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Merleau-Ponty e la spazio-temporalità dell’essere carnale*
di Emmanuel de Saint Aubert

(Traduzione di Giuseppe Crivella)



18 febbraio 2017


In occasione dell’omaggio radiofonico pronunciato qualche giorno dopo la morte di Merleau-Ponty, Jean Wahl si esprimeva in questi termini: «mi sembra che il suo pensiero si apprestasse a definire un nuovo spazio e un nuovo tempo, un nuovo spazio-tempo». [1] Da sempre attento ai lavori di Merleau-Ponty, uditore regolare ai corsi al Collège de France, in Wahl era ancora persistente il ricordo delle ultime lezioni sulla simultaneità ontologica e l’ubiquità carnale (1961). Egli aveva indovinato quanto esse rappresentassero un coronamento del complesso dell’evoluzione del filosofo, a partire dalle sue prime analisi della spazialità del corpo proprio. In realtà, tale orizzonte tardo si preparava da sempre: la ricerca di un nuovo spazio, di un nuovo tempo e di una concezione dei loro legami, attraversa da un capo all’altro l’itinerario intellettuale di Merleau-Ponty, fin dai fondamenti critici, anti-cartesiani, del suo pensiero. Vorrei qui proporre uno sguardo d’insieme trasversale dell’evoluzione delle sue concezioni in merito a tale aspetto. A fronte di numerose esitazioni e mediazioni, Merleau-Ponty poco a poco s’incammina verso l’identità carnale di una spazio-temporalità originaria, i cui orizzonti sono irriducibilmente antropologici e ontologici.


1. IL PERIODO DELLE TESI (1933-1945)

I primi progetti di tesi del filosofo (1933-1934) introducono già come temi privilegiati le questioni della profondità e del movimento, i quali implicano un’articolazione serrata dello spazio e del tempo. La structure du comportement, conclusa nel 1938, affronta discretamente la spazialità e la temporalità del comportamento, [2] annunciando che è nello stesso tempo impossibile proporne un trattamento separato ed uno unico. «Il corpo vivente non organizza in modo indifferente lo spazio e il tempo, non dispone dell’uno come dell’altro», [3] pur integrandoli l’uno all’altro, tale integrazione sarebbe in misura con l’unità del comportamento normale. [4] L’impossibilità di affrontare in modo conveniente il comportamento in una spazio-temporalità risolta secondo due ordini separati e oggettivi sarebbe legata all’impossibilità di attribuire al comportamento una collocazione [emplacement] spaziale o temporale unica: se il corpo vivente non è reperibile secondo la sua integrità nell’hic et nunc, se il suo momento e il suo spazio propri vi si sottraggono per estendersi al di là di tale riferimento puntuale, ciò accade perché lo spazio e il tempo sono intimamente legati.

La Phénoménologie de la perception (1945) oltrepassa tali intuizioni iniziali affrontando per se stesse le questioni della profondità, del movimento, dello schema corporeo e della temporalità. Merleau-Ponty intravede il posto architettonico dello schema corporeo nel capitolo in cui egli descrive a lungo la «spazialità primordiale» del corpo proprio che «si confonde con l’essere stesso del corpo»; [5] una «esperienza originaria dello spazio» [6] che egli definisce d’altronde nelle sue analisi fenomenologiche della «spazialità d’implicazione», [7] dispiegata dalla visione in profondità e dal gesto. Ma l’opera non arriva ancora ad articolare tali sviluppi in una coerenza complessiva. Tale assenza di coesione è evidente nell’assenza di connessione tra il trattamento dello schema corporeo e quello della profondità e del movimento. Alcuni passaggi attribuiscono tutto allo schema corporeo, altri tutto ad un’intenzionalità formulata diversamente (intenzionalità motrice, arco intenzionale, intenzionalità operante...) o ancora a un’esistenza mai del tutto definita, prima che tale ricerca incerta del principio non scompaia in maniera brutale, alla fine della tesi, dietro la questione della temporalità.

In queste prime due parti, La phénoménologie de la perception introduce sempre il tempo immediatamente dopo aver trattato dello spazio, attribuendogli in maniera massiccia le stesse analisi e le stesse strutture (precisamente spaziali) senza una vera giustificazione. Tale procedimento è certo strano, come se Merleau-Ponty cominciasse col dimenticare il tempo, per introdurlo poi quasi scusandosi di non averlo fatto prima, pur affermando che in fin dei conti ciò non cambia le cose e di fatto non c’è nulla di nuovo. [8] Il capitolo accordato alla temporalità nella terza parte della tesi segnala una rottura netta e come un’inversione di prospettiva: la trasposizione delle strutture dello spazio e del tempo lascia immediatamente il posto all’affermazione di una precedenza della temporalità, sebbene Merleau-Ponty continui a descriverla con l’ausilio di nozioni e figure forgiate nel corso delle analisi precedenti sullo spazio percepito [9] e sullo spazio motore. [10]

Formalmente la questione del tempo giunge infine a segnalare l’unità mancante dell’opera, pur attirando tramite essa gli elementi stabili che Merleau-Ponty aveva fatto germinare a partire da un altro terreno d’indagine. Nel suo contenuto il capitolo sulla temporalità mostra una regressione inattesa del corpo verso la soggettività, la quale si trova presa al centro di una incredibile tensione con la volontà d’integrare il pensiero di Heidegger. Merleau-Ponty invita «a farsi del soggetto e del tempo una concezione tale che essi comunichino dall’interno»: «bisogna comprendere il tempo come soggetto e il soggetto come tempo». [11] Per il realista il soggetto è nel tempo, per l’idealista il soggetto è fuori dal tempo; Merleau-Ponty risponde: «io stesso sono il tempo», [12] con una formula che egli non sente la necessità di articolare sulla base dell’eredità di Gabriel Marcel, che egli assimilava fino a «io sono il mio corpo». Merleau-Ponty vuole ancora trovare una via di mezzo tra Marcel, Husserl e Heidegger, senza presentare una frattura tra questi, cercando una soluzione per formulare l’unità dell’uomo operando un connubio tra il corpo e l’intenzionalità, la presenza del soggetto a sé e la sua trascendenza verso il mondo. Congiuntamente a tale sviluppo volontaristico, Merleau-Ponty non giunge quindi ancora, come sarebbe necessario, a un trattamento stabile dello spazio e del tempo, dal momento che sembra esitare tra due vie di precedenza inconciliabili, regredendo così in relazione all’esigenza formulata con La structure du comportament.


2. UNA LUNGA RISTRUTTURAZIONE

L’indomani della guerra è segnata in Merleau-Ponty dalla nascita di un umanesimo esistenzialista attraversato dal non-senso: il filosofo rinuncia non all’unità dell’uomo e del suo rapporto al mondo, ma alla possibilità di formularla in maniera puramente concettuale. La sua filosofia dell’espressione è accompagnata da una mutazione della sua scrittura verso l’uso di figure che parlano meno dello spazio e del tempo, pur lasciandoli agire nel cuore stesso del suo verbo, conservando quest’ultimo vicinissimo alla sua identità sensori-motrice prima quale condizione necessaria per pervenire a quella verità del corpo dove si giocano congiuntamente la testimonianza del sé e quella del mondo. [13]

Nel novembre 1946, presentando La phénoménologie de la perception dinanzi alla Società filosofica e rispondendo alle domande postegli, Merleau-Ponty fa un’affermazione strana, incompatibile sia con quest’opera che con il reso conto che egli ha appena proposto: «rimane certa solo una cosa: io non ho in effetti detto tutto, ma tant’è. Per esempio, io non ho parlato del tempo come base e fondamento» [14]. In linea con questa ritrattazione, i corsi al Collège de France su Le monde sensible et le monde de la sensibilité (1953) e su Le problème de la passivité (1955), compiono una ripresa critica de La phénoménologie de la perception. Merleau-Ponty tiene conto delle osservazioni di Beaufret sull’evoluzione incompiuta della terminologia della sua tesi, la quale non si affrancava abbastanza dalla soggettività. Non si tratta però di guadagnare un approdo heideggeriano ma di ricentrarsi sulla corporeità come entrelacs di percezione e movimento, di passività e di fatticità, di spazialità e di temporalità.

Merleau-Ponty allora mette in campo una notevole progressione che va nel senso di un approfondimento della corporeità, della sua logica propria e delle sue infrastrutture: dalla profondità al movimento e allo schema corporeo, poi all’immaginario, al sogno e all’inconscio. Altrimenti detto: dalla profondità del mondo a quella del mio corpo, poi alla profondità della carne nella sua apertura all’essere. [15] La conseguenza di questa nuova architettura è lo spostamento della questione del tempo, che perde definitivamente il suo legame con la soggettività per diventare tempo del corpo e, da qui, sotto l’effetto della potenza di generalizzazione dello schema corporeo, tempo delle cose e «spinta naturale». [16]

Ne Le monde sensible et le monde de l’expression lo studio del movimento e l’approfondimento delle teorie motrici della percezione eliminano ogni trattamento separato dello spazio (del corpo) e del tempo (della coscienza). La forma non è una figura proiettata e fissata nell’istante, essa è animata da una forza di cui essa è l’espressione, che si legge in essa e si iscrive nella durata. «Dalla più semplice percezione del movimento all’esperienza della pittura, troviamo sempre lo stesso paradosso di una forza leggibile in una forma, di una traccia o di una firma del tempo nello spazio». [17] C’è un tempo del corpo e un tempo della Gestalt, «uno spazio e un tempo delle cose». [18] Il corso del 1953 riprende quindi a lungo la teoria dello schema corporeo, mettendo in evidenza la sua capacità di rinnovare la nostra concezione dello spazio, del tempo e della loro intricazione. [19] Tale corso corregge così le nostre lacune strutturali de La phénoménologie de la perception mediante una progressione più coerente che affronta successivamente profondità, movimento e schema corporeo, passando dallo sconfinamento spaziale a quello temporale per convergere verso lo sconfinamento reciproco dello spazio e del tempo.

Nel 1955 il corso su Le problème de la passivité passa alle infrastrutture inconsce della corporeità, studia lo schema corporeo come una «memoria del corpo» [20], e tenta un’analisi della «promiscuità temporale» dell’inconscio. Merleau-Ponty ricerca l’infanzia del tempo nel tempo dell’infanzia, trova la carne del tempo in un tempo onirico in cui la struttura temporale del nostro corpo [21] manifesta una logica analoga a quella che i primi teorici dello schema corporeo (Bonnier, Head, Schilder) avevano individuato nella nostra spazialità primordiale. L’iperschematismo riconosciuto al livello dello spazio possiederebbe quindi un equivalente temporale, nel contrasto permanente con uno spessore di tempo in cui la reversibilità del passato e dell’avvenire stimola [aiguise] la carne così come quella dell’interno e dell’esterno: la promiscuità del passato (regressione) e dell’avvenire (anticipazione) tramano l’inconscio come un mondo di familiarità e di ignoranza attiva. [22]


3. IL PERIODO ONTOLOGICO

Nel 1957 il primo anno di corso al Collège de France sul concetto di Natura inaugura una nuova tappa affrontando congiuntamente due direzioni inedite: un’analisi diretta della spazio-temporalità strettamente legata agli apporti della scienza contemporanea; una rilettura ontologica delle strutture così messe in luce [23], sotto le insegne di una «ontologia della Natura». Le questioni dello schema corporeo e della spazio-temporalità del corpo sono momentaneamente messe da parte, dal momento che Merleau-Ponty sente il bisogno di tematizzare in maniera più diretta ciò che egli chiama «l’ontologia dell’oggetto». Il filosofo ritorna così al suo dibattito fondatore con Descartes [24], iniziato negli anni ’30, integrando però nella sua nascente ontologia le linee messe in luce in vent’anni di riflessioni sulla fenomenalità del corpo vivo.

A. Dalla critica a Bergson alla mediazione di Whitehead
Questo nuovo ricentramento, dal forte impegno critico, passa attraverso due grandi autori: Bergson e Whitehead. Merleau-Ponty rimprovera a Bergson la sua separazione radicale dello spazio e del tempo, il suo modo di consegnare il secondo alla filosofia e all’interiorità, abbandonando il primo alla scienza e all’esteriorità. L’errore di Bergson consisterebbe nel fatto di aver rinnegato in blocco lo spazio senza giungere a tematizzare in se stessa una spazialità pre-oggettiva, che egli tuttavia utilizza in maniera costante nelle sue descrizioni. Come La phénoménologie de la perception afferma in qualche nota isolata, [25] Bergson rifugge a ragione lo schematismo proiettivo della scienza classica (giustapposizione, partes extra partes), per pervenire però a una molteplicità di fusioni e interpenetrazioni che lo conduce verso quei rischi di cui parla Descartes, un anti-intellettualismo tanto ricco e sterile quanto ineffabile. Dal 1945 Merleau-Ponty cerca uno sviluppo tra queste posizioni estreme (separazione e fusione) mediante la figura originale dello «sconfinamento». Bergson impiega tale figura per parlare dello spazio, del tempo e dei loro rapporti, [26] ma egli rinuncia infine allo sconfinamento dello spazio e del tempo, relega lo spazio alla misura e attribuisce la durata a un tipo di sconfinamento il quale, a forza d’essere affrancato da ogni spazialità, si riassorbe presto o tardi in fusione. Tale pensiero dell’intuizione e della durata pura trascura l’intelligenza e la materia destinandole di concerto all’inferno del geometrismo. [27]

Il corso del 1957 passa da questa critica a Bergson ad un’analisi positiva della spazio-temporalità, attraverso la mediazione di Whitehead. Quest’ultimo è posto immediatamente sotto il segno dell’impossibile separazione tra tempo e spazio, la quale è associata a un nuovo concetto di Natura. Merleau-Ponty rimprovera a Whitehead la critica dell’idea di collocazione [emplacement] unica, «idea secondo la quale ogni essere occupa il suo posto, senza partecipazione rispetto alle altre esistenze spazio-temporali». [28] Egli non sostiene pertanto l’idea di una collocazione [emplacement] multipla, ma invita a un’altra concezioni della località, la quale riconosca che «non si dà spazialità ripulita da ogni spessore temporale». [29] Ciò implica una logica della differenziazione nella quale la differenza non è più esteriore, contorno o guaina dell’oggetto, ma affiora dall’interno. Si tratta di evitare la distinzione proiettiva in cui ogni cosa è definita essendo circoscritta dall’esterno su un fondo generico e ove lo spazio è lo sfondo di tutti gli sfondi, per pervenire a una differenziazione dinamica intrinseca che partecipa alla generazione dello spazio e del tempo stessi. Secondo questo nuovo approccio, ogni cosa naturale è fonte di un dispiegamento spazio-temporale che include sempre già un mondo in cui vivono le altre cose, ognuna essendo da sola una parte totale dell’essere da cui emergono analogicamente delle differenze che non la lacerano. [30]

B. La scoperta della topologia
Al di là della sua critica di Bergson e della sua ripresa di Whitehead, Merleau-Ponty si dirige verso il riconoscimento di una spazialità pre-proiettiva e pre-metrica, ereditata dalla scienza contemporanea e capace di sostenere la sua nuova ontologia nella sua opposizione all’ontologia cartesiana dell’oggetto: lo spazio topologico dei matematici, scoperto nei lavori di Piaget sulla rappresentazione dello spazio del bambino. [31] Bergson aveva decisamente torto nell’assimilare spazio e misura, scienza e geometrismo. [32] Con queste riflessioni Merleau-Ponty amplia le strutture topologiche al tempo stesso per ritrovare una spazio-temporalità naturale «topologica» e «ontogenetica», affrancata dagli schemi che sostengono l’estensione cartesiana. Con Piaget egli comprende anche che la topologia matematica è in grado di descrivere la specificità della nostra prima apertura al mondo e agli altri, in particolare quella misteriosa intelligenza sensori-motrice che vive al di qua della reversibilità logica (l’accesso a questa esige una liberazione dell’irreversibilità del tempo così come essa è vissuta nel corso dell’esperienza motrice ed implica una capacità di separare lo spazio e il tempo del mondo percepito). [33]

L’intricazione pre-oggettiva dello spazio e del tempo è una caratteristica delle infrastrutture più profonde dello schema corporeo. Non è quindi strano vedere Merleau-Ponty concentrare il suo lavoro sulla Natura sul corpo umano (mutazione caratteristica, nel 1960, del terzo anno di corso sul concetto di Natura, ma anche del volume più tardo sul progetto Être et Monde), ritornando per l’ultima volta sullo studio dello schema corporeo (via Paul Schilder) e della sensazione sensori-motrice (via Piaget e qualche altro pensatore, nello specifico Buytendijk). Le implicazioni della topologia, così come Merleau-Ponty la comprende, diventano allora vertiginose: tali strutture chiariscono la logica della percezione, [34] quella dello schema corporeo nel suo complesso e, al centro di questo, la logica del desiderio e dell’inconscio [35] (in una prospettiva fortemente influenzata da Schilder, ma che richiama un confronto con l’uso lacaniano della topologia) [36]. Attraverso e oltre tali implicazioni antropologiche, Merleau-Ponty raggiunge le strutture topologiche dell’essere stesso, fino ad evocare in qualche luogo una «topologia dell’essere». [37]

C. Una lettura di Buytendijk
Nello stesso periodo e strettamente legato con tali direzioni tematiche, la mediazione di Buytendijk occupa un posto significativo. [38] Merleau-Ponty lavora ad Attitudes et mouvements [39], in particolare ai passaggi sul movimento proprio in cui l’autore, facendo riferimento a Michotte, Weizsäcker, Straus, Uexküll, Auersperg e Ehrenfels, mostra che l’esistenza animale trova la sua specificità nella struttura fenomenale del movimento come oltrepassamento o trasgressione dei limiti, là dove la crescita vegetale non opera che per spostamento [déplacement]. L’unità dello spazio-tempo vitale è così manifestata dal salto. [40] Per Buytendijk il «muoversi» inaugura un modo di presenza originale che la filosofia ha non pochi problemi a formulare e che sembra anche inintellegibile e che è possibile prendere in esame solo tramite la percezione. In questo modo di presenza, è impossibile situare il soggetto e la nozione stessa di soggetto si trova ad essere messa in crisi. Tale modo è estatico, ma senza abolizione dell’individuale; esso è caratterizzato dall’oltrepassamento dei limiti, senza per questo ridurre la consistenza di questi ultimi che sono «posseduti simultaneamente come ostacolo e come appoggio e slancio». [41] Merleau-Ponty ritrova qui il suo approccio personale all’avversità, ereditato da Bachelard e lavorato fin dagli inediti della fine degli anni ’40: idea essenziale alla sua filosofia della carne e rinnovata dal suo lavoro sulla Natura. [42]

Ispirandosi alla conferenza di Weizsäcker su Gestalt und Zeit (1942), Buytendijk spiega in che cosa la genesi del movimento non potrebbe essere presa in considerazione come iscritta in un tempo fisico omogeneo, ma complica sempre, l’uno per mezzo dell’altro, forma, forza e tempo. Ugualmente, lo spazio vitale, «campo di relazioni reciproche realizzate dalla percezione e dall’azione», [43] differisce dallo spazio fisico. Buytendijk rigetta l’approccio kantiano dello spazio, spazio tridimensionale euclideo, forma a priori della sensibilità; tale «spazio puro della rappresentazione pura» implica «l’indifferenza verso il dato [e] non esiste che per il soggetto conoscente e in quanto condizione della conoscenza». [44] Esso sottomette la vita percettiva alla localizzazione geometrica e riduce il mondo percepito a quello della scienza classica dove «non si fa questione di una relazione a un osservatore vivente e vitalmente interessato». [45] Lungi dall’essere un puro prodotto dell’attitudine razionale, lo spazio vitale è strutturato da un corpo di percezioni e di movimenti e resta così solidale rispetto «al tempo e al movimento». Simmetricamente Buytendijk pensa che «la distinzione netta tra il tempo e lo spazio caratterizzi l’attitudine razionale o l’attitudine non vitale in generale». [46] Merleau-Ponty si orienta verso queste stesse idee pur rivestendo la mediazione di Buytendijk di lumeggiature psicoanalitiche che Paul Schilder apporta alla teoria dello schema corporeo [47]: egli assimila attitudine vitale e desiderio, col rischio di interpretare la postura che presiede all’ontologia dell’oggetto come una devitalizzazione sostenuta da una rimozione della vita desiderante.

Merleau-Ponty ritrova quindi in Buytendijk la tesi dell’intricazione irriducibile dello spazio e del tempo nell’essenza della vita animale, nel circuito del wahrnehmen - sich bewegen in cui l’impressione sensibile delinea la forma del movimento, mentre nello stesso tempo il movimento delinea la forma della percezione. «Die Bewegung des Organismus bewegt sich nicht in Raum und Zeit, sondern der Organismus bewegt den Raum mit der Zeit». [48] Tale proposizione, che Buytendijk riprendeva parola per parola da Weizsäcker e che Merleau-Ponty recupera a sua volta, rischiara da sola la concezione della spazio-temporalità verso la quale quest’ultimo si dirige da sempre e che culmina negli ultimi volumi inediti del progetto Être et Monde.

D. Verso un’ontologia della Natura
Questa nuova spazio-temporalità è chiamata a sostenere un’ontologia della Natura che Merleau-Ponty vuole sostituire allo sterile faccia a faccia della pura coscienza e della pura estensione.
Whitehead parla di relazioni di sconfinamento (overlapping) da comprendere prima di ogni specificazione spazio-temporale, come fondamento del tempo e dello spazio così come della loro relazione. Le unità spazio-temporali si accavallano. Il compito imposto alla filosofia della Natura sarebbe quello di approfondire la relazione che esiste tra queste unità. Non si tratta dell’interiorità spirituale invocata da Brunschvicg e compatibile con un’esteriorità di un puro meccanismo. [49]
Si tratta al contrario di infrangere tale ambivalenza dell’interiorità e dell’esteriorità, dello spiritualismo e del materialismo, per coltivare la potenza analogica della carne così come essa fu introdotta nel 1951 con L’homme et l’adversité, fino ad associarla strettamente ad una nuova concezione della Natura. Questa non è più riducibile all’inumano di cui l’uomo si rende signore, all’altro della mia libertà o della mia soggettività: è centrale il fatto di ritrovarla come sfondo stesso dell’essere umano, pre-umanità che ci porta e ci sostiene fino alle nostre opposizioni più esplicite riguardo ad essa. È come se Merleau-Ponty, giunto nel 1953 e nel 1955 a ristrutturare i suoi primi lavori progredendo dal corpo delle percezioni e dei movimenti fino al cuore stesso delle infrastrutture inconsce e passive della corporeità, mirasse a partire dal 1957, mediante il concetto di Natura, al segreto ontologico di tali infrastrutture. La Natura «assicura l’interiorità degli eventi gli uni in relazione agli altri, la nostra inerenza al Tutto, lega gli osservatori gli uni agli altri […] e costituisce l’unità del nostro corpo». [50]

Nell’arco del suo primo anno di corso sul concetto di Natura, Merleau-Ponty redige un primo manoscritto esplicitamente ontologico, la Natura ou le monde du silence, contro Descartes e Sartre. [51] La sua ontologia della Natura intende rompere con ciò che conduce al lucido accecamento dell’umanismo sartriano, a quella saggezza disperata [52] che, ignorando la Natura, manca inesorabilmente la questione dell’uomo, poiché essa lo pensa come se non fosse affatto nato. La filosofia stessa vive del confronto con un fuori che dall’inizio risulta neutralizzato, se noi cominciamo con il cogito o la libertà. Questi due inizi filosofici sembravano tuttavia offrirci i mezzi più radicali per restituire il fuori dell’uomo, le condizioni necessarie per rispettarlo infine come tale, spogliandolo metodicamente delle proiezioni dell’umano che ci impediscono in seconda battuta di pensare l’uomo. Ma tale purificazione è giustamente, per Merleau-Ponty, la grande illusione della filosofia. Poiché questo puro fuori è più che mai tramato di noi stessi, essendo la misura del più massiccio dei disconoscimenti [dénégations], innalzato come uno schermo non oltrepassabile tra noi e gli altri, tra noi e l’essere stesso. Il vero fuori che cerca l’endo-ontologia di Merleau-Ponty non è posto come un vis-à-vis, di cui l’esito sarebbe l’annullamento di uno dei termini, e poi quello inesorabile dell’altro: l’istituzione del puro oggetto, i cui ruoli si sostituiscono all’infinito, in un’alternanza in cui nulla mai sarà scambiato. Il vero fuori non è l’estensione come esteriorità senza mistero, ma un’esteriorità con sconfinamento, una profondità in cui noi siamo già. [53] Sebbene questa esteriorità non è di costruzione (gli ostacoli che noi erigiamo non ci sono), [54] essa è naturale e ci ricopre dall’interno ancora prima che noi siamo in grado di riconoscerla come inumana. Il vero fuori è già un dentro che ci infesta [hante]. Ed è per questo che noi siamo tentati di esorcizzarla edificando il mito dell’oggetto. Più vecchio dei nostri primi pensieri, il fuori di cui noi viviamo e di cui vive la filosofia deborda sul nostro dentro e trasforma tutte le nostre interrogazioni in mistero.

Il complesso delle potenzialità critiche del pensiero di Merleau-Ponty si cristallizza così nella denuncia di una «ontologia dell’oggetto» sostenuta dalle abitudini intellettuali ereditate dalle matematiche di Descartes. Merleau-Ponty è da sempre contrario alle pretese dell’esigenza del partes extra partes e alla tesi ad esso correlative: quella della stretta correlazione, tanto spaziale quanto epistemologica e ontologica. Ogni cosa è al suo posto, nel suo luogo proprio, un luogo strappato ad ogni spessore temporale, protetto da ogni forma di sconfinamento e di desiderio: sconfinamento di un altro luogo, di scivolamento del suo senso verso un altro senso e un altro essere. Un luogo infine mitologico, affrancato da ogni contingenza e da ogni vita, al riparo dalla Natura e dalle sue potenze transizionali. Uno spazio anti-topologico e un tempo anti-genetico, perfettamente simbolizzato dal volo immobile di una coscienza non situata. L’estensione è disposta di fronte alla coscienza unicamente per rifletterla e le sue proprietà di univocità rassicurante sono date come certe solo per garantire la mia salvaguardia: per edificare la coscienza come bastione del non-sconfinamento, quello dell’impossibilità dell’incontro di altri. [55]

E. Simultaneità e obliquità
È sempre in questo orizzonte critico che l’ontologia di Merleau-Ponty lavora infine in un’ultima tappa (1960-1961) il senso positivo dell’ubiquità e della simultaneità. Tali nozioni conoscono nei suoi ultimi scritti una vera mutazione, se non un rovesciamento. Essi appartenevano da molto tempo al lessico filosofico, ma facevano riferimento allora alla dismisura dello sguardo cartesiano-sartriano: l’ambizione di veder tutto, l’onnipotenza del survol e delle sue arti proiettive. Come fa per altre nozioni (per esempio la reversibilità o anche la riflessione), Merleau-Ponty finisce per riprendere a sua volta l’ubiquità e la simultaneità donando loro un significato carnale, positivo e una dimensione originaria. Tale significato si dispiega da solo fino ai suoi orizzonti più ontologici, come «la riflessione carnale» è chiamata a fondare perfino la riflessione «astratta». Conformemente al suo metodo costante, Merleau-Ponty vuole ritrovare l’ubiquità e la simultaneità che sono all’opera già al momento della vita percettiva — in particolare nella visione in profondità — prima di estenderle all’insieme della vita analogica dello schema corporeo, una vita carnale animata dal desiderio e aperta all’essere. È in questa direzione che si muovono L’œil et l’esprit (1960) e l’ultimo corso al Collège de France sull’ontologia cartesiana (1961). [56]

Sulla linea di queste tappe e mediazioni complesse, il trattamento merleau-pontiano dello spazio e del tempo tende a far convergere il suo quadro antropologico iniziale in un quadro ontologico, prendendo coscienza della necessità di pensare l’essere umano a partire dalla Natura. Ritornando un’ultima volta al corpo umano nel corso degli inediti tardi, Merleau-Ponty non abbandona la Natura, ma tiene insieme corpo e Natura nello strano concetto di carne del mondo (1960-1961). La Natura mi insegna che io sono carne nella carne del mondo e che è impossibile comprenderle indipendentemente l’una dall’altra. [57]

Alcuni passaggi più tardi sullo spazio e il tempo rivelano allora una sorta di difficoltà descrittiva che può giustamente lasciarci perplessi. Essi presentano il punto più arduo della lotta merleau-pontiana contro «l’ontologia dell’oggetto», contro il suo approccio seriale allo spazio come al tempo, di fronte ai quali la coscienza è nell’impossibile postura del survol absolu di Ruyer, radicalmente affrancata dalla carne. Merleau-Ponty stigmatizza tale ontologia in quanto essa riduce gli esseri a «puri individui, a dei ghiacciai d’essere che non sono passibili di sezionamento» [58], i quali possono comunicare solo dall’alto della coscienza e dei loro legami di natura ideale. Al contrario, la sua descrizione dello spazio e del tempo traduce l’esito di una filosofia della carne generalizzata, in cui «la generalità del corpo» vuole offrire un contro-modello rispetto all’astrazione intellettualista. [59] Essa designa la vittoria di una logica dello sconfinamento che ha messo fine al partes extra partes dell’estensione cartesiana, fino a riassorbire ogni separazione. Essa disegna infine il quadro onirico di una carne materiale in cui l’essere è assimilato a una materia d’essere della carne, allo stile che la caratterizza. Guardando questo quadro, tutto sembra essere null’altro che pregnanza, Ineinander e promiscuità, nel seno di un’ontologia che avrebbe dissolto ogni dimensione corpuscolare nel movimento unitario e di fusione di una dinamica ondulatoria, in una sola ed unica «vibrazione ontologica»:
ormai gli individui dello spazio e del tempo non sono più gli uni fuori degli altri e la generalità nella quale essi comunicano non li sovrasta: non vi sono che sconfinamenti di individui, tempo e spazio sono proliferazione, generatività, deiscenza, pregnanza, parto, apertura di sé a sé, auto-costituzione, il senso al quale partecipano gli individui non è al di sopra di essi, esso è tra di loro, carne della loro carne, carne assottigliata, estenuata, sublimata [...]. L’interrogazione filosofica ha come oggetto in principio questa essenza bruta e questa esistenza bruta, che non sono alternative e la giunzione delle quali non costituisce un’aporia, poiché esse sono i nodi e i ventri della stessa vibrazione ontologica. [60]
Merleau-Ponty rischia quindi infine di sostituire il Grande Oggetto con un Grande Corpo («la Natura è la carne, la madre»), generalizzazione ultima dello schema corporeo e del desiderio che l’anima, nel cerchio di una «carne del mondo» che è la proiezione massiccia della nostra carne là dove questa non è altro che l’introiezione di quella. Tale filosofia della carne, saturata di un onirismo in fusione, indicherebbe il ritorno decisivo del mito dell’unificazione totale che aleggiava su La phénoménologie de la perception, quello di una «struttura unica» che rimanda in una maniera magica ad un problema non risolto [61]. La Natura, archè originaria, Boden garantito contro ogni forma di non-senso e di separazione radicale, finirebbe per mascherare l’essere esplosivo e dialettico che Merleau-Ponty pur rivendicava.

Tuttavia è impossibile fermarsi qui sena dare luogo a una lettura mutilata degli ultimi scritti di Merleau-Ponty, ricchi di altri tentativi che rilanciano l’ontologia al di là del semplice riassorbimento dell’essere nella carne. Non è questo il luogo per esporre queste diverse direzioni di pensiero [62]. Ci soffermeremo solo su una di queste, particolarmente significativa, direttamente legata alla tematica del presente scritto. Si tratta della riflessione merleau-pontiana sulla fede percettiva e il pensiero interrogativo, la quale costituisce d’altronde il quadro stesso dei testi sulla «vibrazione ontologica» che abbiamo appena citato. Questi sono in effetti aperti da un’interrogazione la quale per Merleau-Ponty riassume e fonda tutte le domande: «dove sono io? Che ora è?». Un’interrogazione che ci rimanda un’ultima volta allo spazio e al tempo, la cui analisi ci orienta verso una delle direzioni più feconde dell’ontologia fenomenologica dell’autore.


4. EPILOGO: INTERROGARE QUESTO SPAZIO E QUESTO TEMPO CHE NOI SIAMO

A. Dove sono io e che ora è?
«Non ci si interroga sullo spazio e il tempo. Si interroga questo spazio e questo tempo che noi siamo», afferma Être et Monde nel 1959 [63]. L’ultimo Merleau-Ponty si volge verso tale questione inesauribile «che noi siamo», una vita interrogativa che sostenga ogni conoscenza e accompagni già la percezione. [64] Egli fa per questo motivo appello a un estratto celebre de L’art poétique di Claudel, dove commentatori raffinati come Georges Poulet o André Vachon hanno letto il Cogito del poeta. [65] Tale passaggio, cifra trasversale del complesso dei manoscritti preparatori o costituenti Le visible et l’invisible (vi ritorna non meno di tredici volte [66]), gravita attorno ad una interrogazione elementare sulla nostra iscrizione spazio-temporale: «dove sono io e che ora è?». Merleau-Ponty lo utilizza già in una nota inedita risalente probabilmente al marzo 1959, intitolata Foi percetpive et interrogation [67]. All’altra estremità della redazione de Le visible et l’invisible, un foglio inedito del novembre 1960 afferma ancora: «il dove sono io e che ora è di Claudel contiene già la filosofia». [68]

Per Claudel il poeta è colui che interroga l’essere nella sua totalità, una totalità di cui esso è colui che interroga così come appartenenza all’essere. La formula interrogativa ripresa da Merleau-Ponty intende simboleggiare tale attitudine: essa è vicinissima alla «questione centrale che è noi stessi» [69], ma che è anche e immediatamente «la domanda di colui su cui essa verte». [70] L’interrogazione è il dispiegamento naturale dell’essenza dell’uomo nel suo Ineinander con l’essere, ciò che gli dona immediatamente uno statuto in cui antropologia e ontologia sono indissociabili.

L’interrogazione, più che un dubbio, è l’épreuve dei nostri vincoli, nei due sensi del verbo /éprouver/ — avvertire e mettere alla prova. Questi due sensi convergono verso un significato unitario per colui che concepisce la vita percettiva non come una pura ricettività, ma come una esperienza passivo-attiva della resistenza e della pressione delle cose. Il cogito sensibile di Claudel congiunge in tal modo il coglimento di sé alla percezione éprouvante [71] della nascita del mondo. Esso non si sviluppa in un’inferenza e non conclude in un io sono, ma lo mette in opera come la carne, in una postura interrogativa. Essere è iscriversi nei confronti del tempo e dello spazio sentendosi iscritto in un corpo a corpo:
da un istante all’altro un uomo rialza la testa, annusa, ascolta, considera, riconosce la sua posizione: pensa, sospira e estraendo il suo orologio dalla tasca posta contro il suo fianco, guarda l’ora. Dove sono? Che ora è? Questa è la domanda che noi rivolgiamo al mondo, la domanda inesauribile [Claudel, Art poétique, Mercure de France, 1907, p. 9] [72]. Inesauribile perché l’ora e il luogo cambiano, ma soprattutto perché la questione non consiste in fondo nel sapere in quale luogo e in quale ora noi siamo, ma da principio per quale vincolo indistruttibile noi siamo ancorati nello spazio e nel tempo. L’indagine delle circostanze non sarebbe così appassionata come è, se noi non cercassimo il modo di cambiare senza dubbio, ma dall’inizio di provare e di comprendere i nostri vincoli. [73]
B. Il vincolo indistruttibile
La postura interrogativa fondamentale che ci anima non è «l’assenza provvisoria di un enunciato positivo», [74] «la semplice attesa di un significato che verrebbe a colmarla» [75], ma una maniera «di cogliere l’Essere». [76] La sfida non è quella di ricevere dei dati, di essere informato, ma di testimoniare e sperimentare [éprouver] un vincolo, un ancoraggio e di testimoniarlo e di sperimentarlo [éprouver] come indistruttibile tanto per la sua solidità che per la sua durabilità.

L’interrogazione è pertanto profondamente estranea al dubbio generalizzato, ove «un non essere centrale minaccia ogni momento di revocare il suo assentimento all’essere». [77] L’uomo istallato in un tale dubbio non pone più domande, il suo corpo angosciato si pietrifica e finisce con la cessazione della percezione stessa. Tale dubbio è «un positivismo clandestino», secondo l’analisi sottilissima di Merleau-Ponty, e noi dobbiamo «oltrepassarlo» verso ciò che «esso nega ed afferma ancora». [78] L’interrogazione non è «arretramento nel niente che è nulla», poiché «colui che interroga non è niente, esso è – cosa completamente diversa — un essere che si interroga; ciò che esso ha di negativo è portato da un’infrastruttura d’essere». [79] E se si crede di poter rispondere alla nostra interrogazione fondamentale tramite «una sfera d’assoluta certezza», si ricade di nuovo in una cesura rispetto all’essere, una negazione della nostra inerenza e dei nostri vincoli [80]. Dubbio assoluto o certezza assoluta, queste due impasses sono emblematiche degli scenari critici di Descartes e di Sartre. L’uno come l’altro sono messi in scena nella tripla denegazione del nostro legame all’essere, della consistenza dell’essere e di quella del nostro essere proprio. [81]

Tale mancanza di assentimento all’essere e di assentimento ad essere mette fine a ogni vera interrogazione. Una simile postura è vana e mentitrice, poiché l’essere continua a portarci – le nostre domande lo provano, sebbene esse vogliano affermare il contrario. «Nessuna domanda va verso l’essere: non foss’altro che per il suo essere domanda, essa lo ha già frequentato, essa proviene da quello». [82] E la domanda posta da l’Art poétique implica proprio questa frequentazione. Come viene affermato ancora ne Le visible et l’invisible, «noi siamo delle esperienze, ovvero dei pensieri che testimoniano e sperimentano il pensiero dietro quelli dello spazio e del tempo, dell’Essere stesso che essi pensano». [83] Che testimoniano e sperimentano la portanza dell’essere.

Allora è escluso che la questione «sia senza risposta, pura apertura verso un Essere trascendente», ma è anche escluso che «la risposta sia immanente alla domanda»: nei due casi «la nostra situazione di partenza è ignorata». [84] Ogni interrogazione che operi una rottura o una fusione con l’essere si distrugge come interrogazione e nega la nostra condizione. Noi non siamo né «rescissi dall’Essere», né totalmente «presi in esso». [85] Ma in una situazione d’inerenza e di sconfinamento che configura epistemologicamente le nostre domande come misteri e non in problemi perfettamente risolvibili o totalmente insolubili. [86] Né separati dall’essere, né assorbiti in esso, noi siamo affrancati dai due abissi, separazione e fusione, che lavorano l’analitica dell’Essere e del Nulla e costituiscono per Merleau-Ponty «l’ambivalenza di Sartre». Le nostre domande sono sorrette da un’infrastruttura d’essere e mobilitano in noi un vincolo indistruttibile — non un legame subito, ma la semenza di una nascita alla quale contribuisce la nostra interrogazione. L’essere si esprime e ci esprime, si afferma e ci afferma prima ancora che noi siamo nelle condizioni di interrogarlo: tale precessione ontologica dà il quadro generativo dell’esperienza umana, essa rende possibile e provoca la nostra interrogazione.

C. Fede e interrogazione. Éprouver la portanza dell’essere
Tale riflessione tarda di Merleau-Ponty sul pensiero interrogativo prosegue la sua ricerca di sempre vertente su una concezione esistenziale della conoscenza la quale sappia smarcarsi dalle ingenuità e dalle pretese dell’idealismo come del realismo. [87] L’avventura della conoscenza si radica nella épreuve passivo-attiva di una coesistenza, di un legame di connaturalità, per assentimento e partecipazione alla nascita congiunta delle cose e del sé. Essa è così «co-naissance», secondo la nozione che Merleau-Ponty, dai suoi primi scritti, prende in prestito costantemente dalla stessa Art poétique di Claudel.

Ogni domanda «fa parte della domanda centrale che è noi stessi», [88] quella «di colui sul quale essa verte» [89] e che non potrebbe sfuggire a tale inerenza senza falsare o rinnegare l’interrogazione che l’anima. Dove sono io e che ora è sono emblematiche di questo stupore interiore al mistero che costituisce il fondamento esistenziale di ogni conoscenza. Uno stupore che scava lo scarto tra la carne e l’essere pur mettendo alla prova il loro legame. Agli antipodi del dubbio nullificante come dell’essenzialismo menzognero che potrebbe sfociare solo su una separazione e una fusione egualmente distruttrici, tale stupore dinanzi alla sorpresa dell’essere, che ci precede e ci sostiene, è il principio d’animazione stessa della nostra intelligenza incarnata.

L’analisi merleau-pontiana della postura fondamentalmente interrogativa della nostra carne mette in evidenza una collusione, sottile e paradossale, tra interrogazione e fede. È per un atto di fede che noi ci manteniamo al di fuori degli abissi dei due positivismi nullificanti denunciati da Merleau-Ponty, gravati da una mancanza di assentimento all’essere e di un assentimento ad essere. Come sempre il fenomenologo francese concepisce l’articolazione tra fede e interrogazione a partire dalla sua comprensione della vita percettiva. Noi non possiamo percepire senza aprirci all’indeterminazione del mondo percepito, senza consentire ad adattare le nostre strutture sensori-motrici alla distanza e alla grana del sensibile e senza aderire alla cristallizzazione dell’inesauribile. Ma questa fede percettiva possiede nel suo fondo una dimensione interrogativa che prefigura e fonda tutte le nostre domande. Poiché essa non è un assentimento puramente passivo, se non servile, alla pressione e alla tensione delle cose: essa stessa esercita una pressione sull’essere percepito, una messa alla prova tanto più radicale quanto il suo assentire è forte. La fede interroga e obbliga l’essere al quale essa si affida e nel quale essa confida. Essa non è adesione post hoc ad una identità preliminarmente delimitata — adesione al già determinato, al già provato — ma assentimento all’indeterminazione e adesione ad una determinazione in corso. E questo in parte grazie a ciò: sordamente operante, la fede partecipa del processo di determinazione nella sua maniera di assentire all’indeterminazione e di interrogarla. La fede va oltre la prova, testimonia e sperimenta [éprouve] ed in tal modo partecipa alla prova. Feconda e performativa, la sua determinazione all’indeterminazione contribuisce a una determinazione dell’indeterminazione, come se il suo modo di aprirsi all’inesauribile partecipasse alla cristallizzazione di quest’ultimo. Come se essa contribuisse alla realizzazione della promessa alla quale essa aderisce. [90]

Percezione, immaginazione e fede. È proprio verso le loro strette connessioni e articolazioni che si dirige la riflessione tarda di Merleau-Ponty, in relazione al suo lavoro su Le visible et l’invisible e a partire dal dove sono io e che ora è di Claudel. Il primo testo, evocando il Cogito claudeliano, con una nota intitolata precisamente Foi perceptive et interrogation, lancia due equazioni per lo meno audaci: da una parte, tra interrogazione e fede, dall’altra tra percezione e interrogazione. «Quindi interrogazione che è la fede (invece di annullare l’in sé) — Percepire è interrogare: definizione dell’adaequatio realista o idealista rigettata, scarto che è rapporto. Tale interrogazione è dietro ognuna delle nostre domande: dove sono io e che ora è? (Claudel)». [91]

L’essere umano approfondisce la sua «implicazione inestricabile» [92] con l’essere al cuore di un’attesa inesauribile e in una confidenza indefettibile [93] — compresa, se non tanto più, nell’avversità, «nel momento in cui la vita è minacciata». [94] Esso l’approfondisce in questa dimensione fondamentalmente interrogativa e éprouvante [di testimonianza e di sperimentazione] che è quella della sua esistenza, del fatto stesso della sua attesa e della sua fede. Sordamente esercitata dalla minima percezione, l’interrogazione fondamentale che «porta già la filosofia» [95] è così la testimonianza e la sperimentazione [épreuve] vitale della nostra incarnazione: il «vincolo indistruttibile» tramite il quale «noi siamo ancorati nello spazio nel tempo», [96] «il profondo movimento mediante il quale noi ci siamo installati nel mondo», [97] movimento che è la nostra nascita continuata. Esso va anche al fondamento del nostro desiderio di conoscere, poiché l’avventura della conoscenza è il proseguimento senza fine di questo bisogno esistenziale che è il nostro, cioè quello «di testimoniare e sperimentare [éprouver] e di comprendere i nostri vincoli». [98] In ultimo, tale épreuve esercitata tramite questo «organo ontologico», che è la nostra fede interrogativa, inaugura e accompagna fino in fondo il nostro rapporto all’essere. [99]

Noi siamo «una sola domanda continuata, un’impresa perpetua di messa in rilievo di noi stessi rispetto alle costellazioni del mondo e delle cose in relazione alle nostre dimensioni». [100] Una insurrezione continuata nella quale noi ci innalziamo senza fine sulla portanza dell’essere e facciamo sì che prendano rilievo a nostra volta gli esseri sugli assi portanti del nostro schema corporeo. Nel quale l’essere che noi siamo e l’essere del mondo possono co-nascere, sorgere insieme in un solo essere verticale. Questo è il complesso irriducibilmente antropologico e ontologico — in cui fede, interrogazione, testimonianza e sperimentazione [épreuve] dei nostri legami si unificano nell’essere percipiente e desiderante — che Merleau-Ponty schizza a partire dalla domanda claudeliana: dove sono io e che ora è? rispondendo alle impasses del «complesso ontologico» cartesiano e sartriano tramite l’articolazione intima dell’assentimento ad essere e dell’assentimento all’essere.


* “Espaço-temporalidade do ser carnal”, trad. Terezinha Petrucia da Nóbrega, in Compêndio Merleau-Ponty, éd. Iraquitan de Oliveira Caminha et Terezinha Petrucia da Nóbrega, São Paulo, Brésil, Liber Ars, 2016, pp. 235-251. Qui per gentile concessione dell’autore.

[1] J. Wahl, Hommage à Maurice Merleau-Ponty, 17 mai 1961, archives INA.
[2] SC, p. 136. Il comportamento, dal momento che ha una struttura, non si sviluppa nello spazio e nel tempo obiettivi, come una serie di eventi fisici.
[3] Ivi, p. 122.
[4] Ibid. Le dimensioni del tempo e dello spazio interferiscono […]. Le relazioni temporali che giocano un ruolo nel comportamento animale manifestano delle aderenze, come delle viscosità che per noi è difficile concepire come a partire da concetti puri e maneggiabili dello spazio e del tempo.
[5] PhP, p. 173. L’esperienza rivela, al di sotto dello spazio oggettivo, nel quale il corpo infine prende posto, una spazialità primordiale, di cui la prima è solo l’involucro e che si confonde con l’essere stesso del corpo. PhP, p. 334. Noi cerchiamo di fondare lo spazio geometrico con le sue relazioni intra-mondane sulla spazialità originaria dell’esistenza.
[6] Ivi, p. 287.
[7] Ivi, p. 318-319.
[8] Ivi, p. 83. Ciò che abbiamo appena detto della prospettiva spaziale potremmo anche dirlo della prospettiva temporale. Ivi, p. 119. Si vede meglio, considerando il corpo in movimento, come esso abiti lo spazio (e d’altronde il tempo). Ivi, p. 162. Non bisogna dire che il nostro corpo è nello spazio, né d’altronde che esso sia nel tempo. Ivi, p. 379. La coesistenza, che definisce lo spazio, non è estranea al tempo. Ivi, p. 379. Ivi, p. 469. Noi possiamo fin da ora dire della temporalità ciò che noi abbiamo detto poco sopra, per esempio, della sessualità e della spazialità.
[9] Ivi, p. 281-344.
[10] Ivi, p. 114-172.
[11] Ivi, p. 483.
[12] Ivi, p. 481.
[13] Per un’analisi di questo periodo cfr il nostro testo Du lien des êtres aux éléments de l’être. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951, Saint Aubert, 2004.
[14] PPCP, p. 98.
[15] Être et chair I, Saint Aubert, 2013.
[16] NPVIf [159]. Il tempo, così compreso, non è coscienza di […], è spinta naturale.
[17] RC53, p. 20.
[18] MSME, p. 90/[59](VI2).
[19] Cfr Saint Aubert, 2013.
[20] PbPassiv 176/[125], 254/[196](60), 261/[248], 273/[239](2), [235]/NP, [237]/NP.
[21] Cfr. Saint Aubert, 2013, Capitolo IV.
[22] PbPassiv, p. 261/[248]. Ricordarsi è ricordarsi della corporeità antica e avere un corpo è anche avere un passato di corporeità, c’è un tempo del corpo, una struttura temporale della corporeità. Intreccio di corpo e dell’implesso: da qui ciò che Proust dice della memoria del corpo. PbPassiv, pp. 254-256/[196](59)-[197](61). La presenza del tempo è carnale come quella dello spazio [...], il corpo apparato [appareil] non solo per percepire lo spazio, ma anche il tempo [...]. Il tempo si legge nello schema corporeo trasformato in una certa ripetizione delle forze […]. Il corpo non è strumento, ma organo, il tempo è in esso incorporato […], non è orologio e non misura simultaneità oggettive: misura la coesistenza?
[23] PbPassiv, p. 218/[178](44). La promiscuità spaziale diventa promiscuità temporale, ovvero familiarità e ignoranza. La teoria dell’inconscio, della memoria, deve essere rinnovata da questo riferimento all’ordine percettivo, all’ordine della coesistenza col mondo e con gli altri.
[24] RC57, pp. 119-120. È secondo questo spirito che noi abbiamo cercato di mostrare che [la scienza] si allontana sempre di più dalla ontologia definita da Laplace in un testo celebre la critica scientifica delle forme dello spazio e del tempo nelle metriche non euclidee; la fisica della relatività ci insegna a rompere con la nozione comune di uno spazio comune e di un tempo senza riferiemento alla situazione dell’osservatore e ci prepara a dare tutto il loro senso ontologico a certe descizioni dello spazio e del tempo percepito.
[25] Cfr il nostro Le scénario cartésien. Recherches sur la formation et la cohérence de l’intention philosophique de Merleau-Ponty, Saint Aubert, 2005.
[26] PhP, p. 474, nota 1. Non è né necessario, né sufficiente, per risalire al tempo autentico, smascherare la spazializzazione del tempo come fa Bergson. Non è necessario perché il tempo esclude lo spazio solo se lo si considera come spazio preliminarmente oggettivo, e non come questa spazialità primordiale che noi abbiamo cercato di descrivere […]; una volta denunciata la traduzione sistematica del tempo nei termini di uno spazio, si può restare molto lontani da un’intuizione autentica del tempo. Cosa che accade a Bergson. Ivi, p. 319, nota 1. Bergson oppone alla molteplicità della giustapposizione delle cose esteriori la molteplicità di fusione e di interpenetrazione della coscienza. Egli procede per diluizione. Parla della coscienza come di un liquido in cui gli istanti e le posizioni si fondono. Egli cerca in essa un elemento in cui la loro dispersione sia realmente abolita. Non si rende più chiaro lo spazio, il movimento e il tempo scoprendo uno strato interiore dell’esperienza in cui la loro molteplicità si cancelli e si abolisca realmente. Poiché se essa lo fa, non resta né spazio, né movimento, né tempo. La coscienza del moi gesto, ammettendo che essa sia davvero uno stato di coscienza indivisa, non è più affatto coscienza di un movimento, ma una qualità ineffabile che non può istruirci sul movimento. Se, in virtù del principio di continuità, il passato è ancora presente e il presente già passato, non v’è più né passato né presente: se la coscienza diventa una valanga di neve con se stessa, essa si situa, come la valanga di neve e come tutte le cose, interamente nel presente. Se le fasi del movimento si identificano sempre di più, nulla più si muove da nessuna parte. Se la coscienza è molteplicità, che raccoglierà questa molteplicità per viverla esattamente come molteplicità, e se la coscienza è fusione, in che modo essa arriverà a sapere della molteplicità dei momenti che essa porta a fondere?
[27] Cfr Durée et simultanéité.
[28] Bergson, 1941, pp. 190 e 211. Lo stesso movimento che conduce lo spirito a determinarsi come intelligenza, ovvero come concetti distinti, porta la materia a frantumarsi in oggetti nettamente esterni gli uni agli altri. Più la coscienza si intellettualizza, più la materia si spazializza [...]. Tutte le operazioni della nostra intelligenza tendono alla geometria, come al temine al quale trovano il loro perfetto compimento.
[29] Natu1, p. 154.
[30] Ivi, p. 153.
[31] Ivi, pp. 161, 163, 156. La natura è dispiegamento spazio-temporale [...]. La natura è un inarcamento di tempo e spazio […], una nuova classe di oggetti è determinata non da una frontiera esterna, ma da un punto centrale all’interno, non da ciò che essa esclude strettamente, ma da ciò che essa include in modo eminente.
[32] J. Piaget et B. Inhelder, 1948.
[33] Natu1, p. 151. Bergson sbaglia quando parla di un’esperienza interna del tempo senza ammettere che lo spazio possa essere l’oggetto di considerazioni identiche. In Durée et simultanéité egli infatti non dichiara che la misura [dello spazio] esaurisce la sua essenza? La scienza raggiunge l’assoluto in ciò che concerne lo spazio. Non bisogna quindi ritrovare lo spazio polimorfo che è quello del nostro mondo vissuto, che è frequentato prima delle metriche, che esse siano euclidee o non-euclidee.
[34] Per un’analisi della nozione di reversibilità logica in Piaget, della critica che le rivolge Merleau-Ponty e di ciò che quest’ultimo le oppone in merito alla sua concezione di una reversibilità carnale, cfr Saint Aubert 2013, capitolo VI.
[35] Sarebbe interessante confrontare il pensiero di Merleau-Ponty con la filosofia delle emergenze e delle pregnanze sviluppata da René Thom, secondo un’eco ulteriore della topologia matematica, ma anche della Prägnanz gestaltista. L’interesse dell’ultimo Merleau-Pony per la topologia e la morfogenesi degli esseri viventi, la sua lettura della pregnanza come apertura di nuove dimensioni nelle singolarità della carne, presentano qualche analogia con l’ispirazione filosofica che Thom trae dalla sua lettura matematica delle catastrofi. Tali similitudini non devono tuttavia nascondere una differenza essenziale: il geometrismo insistente di Thom lo allontana dalla filosofia della carne di Merleau-Ponty e lo avvicina ad un’impresa leibniziana d’assiomatizzazione che rifiuta precisamente quella posizione. Riletta secondo un’ottica merleau-pontiana, la topologia non potrebbe dare luogo a una nuova mathesis, le cui illusioni e i cui tranelli non farebbero altro che nutrire quelli dell’ontologia dell’oggetto.
[36] Cfr La conception merleau-pontienne de l’inconscient dans les manuscrits tardifs, Saint Aubert, 2015.
[37] Per un’analisi più ampia delle fonti, del significato e delle implicazioni della nozione di /topologia/ in Merleau-Ponty, cfr la nostra opera Vers une ontologie indirecte. Sources et enjeux critiques de l’appel à l’ontologie chez Merleau-Ponty, Saint Aubert, 2006, capitolo VI.
[38] L’unité de l’espace-temps vital. Merleau-Ponty lecteur d’Attitudes et mouvements de Buytendijk, Saint Aubert, 2015.
[39] Attitudes et mouvements. Étude fonctionnelle du mouvement humain, trad. L. van Haecht, préface de E. Minkowski, Buytendijk, 1957.
[40] Buytendijk, 1957, p. 90.
[41] Ivi, p. 58.
[42] Cfr Saint Aubert, p. 2004.
[43] Buytendijk, 1957, p. 80.
[44] Ivi, p. 81.
[45] Ibid.
[46] Ivi, p. 89.
[47] Saint Aubert, 2013, sezione A.
[48] Buytendijk, 1957, p. 94. Il movimento dell’organismo non si sviluppa nello spazio e nel tempo, è l’organismo che muove lo spazio e il tempo.
[49] Natu1, p. 157.
[50] Ivi, p. 159.
[51] Cfr la nostra introduzione a questo manoscritto, Saint Aubert, 2008.
[52] NMS [50](3).
[53] NMS [114]v(2). Rapporto del problema della Natura e del problema dell’uomo: scoperta di Descartes, di Kant, dell’uomo come contatto con la Natura, non come solo intelletto. Ma l’uno e l’altro subordinano tale uomo alla fine, lo dimenticano. Descartes fa dell’uomo l’essere che dispone, distingue senza confondere – Kant, grazie al suo umanesimo del concetto della libertà, che infine deriva dalla libertà dell’uomo {compreso} tutto ciò che esso ha di apparenza di finalità e di teleologia naturale. Il mio lavoro: rimettere a nudo la loro scoperta, che è quella della Natura come dinamismo cieco, della Natura che noi siamo e che è noi. Insistere sul carattere di tale umanesimo che lo separa assolutamente dell’umanesimo kantiano-sartriano: non è un’affermazione della Natura più di quanto non sia un’affermazione dell’uomo.
[54] NMS [119](11). Descartes non ha avuto torto nell’esteriorità un fenomeno cruciale e bisogna correggerlo non ritornando al di qua, ma andandone al di là, facendo dello spazio un mistero: ora, esso non lo è che a condizione di non essere semplice esteriorità, in quanto esteriorità con sconfinamento, senza collocazione [emplacement] unica. NMS [103](2)(A). Io non ammetto la risoluzione cartesiana dell’esteriorità tramite richiamo a una intellettualizzazione dello spazio. Ora, tale risoluzione è già implicata nella posizione partes extra partes. Io pongo un mistero dell’estensione come estensione di sconfinamento senza collocazione [emplacement] unica.
[55] RC55, p. 66.
[56] Du lien des êtres aux éléments de l’être et Le scénario cartésien, Saint Aubert, 2004 et 2005.
[57] OE, pp. 83-85. È necessario che ciò che è senza luogo sia connesso ad un corpo, meglio: sia iniziato da lui a tutti gli altri e alla natura. Bisogna prendere alla lettera ciò che ci insegna la visione: tramite essa noi tocchiamo il sole, le stelle, noi siamo nello stesso tempo ovunque, tanto prossimi alle cose lontane quanto alle vicine. Essa sola ci insegna che degli esseri differenti, esteriori, estranei l’uno all’altro, sono tuttavia assolutamente insieme, la simultaneità, la concrezione di un unico Spazio che separa e riunisce, che sostiene ogni coesione (ed anche quella del passato e dell’avvenire, poiché essa non sarebbe, se essi non fossero parti rispetto al medesimo Spazio).
[58] Natu3, p. 280/[43]v. La carne del corpo ci fa comprendere la carne del mondo. NT, p. 103, maggio 1960. Proprio tramite la carne del mondo si può comprendere infine il corpo proprio. EM3 [247](31). La carne del corpo è una parte della carne del mondo e tuttavia condizione di questa carne. NLVIàf3 [181], novembre 1960. La mia carne è un caso particolare del[la] carne del mondo. NTi [359]. La carne del mondo come uno dei fogli della mia carne.
[59] Ibid. Dal momento che l’essere non è più dinanzi a me, ma mi circonda e, in un senso, mi attraversa, e poiché la mia visione dell’Essere non si fa da altrove, ma dal centro dell’Essere, i pretesi fatti, gli individui spazio-temporali non sono d’improvviso montati sugli assi, i cardini, le dimensioni, la generalità del mio corpo e le idee quindi già incrostate all’altezza delle sue giunture.
[60] Minuta [112](129)/NP, ottobre 1960.
[61] Cfr Saint Aubert, 2013, capitolo IX.
[62] Être et chair I, Saint Aubert, 201, capitolo IX.
[63] EM2 [216].
[64] VI, p. 140. Non è soltanto la filosofia, è all’inizio lo sguardo che interroga le cose [e dà inizio] all’interrogazione fondamentale che appare nuda nella filosofia.
[65] A. Vachon, 1965, p. 244. Cf. aussi G. Poulet, 1977, pp. 155-170.
[66] Per i rimandi a questo passaggio di Paul Claudel nel corpus merleau-pontien: PbPassiv 256/[197](61), RC55 72, NPVIf [162], VI2 140, Minuta 356/[97](103), 356/[97](104), [97](104)/NP, VI3 142, 161, 162, 171, NPVI [188]v, [189], [190].
[67] NPVIf [162]. In margine Définitif. Cfr anche VI2, pp. 140-141. Un anno e mezzo dopo la composizione di questo capitolo, Merleau-Ponty riprende la redazione dell’opera. Noi siamo nel mese di ottobre 1960 e il filosofo ha appena ultimato ad agosto L’œil et l’esprit e a settembre la prefazione a Signes. Lo stato attuale del suo progetto situa Être et Monde come prima parte de Le visible et l’invisible (Minute p. 355/[97](103)) e ricollega il suo proposito del momento all’inizio di questa parte con un primo paragrafo intitolato con sobrietà Ineinander. Tale paragrafo inizia ritornando sulla domanda di Claudel che aveva tuttavia già chiuso l’ultimo capitolo redatto nel marzo 1959. In novembre Merleau-Ponty rilegge il manoscritto di ottobre e si rende conto che esso anticipa troppo rispetto al seguito e redige una nuova versione, la quale diventerà il terzo capitolo de Le visible et l’invisible. Egli annota in maniera preliminare qualcosa sulla minuta di ottobre, ripetendo come un’ossessione la domanda claudeliana [...]. Frutto di questo nuovo mese di lavoro, il manoscritto Interrogation et intuition menziona da subito la formula de l’Art poétique (VI3, p. 142), prima di ritornarvi due volte in maniera più distesa e di concludere il capitolo evocando ancora questa stessa domanda (VI3, pp. 161, 162, et 171).
[68] NPVI [190].
[69] VI2, p. 141.
[70] NPVI [190], [191], NLVIàf3 [180]v.
[71] Lasciamo il lemma francese dal momento che l’autore fa intervenire qui ancora una volta la duplicità di sensi già esplicitati poco prima. In italiano possiamo rendere tale sdoppiamento precisando che tale /percezione éprouvante/ è al tempo stesso testimoniale e sperimentante [NdT].
[72] P. Claudel, 1967, p. 126.
[73] Minute [97](104)-[98](105)/NP, ottobre 1960 e VI3, pp. 160-162.
[74] Minute p. 356/[97](103).
[75] VI3, p. 160.
[76] Minute p. 356/[97](104).
[77] VI2, p. 140.
[78] VI3, p. 160.
[79] Ibid.
[80] Ibid.
[81] Ibid. Come il negativismo del dubbio, il positivismo delle essenze dice segretamente il contrario di ciò che esso dice apertamente. Il partito preso di accedere all’essere assolutamente duro dell’essenza nasconde la pretesa menzognera di non essere niente.
[82] VI3, p. 161.
[83] Ivi, p. 155.
[84] Ivi, p. 161.
[85] Ibid.
[86] Minuta p. 358/[100](108). Per principio inestinguibile [la nostra interrogazione] non attende risposta, essa non formula problemi, indica un piccolo mistero (Minuta p. 356/[97](104)).
[87] VI2, p. 140. Noi non abbiamo una coscienza costituente delle cose, come crede l’idealismo e neppure una preordinazione delle cose alla coscienza, come crede il realismo.
[88] Ivi, p. 141.
[89] NPVI [190], [191], NLVIàf3 [180]v.
[90] Tale operatività [opérance] segreta si trova al cuore della logica percettiva che Merleau-Ponty studia a partire fin dai primi lavori, come noto nella visione in profondità. La percezione si apre all’indeterminazione della profondità, non aspetta d’aver osservato in modo pieno e perfetto per cristallizzare conoscere, ma passa oltre la prova e partecipa nel colmare le lacune del mondo percepito, col determinare l’indeterminazione. Essa sperimenta uno scarto tra delle cose o dimensioni che non sono preliminarmente definite e il fatto che questo stesso sperimentare contribuisce all’identificazione differenziandole e collegandole.
[91] NPVIf [162]. NPVIf [163].
[92] VI2, p. 117.
[93] VI3, p. 141 e VI2, p. 162.
[94] VI2, p. 141. Un appello alla totalità a cui nessun essere oggettivo dà risposta. L’essere oggettivo non fa che ingannare la nostra fame.
[95] Ibid.
[96] NPVI [190].
[97] Minute [98](105)/NP.
[98] VI2, p. 141.
[99] VI3, p. 162. Se noi potessimo scrutare il loro motivo ultimo, noi troveremmo sotto le domande dove sono io e che ora è? una conoscenza segreta dello spazio e del tempo come esseri da interrogare, dell’interrogazione come rapporto ultimo all’Essere e come organo ontologico.
[100] VI2, p. 140 e VI3, p. 162. La questione che emerge qui non è, in fondo, quella che verte sulla necessità di sapere in quale luogo di uno spazio preso come dato e in quale ore di un tempo dato noi siamo, ma da principio di sapere qual è questo vincolo indistruttibile che ci lega alle ore e ai luoghi, tale presa di posizione [relèvement] rispetto alle cose, tale istallazione continuata tra di esse, in base alla quale è necessario dall’inizio che io sia in un tempo e in un luogo qualsiasi.


I. ABBREVIAZIONI DELLE OPERE E DEGLI INEDITI DI MERLEAU-PONTY CITATI NEL TESTO:
Minuta/e: manoscritto dell’ottobre 1960 la cui rielaborazione di novembre costituirà il terzo capitolo dell’edizione postuma de Le visible et l’invisibile.
EM: Être et Monde (inedito, B.N.F., volume VI); EM1 essenzialmente autunno1958, alcuni fogli di marzo 1959; EM2: diverse sequenze di lavoro distribuite nel 1959; EM3: essenzialmente aprile-maggio 1960, riscritture ottobre 1960.
MSME: note di preparazione al corso al Collège de France del 1953 su Le monde sensible et le monde de l’expression, B.N.F., volume X. Genève, MétisPresses, 2011.
Natu: La Nature. Notes, cours du Collège de France, Paris, Seuil, «Traces Écrites», 1995; Natu1: notes des étudiants du cours de 1957 sur Le concept de Nature (gennaio-maggio 1957); Natu2: note di studenti al corso del 1958 sur Le su de Nature. L’animalité, le corps humain, passage à la culture (gennaio-maggio 1958); Natu3: note di preparazione al corso del 1960 sul concetto di natura, Nature et Logos: le corps humain (gennaio-maggio 1960). B.N.F., volume XVII.
Note de preparazione inedite a Le Visible et l’invisible (B.N.F., volume VII): NLVIàf1: Notes de lecture pour Le visible et linvisible, «Pour choses à faire» (marzo 1959); NLVIàf2: idem (marzo-aprile 1959); NLVIàf3: idem (auunno 1960); NPVI: Notes relatives à la préparation du Visible et l’invisible (aurunno 1960); NPVIf: Notes pour choses faites (marzo-aprile 1959).
NMS: La Nature ou le monde du silence (e altri inediti): sequenza di lavoro datante probabilmente 1957, poi collocato nel volume Être et Monde. B.N.F., volume VI.
NT: note di lavoro (da gennaio 1959 a marzo 1961) ed Claude Lefort in appendice a Le Visible et l’invisible, Paris, Gallimard, 1964.
NTi: note di lavoro inedite 1955-1961, B.N.F., volume VIII.
OE: L’Œil et l’Esprit, Paris, Gallimard, 1964, 1985.
PbPassiv: note di preparazione al corso al Collège de France del 1955 su Le problème de la passivité: le sommeil, l’inconscient, la mémoire, B.N.F., volume XIII. Trascrizione ne L’institution. La passivité. Notes de cours au Collège de France (1954-1955), Paris, Belin, 2003.
PhP: Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945.
PPCP: «Le primat de la perception et ses conséquences philosophiques», Bulletin de la Société française de Philosophie, 41e année, juillet-septembre 1947, pp. 119-135, discussion pp. 135-153 (seduta del 23 novembre 1946); poi ne Le primat de la perception et ses conséquences philosophiques, Grenoble, Cynara, 1989, pp. 41-72, discussion pp. 72-104.
RCxx: Résumés de cours. Collège de France, 1952-1960, Paris, Gallimard, 1968 ; RC53: Le monde sensible et le monde de l’expression / Recherches sur l’usage littéraire du langage; RC55: L’«institution» dans l’histoire personnelle et publique / Le problème de la passivité: le sommeil, l’inconscient, la mémoire; RC57: Le concept de Nature.
SC: La structure du comportement, Paris, P.U.F., 1942, 1990.
VI: Le visible et l’invisible, Paris, Gallimard, 1964; VI1: Réflexion et interrogation (marzo-aprile 1959); VI2: Interrogation et dialectique (marzo-aprile 1959); VI3: Interrogation et intuition (novembre 1960); VI4: L’entrelacs - le chiasme (novembre 1960).

II. ALTRE OPERE CORRELATE CITATE NEL TESTO:
Bergson (Henri)
L’évolution créatrice, Paris, P.U.F., 1941.
Durée et simultanéité. A propos de la théorie d’Einstein, Paris, Alcan, 1922; Paris, P.U.F. VII éd., 1968.
Buytendijk (Frederik Jacobus)
Attitudes et mouvements. Étude fonctionnelle du mouvement humain, trad. L. van Haecht, préface de E. Minkowski, Paris, D.D.B., 1957.
Claudel (Paul)
Œuvre poétique, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1967.
Piaget (Jean) et Inhelder (Bärbel)
La représentation de l’espace chez l’enfant, Paris, P.U.F., 1948.
Poulet (Georges)
Entre moi et moi. Essais critiques sur la conscience de soi, Paris, Corti, 1977.
Saint Aubert (Emmanuel de)
Du lien des êtres aux éléments de l’être. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951, Paris, Vrin 2004.
Le scénario cartésien. Recherches sur la formation et la cohérence de l’intention philosophique de Merleau-Ponty, Paris, Vrin 2005.
Vers une ontologie indirecte. Sources et enjeux critiques de l’appel à l’ontologie chez Merleau-Ponty, Paris, Vrin 2006.
Maurice Merleau-Ponty, direction d’ouvrage, introduction, présentation et édition scientifique des pages d’ouverture de l’inédit La Nature ou le monde du silence, Paris, Hermann 2008.
Être et chair I. Du corps au désir: l’habilitation ontologique de la chair, Paris, Vrin, «Bibliothèque d’histoire de la philosophie», 2013.
«La conception merleau-pontienne de l’inconscient dans les manuscrits tardifs», in Approches phénoménologiques de l’inconscient, éd. M. Gyemant et D. Popa, Hildesheim-Zürich-New York, Olms 2015, pp. 187-209.
«L’unité de l’espace-temps vital. Merleau-Ponty lecteur d’Attitudes et mouvements de Buytendijk», in Le phénomène du vivant. Buytendijk et l’anthropologie philosophique, sous la direction de Florence Burgat et Christian Sommer, Genève, MétisPresses, 2016, pp. 49-77.
Vachon (André)
Le temps et l’espace dans l’œuvre de Paul Claudel, Paris, Seuil 1965.
Wahl (Jean)
Hommage à Maurice Merleau-Ponty, émission du Service des émissions culturelles, radiodiffusée le 17 mai 1961, archives I.N.A.


Emmanuel de Saint Aubert, già ancien élève de l’École Normale Supérieure de rue d’Ulm, è Directeur de recherche CNRSe ricercatore presso gli Husserl-Archives di Parigi. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo le opere principali dedicate al pensiero di Maurice Merleau-Ponty: Du lien des êtres aux éléments de l’être. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951 (Vrin, Paris, 2004); Le scénario cartesien. Recherches sur la formation et la cohérence de l’intention philosophique de Merleau-Ponty (Vrin, Paris, 2005); Vers une ontologie indirecte. Sources et enjeux critiques de l’appel à l’ontologie chez Merleau-Ponty (Vrin, Paris, 2006); Être et chair I. Du corps au désir: l’habilitation ontologique de la chair (Vrin, Paris, 2013).

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