione. «Il significato divora il segno», scrive incisivamente Merleau-Ponty, poiché:
l’expression esthétique […] arrache les signes eux-mêmes – la personne du comédien, les couleurs et la toile du peintre – à leur existence empirique et les ravit dans un autre monde. Personne ne contestera qu’ici l’opération expressive réalise ou effectue la signification et ne se borne pas à la traduire. [16]
Il punto fondamentale è che questo «altro mondo» nel quale siamo rapiti dall’espressione estetica non è a tutti gli effetti un anti-mondo, esso non è dunque un niente spazio-temporale; questo è piuttosto un mondo sviluppato secondo altre dimensioni di senso, un mondo che si distingue senza negare dialetticamente il mondo delle cose e dei segni che lo esprimono (nel senso comune del verbo). Di conseguenza questo mondo non esclude per principio la spazio-temporalità, ma al contrario la implica, come Merleau-Ponty fa notare in una nota importante dedicata all’esperienza estetica, che preannuncia molti degli sviluppi ulteriori messi a punto ne L’Œil et l’esprit e nei corsi tenuti al Collège de France,
on pourrait montrer, par exemple, que la perception esthétique ouvre à son tour une nouvelle spatialité, que le tableau comme œuvre d’art n’est pas dans l’espace où il habite comme chose physique et comme toile coloriée – que la danse se déroule dans un espace sans buts et sans directions, qu’elle est une suspension de notre histoire, que le sujet et son monde dans la danse ne s’opposent plus, ne se détachent plus l’un sur l’autre. [17]
Si noti, ancora una volta, che uno spazio senza scopi o direzioni, come quello della danza, non è un niente di spazio, proprio come la spazialità specifica del quadro non è questo niente. Ciò che in questa nota di Merleau-Ponty sulla spazialità della danza va profilandosi è lo stadio embrionale di ciò che formulerà in maniera compiuta ne Le visible et l’invisible, cioè la spazio-temporalità di un mondo considerato soggettivamente e valutato, in relazione al suo senso, nell’inerenza di questo stesso mondo; detto altrimenti da un punto di vista per cui, effettivamente, il soggetto e il suo mondo non si oppongono più dialetticamente — in breve da ciò che si chiamerà l’endotempo e l’endospazio. Ma è ancora troppo presto per sviluppare questo aspetto, torniamo dunque a La phénomélogie de perception.

C’è una dimensione della spazialità, rilevabile attraverso l’esperienza artistica, che Merleau-Ponty ha indagato con particolare cura in quest’opera: si tratta della profondeur; la pittura, afferma il filosofo, può mostrarci l’effettività dell’esperienza della profondeur phénoménale in quanto tale, e non come una «larghezza percepita di profilo [all’interno] di uno spazio isotropo» [18]. Ciò accade soltanto se si rinuncia, come ha fatto Cézanne, a ricostruire la percezione secondo una tecnica come quella della prospettiva geometrica, che proviene dal mondo della scienza e non dal mondo percepito.
La pittura quindi ci rivela che la dimensione apparente che un oggetto del mondo fisico assume per noi non è solamente l’indice o il segno della sua distanza spaziale rispetto al nostro corpo, ma «non è altro che il nostro modo di esprimere la profondeur» [19] — avendo chiaro che qui è necessario dare al verbo esprimere il significato filosoficamente connotato che Merleau-Ponty ha elaborato nel corso di queste analisi, cioè quello di una vera e propria creazione intenzionale della profondeur phénoménale e non quello di espressione/traduzione esterna di un dato precedentemente costituito all’interno della coscienza.
È infatti secondo questa struttura, precisa Merleau-Ponty, che un uomo visto a duecento passi di distanza non è affatto percepito come un uomo più piccolo di un altro percepito a soli cinque passi; e ciò non accade perché nell’esperienza percettiva quest’uomo appare e viene considerato «come lo stesso uomo visto da più lontano».
Questa osservazione fondamentale sta a significare che la profondeur spaziale è immediatamente coinvolta nell’esperienza percettiva della dimensione apparente in quanto grandezza variabile di uno stesso oggetto posto a distanza variabile rispetto a noi; in breve, la profondeur è data in questa esperienza, ne è a tutti gli effetti un momento costitutivo. Proprio per questo, come dice chiaramente Merleau-Ponty, la pittura ci fa comprendere come «la profondeur non è che un momento della fede percettiva in un oggetto unitario» [20]; ne consegue che questa dimensione spaziale non può essere il frutto di una sintesi rappresentazionale operata da una soggettività trascendentale, o meglio, nell’ambito della pittura, non può essere espressa mediante una tecnica come la prospettiva geometrica, poiché è una dimensione del senso presente nell’esperienza stessa nel suo darsi per il nostro corpo e grazie a lui.

Una volta riconosciuta l’importanza fenomenologica di questo lavoro elaborato da Merleau-Ponty su ciò che è l’espressione del corpo proprio e per come si sviluppa ne La phénoménologie de perception, siamo portati ad ammettere l’idea di una «espressione» che, non solamente costituisca il senso che esprime, ma che addirittura unisca, come avviene nel caso della danza, i due poli: il soggetto corporeo e il mondo — quest’idea dunque rimane debitrice di ciò che cerca di oltrepassare, cioè del dualismo ontologico.
In effetti il corpo proprio, che partecipa dell’esistenza attraverso il mondo ma che è anche parte integrante del mondo, non può — potremmo quasi dire per principio — essere pensato al di fuori della dialettica dell’essere e del non essere spazio-temporale. Che Merleau-Ponty abbia riconosciuto che il corpo sia il luogo in cui avviene la nostra appropriazione del mondo è un’acquisizione certa (ed anche di estrema importanza sul piano teorico), ma è altrettanto certo che la posizione iniziale della soggettività e dell’oggetto come due entità che vengono ad intrecciarsi nel corpo proprio permane un a priori di tipo husserliano, il quale grava sullo sviluppo di tutto il percorso a venire.

Ovviamente, l’acquisizione inestimabile delle analisi di Husserl e del primo Merleau-Ponty è di aver affermato che né la soggettività né l’oggettualità esistono indipendentemente l’una dall’altra, poiché sono intenzionalmente collegate; ma tuttavia il contesto proto-spaziale e proto-temporale di questa correlazione (se così si può definire l’elemento primo in cui si istituisce questa correlazione a priorica del soggetto e del mondo) non emerge dal confronto dialettico tra l’essere e il non essere e non è affatto certo che su questo punto ci si possa accontentare della definizione secondo cui la nostra esistenza si svolgerebbe, sul modello della nostra sessualità, in un’atmosfera ambigua.
Merleau-Ponty per primo non è soddisfatto di ciò, ed è la ragione per cui egli ha tentato, ne Le visible et l’invisible, di porre le basi per una endo-ontologia che potesse rendere conto, in modo più preciso, dell’elemento primo all’interno del quale soggetto e mondo entrano in correlazione a priori. È significativo che, a questo proposito, tutte le prime pagine de Le visible et l’invisible facciano costante riferimento alle analisi husserliane, svolte nel §36 di Ideen II, sulla mano toccata-toccante.
È proprio l’evocazione dell’imminenza di questo toccare riflessivo, il quale proprio all’ultimo momento non riesce a cogliersi realmente, che fornisce a Merleau-Ponty l’opportunità di ripartire dal concetto husserliano di carne (Leib). Ma l’essenziale, nonostante tutto, non è questo punto di partenza che sembra riallacciarsi alle analisi de La phénoménologie de la perception, bensì la rottura, tanto decisiva quanto inaspettata, che i testi successivi dimostrano.

Ed proprio in questa linea di frattura che si situa la differenza tra il concetto di chair in Merleau-Ponty e quello di Leib o Leiblichkeit in Husserl; tale differenza è da principio marcata da una quanto meno inaspettata eclissi del concetto di chair: in effetti solamente alla fine del quarto dei cinque capitoli che costituiscono il manoscritto de Le visible et l’invisible, la chair torna a comparire nel testo.
Magari non è stato sufficientemente posto in evidenza, ma dalla pagina 24 alla pagina 169 la chair è totalmente assente. Infatti, tutto lascia pensare che sia nel silenzio di un lavoro critico sotterrano che prende forma il risultato che esplode alla pagina 169, quando Merleau-Ponty torna, una volta di più, sul suo reciso rifiuto riguardo ad un’unione tra la filosofia delle essenze, cioè l’idealismo, e quella della fusione con le cose, ossia l’empirismo. In relazione ai due ambiti, in effetti, scrive il filosofo:
que justement la présence du monde soit présence de sa chair à ma chair, que j’en sois et que je ne sois pas lui, c’est ce qui, aussitôt dit, est oublié: la métaphysique reste coïncidence. Qu’il y ait cette épaisseur de chair entre nous et le noyau dur de l’Être, c’est ce qui n’intervient pas dans la définition: cette épaisseur est mise à mon compte, c’est le manchon de non-être que la subjectivité transporte toujours autour de soi. Or, distance infinie ou proximité absolue, négation ou identification, notre rapport à l’Être est ignoré de la même façon dans les deux cas [21].
Qui appare per la prima volta, il sintagma en être che designa il cuore pulsante della endo-ontologia dell’ultimo Merleau-Ponty: en être non significa solamente essere correlati a, né tanto meno essere correlati a priori a; ma esso è l’inevitabile rivelazione di una dimensione d’essere che, e questo è il punto fondamentale per comprendere che cos’è l’endo-ontologia, non implica l’immanenza a se stessa.
In effetti se il dualismo tra immanenza e trascendenza, tra essere e non essere fosse stato trasposto su questo ulteriore livello ontologico, non vi sarebbe alcuna possibilità per la soggettività carnale di entrare in relazione con ciò di cui si dovrebbe dire che en est, e si ricadrebbe nelle difficoltà che si erano già poste con la teoria del corpo proprio e del Leib, così che, contemporaneamente questi apparterrebbero al mondo e non gli apparterrebbero; ecco dunque che en être non può avere lo stesso senso di être du (essere del mondo) o di être dans (essere nel mondo) e nemmeno di être pour (essere per il mondo, come una coscienza intenzionale costituente).

En être indica, come si legge, la dimensione carnale, cioè lo spessore di una determinata modalità d’essere che si riferisce tanto al mondo quanto al soggetto e che li differenzia entrambi per principio da ciò che Merleau-Ponty definisce il nocciolo duro dell’essere, ossia da quell’essere nella sua pienezza di atomo inscindibile, quello che si può contrapporre all’essere. Di conseguenza il termine chair in questo testo capitale de Le visible et l’invisible non designa la stessa cosa a cui si riferiva Husserl con i termini Leib o Körperleib (la cui traduzione più adeguata sarebbe infatti corpo proprio).
Chair è il nome di un elemento primo, dell’essere non compatto, non oggettuale, e quindi non soggettivo — se s’intende soggettivo alla maniera di Sartre, cioè che si oppone dialetticamente, nullificandolo, all’essere della cosa e che, nel medesimo movimento, non essendone che l’esatto rovescio della medaglia, resta, volente o nolente, sotto la sua dipendenza ontologica.
quand nous parlons de la chair du visible nous voulons dire que l’être charnel, comme être des profondeurs, à plusieurs feuillets ou à plusieurs faces, être de latence, et présentation d’une certaine absence, est un prototype de l’Être, dont notre corps, le sentant sensible, est une variante très remarquable, mais dont le paradoxe constitutif est déjà dans tout visible. [22]
Ben noto è il celebre esempio della costituzione carnale di un visibile, presente ne Le visible et l’invisible: quello di un vestito rosso in cui il colore si offre immediatamente, non come una qualità di una cosa ben distinta dalle altre, ma come uno spessore espressivo del senso che non rimanda tanto ad un ente determinato, quanto piuttosto ad una certa punteggiatura nel campo di cose rosse, ad una certa modulazione fugace di questo mondo, ad una cristallizzazione momentanea de l’essere colorato e della visibilità; in sostanza esso fa riferimento ad una chair delle cose che è l’elemento stesso della loro modulazione e della loro co-apparizione [com-parution] [23] negli interstizi che circondano un qui che altro non è che la sommità di una dimensione d’insieme, d’uno spessore di visibile.
Si comprende allora come la dimensione carnale che esplora Le visible et l’invisible non lasci più alcuno spazio alla dialettica dell’essere e del nulla, e che soprattutto non ne lasci alcuno alle definizioni tradizionali dello spazio e del tempo. È necessario ora esaminare questi due aspetti. Il dibattito con la dialettica sartriana permea tutto Le visible et l’invisible:le tesi difese da Sartre ne l’Être et le Neant non permetterebbero in alcun modo, secondo Merleau-Ponty, di scalfire il nocciolo duro dell’ontologia tradizionale poiché, opponendo frontalmente un essere in sé completamente pieno dell’essere di cui è fatto ad un essere per sé completamente radicato nel niente, non si allenta minimamente la morsa dell’essere compatto, anzi lo si conferma in due modi poiché:
ce que l’on dit de l’être et ce que l’on dit du néant ne fait qu’un, c’est l’envers et l’endroit de la même pensée; la claire vision de l’être tel qu’il est sous nos yeux – comme être de la chose qui est paisiblement, obstinément elle-même, assise en elle-même, non-moi absolu – est complémentaire ou même synonyme d’une conception de soi comme absence et élision. [24]
A questa concezione della negatività dialettica sartriana, Merleau-Ponty oppone l’idea di una soggettività, di un per sé, il quale non è più concepito come un vuoto assoluto, un niente d’essere, ma semplicemente, scrive il filosofo, come un incavo che non si oppone frontalmente ad un pieno. Questo vano è, di volta in volta, l’analogo della faccia concava di ogni di ogni forma convessa, dell’invisibile di un visibile [25] — sia chiaro non l’invisibile contrapposto al visibile, ma l’invisibile di un visibile (esattamente come tutte le risonanze di rosso che punteggiano il rosso visibile).
Queste considerazioni ci permettono di comprendere meglio, infine, come lo spessore carnale — che non è affatto una vaga immagine poetica, una confusa metafora, ma è, al contrario, il nome forse meno maldestro per designare la dimensione dell’en être, che mobilita le nozioni di soggettività e oggettività nel momento in cui sono reinterpretate alla luce dell’endo-ontologia, e tutto ciò nonostante le difficoltà, che di certo non mancano, quando si prova, ad esempio, a pensare la chair du monde — come lo spessore carnale metta in crisi il tradizionale intreccio di spazio e tempo. In breve, anche se certamente questo aspetto richiederebbe ulteriori sviluppi, appare chiaro che, in ogni esperienza, la risonanza di sezioni di invisibilità nella visibilità di questo o quel visibile non dipende né dal qui né dall’ora, sebbene si dia in un tempo e in uno spazio fisico.
Questa risonanza, che è l’esperienza stessa della profondeur carnale, è in effetti rivelatrice, scrive Merleau-Ponty, di un’«esplosione d’essere», di fronte alla quale l’idea di una successione di cause ed effetti risulta totalmente inappropriata, proprio come è inadeguata la contrapposizione di un qui rispetto ad un altrove. Così, il rosso delle bandiere della rivoluzione o dei terreni che circondano Aix-en-Provence che sorge, come sfondo, con la mia visione dell’abito rosso per conferirgli tutta la sua potenza espressiva non è né qui né altrove, né tanto meno è presente o passato.
Come si sa, la figura de l’empiètement è stata spesso applicata da Merleau-Ponty all’endo-spazialità e all’endo-temporalità; gli è anche capitato di usare in una nota di lavoro de Le visible et l’invisible ed in modo alquanto sibillino, l’espressione cosmologia del visibile per cercare di definire meglio l’empiètement in ogni esperienza soggettiva, del mondo nella sua totalità e anche della più piccola cosa visibile: in ogni caso un mondo di senso sconfina sui contorni ben netti della cosa, per farne, non una cosa percepita, ma un raggio di mondo, una concrezione momentanea del visibile e dell’invisibile. Ecco il testo di questa importantissima nota:
je révoque en doute la perspective évolutionniste [ce qui signifie sans doute dans ce contexte la perspective faisant graduellement passer d’une chose atomique bien déterminée au monde sans globalité]: je la remplace par une cosmologie du visible en ce sens que, considérant l’endotemps et l’endoespace, il n’y a plus pour moi de question des origines, ni de limites, ni de séries d’événements allant vers [une] cause première, mais un seul éclatement d’Être qui est à jamais. Décrire le monde des «rayons de monde» par-delà toute alternative sérial-éternitaire ou idéal – Poser l’éternité existentielle – le corps éternel [26].
Nell’endo-tempo e nell’endo-spazio legati alla dimensione dell’essere carnale non vi sono più atomi né di tempo né di spazio, non vi è più alcun qui e ora. Non vi sono che delle risonanze e dei richiami d’espressione, i cui legami sono giustificati, in ogni esperienza percettiva, dalla logica interna dei fenomeni stessi, dagli echi che risvegliano i vari raggi di mondo che agiscono in modo impercettibile negli interstizi del percepito. Tutta la difficoltà del motivo merleau-pontiano della chair si concentra in questo punto: in che modo tale negatività vera che resta allusiva, laterale nell’espressività del percepito può essere portata, senza tradirla, all’espressione linguistica?
Si dirà, certo, con Merleau-Ponty stesso, che essa deve essere detta secondo il modo indiretto dell’espressione linguistica; ma sarebbe una presa di posizione piuttosto ingenua credere che questa soluzione dissipi ogni difficoltà; essa, al contrario, non fa che evidenziarla e riproporla. Non bisogna dimenticare questa constatazione inserita in una nota di lavoro de Le visible et l’invisible datata 20 gennaio 1960; essa rappresenta un vero e proprio richiamo alle difficoltà del tema ontologico della chair e allude oscuramente al fatto che la soluzione è perpetuamente imminente e che il loro scioglimento è rimandato per sempre:
Endo-ontologie […]. Elle est le dépassement de l’ontologie de l’En soi, – et [pourtant] exprime ce dépassement en termes d’en soi [27].

Pierre Rodrigo è stato docente di Filosofia generale, Estetica e Fenomenologia presso la facoltà di filosofia di Dijon (Université de Bourgogne). Si è occupato principalmente del pensiero di Aristotele, Husserl, Bachelard, Merleau-Ponty, Bergson, Whitehead. Tra le sue opere ricordiamo: Aristote, l’éidetique et la phénoménologie, 1995; Henri Bergson, La Pensée et le Mouvant. Présentation et Commentaire, 1998; L'intentionnalité créatrice. Problèmes de phénoménologie et d'esthétique, 2009; Les montages du sens. Philosophie, cinéma et arts plastiques, 2017. In italiano è apparso il volume La stoffa dell’arte, Mimesis, 2005.


NOTE

[*]. Prima traduzione italiana di P. Rodrigo, Vers l’endotemps et l’endoespace : les difficultés du motif de la profondeur charnelle chez Merleau-Ponty, in ALTER. Revue de Phénoménologie, n. 16/2008, Merleau-Ponty, pp. 11-26. Per gentile concessione dell’autore.

[1] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945, Avant-propos, p. III. D’ora in poi PhP.
[2] Ivi, p. IV.
[3] Ivi, p.109.
[4] Ivi, p.160.
[5] Cfr. note tavv. VII, XV e p. 108.
[6] E. Husserl, Idées directrices pour une phénoménologie et une philosophie phénoménologique pures. Livre second: recherches phénoménologiques pour la constitution, trad. fr. E. Escubas, Paris, PUF, 1982, § 38, pp. 215-216, cfr. Hua IV, p. 152. D’ora in poi Ideen II. [Traduzione nostra].
[7] Ivi, §60a, p. 351, cfr. Hua IV, p. 258]. [Traduzione nostra]
[8] E. Husserl, La crise des sciences européennes et la phénoménologie transcendantale, trad. fr. G. Granel, Paris, Gallimard, 1976, § 62, p. 244, cfr. Hua VI, p. 220. D’ora in poi Krisis. [Traduzione nostra]
[9] Ibid. [Traduzione nostra]
[10] Krisis, §62, p. 246, cfr. Hua VI p. 222. [Traduzione nostra]
[11] Bisogna però rendere giustizia ad Husserl: egli ha avuto una nitida consapevolezza del problema e non ha affatto taciuto questo fatto. Per convincersene è sufficiente pensare ai mirabili tentavi di analisi svolti ai §§36-37 di Ideen II nei quali il filosofo moravo tenta di precisare in cosa consista la differenza tra una sensazione [Empfindung] che si riferisce a delle determinazioni oggettuali (come la rugosità della tavola), e un’impressione sensibile [Empfindnis] che sorge contemporaneamente alla prima ma che è specificamente localizzata nel o sul mio corpo. Husserl sottolinea anche che «l’impressione sensibile tattile [tastande Empfindnis] non è uno stato della oggetto materiale mano, ma al contrario la mano in se stessa […]. È su questa superficie della mano che io provo la sensazione di contatto» [Ideen II, §37]. E. Levinas ha perspicacemente insistito, dal 1965, sull’importanza di questo lavoro di differenziazione tra l’Empfindung e l’Empfindnis, cfr. intentionnalité et sensation, in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris, Vrin, 1967, pp. 145-162 (in particolare pp. 156-160). Con questo contemporaneamente e questo su o nel, non si tratta in effetti di nient’altro che di un tentativo di determinazione della spazio-temporalità del corpo proprio in quanto tale. (ringrazio R. Bernet di aver sottoposto questo aspetto alla mia attenzione).
[12] Ideen II, §62, p. 338, cfr. Hua IV, p. 288. [Traduzione nostra]
[13] Krisis, Appendice XXII, p. 532, cfr. Hua VI, pp. 479-480. [Traduzione nostra]
[14] PhP, p. 171.
[15] Ibid.
[16] PhP, p. 213.
[17] PhP, n.1, p. 333.
[18] PhP, p. 295.
[19] PhP, p. 300.
[20] PhP, p. 303.
[21] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Paris, Gallimard, 1964, p.169 (d’ora in poi VI, e citato secondo la paginazione dell’edizione della collezione TEL, 1979, che è conforme a quella della prima edizione; le edizioni successive presentano differenti paginazioni).
[22] VI, p. 179.
[23] Termine di Pierre Rodrigo [NdT].
[24]VI, p. 78.
[25] Ivi, p. 286.
[26] VI, p. 318. Nota di lavoro datata novembre 1960.
[27] VI, p. 279.


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