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«L’architettura del visibile»: microlettura della fine di Sodome et Gomorrhe [*]
di Anne Simon

(Traduzione di Maria Gaia Crivella)

5 aprile 2022



On touche ici le point le plus difficile, c’est-à-dire le lien de la chair et de l’idée, du visible et de l’armature intérieure qu’il manifeste et qu’il cache.
Personne n’a été plus loin que Proust dans la fixation des rapports du visible et de l’invisible,
dans la description d’une idée qui n’est pas le contraire du sensible, qui en est la doublure et la profondeur [1].

Dalla Phénoménologie de la perception a Le Visible et l’invisible, Merleau-Ponty è stato ossessionato, nel senso specifico di un’innervazione creatrice, dal pensiero e dalla scrittura proustiana [2]. Il filosofo padroneggiava a tal punto Jean Santeuil o la Recherche che costantemente ricorrono sotto la sua penna riferimenti, parti di citazioni, allusioni, senza che egli si senta tenuto ad un rinvio preciso al romanzo da cui li ha tratti, un po’ come Montaigne integrava negli Essais passaggi dei suoi autori preferiti, diventati poi parte intima di se stesso.
Per portare solo tre esempi, il concetto di entrelacs, fondamentale nell’ultimo Merleau-Ponty — quello che, a partire dagli anni '50 si dirige verso una post-fenomenologia — sgorga direttamente dalle pagine di Jean Santeuil, le quali irrigheranno il corso Le problème de la parole, tenuto al Collège de France nel 1954. Si può anche evocare la formula de L’oil et l’esprit, secondo cui l’uomo «tient les choses en cercle autour de soi» [3], che a sua volta richiama e dimentica l’inizio della Recherche, con quell’uomo «qui tient en cercle autour de soi le fil des heures, l’ordre des années et des mondes» [4]. In fine l’affermazione in Signes «je suis installé sur une pyramide de temps qui a été moi» [5], rinvia chiaramente all’ultima pagina del Temps retrouvé [6].

Con Merleau-Ponty la filosofia non deve più sbarazzarsi del metaforico o del figurale come di un compagno ingombrante che viene a sovraccaricare l’idea pura (idea di Essere, di Nulla, di Tempo, di Io, d’Oggetto) dei suoi abiti menzogneri e teatrali; al contrario è proprio prendendo in esame la dimensione fondamentalmente trasversale, tortuosa e mediatrice del linguaggio poetico che la fenomenologia potrà accedere più direttamente ad una vera espressione del nostro legame con l’essere.
Il mio discorso non consisterà nel reperire tutti i legami che uniscono il pensiero di Merleau-Ponty al romanzo e allo stile proustiano [7]. Metterò in evidenza due prospettive d’approccio prossime tra loro: quella dei rapporti tra lo spazio e il tempo, e quella dell’intreccio del visibile e dell’invisibile — invisibile che sostituisce e costituisce l’apparire senza comunque riassorbirsi nel non essere [8], poiché è la profondità e l’armatura segreta del sensibile.
L’uso proustiano della sovrapposizione e dell’interpolazione descrittiva, le quali consistono nel far leggere nello spazio di un unico testo molteplici scene, raggiunge in effetti, al livello poetico, la problematica post-fenomenologica dell’allucinazione, considerata come un vero modo d’accesso al reale, e dell’illusione come momento vero del nostro rapporto con il mondo. La fine di Sodome et Gomorrhe [9], che percorreremo nel dettaglio, sembra fondare o inaugurare le osservazioni del filosofo per cui «l’espace et le temps ne sont pas somme d’individus locaux et temporels, mais présence et latence derrière chacun d’eux de tous les autres» [10]. Ma questo sfondo incontornabile non deve essere inteso come una fusione.
Sul modello della reversibilità merleau-pontiana, il legame tra il senziente e il sentito o tra due momenti temporali differenti in Proust comporta una parte di “mosso” [«bougé»] che permette precisamente lo scambio tra l’interno e l’esterno: una distanza separa sempre le due entità sovrapposte ed è in questo scarto che possono giocarsi il rischio di una perdita di identità — poiché l’“io” è spaccato in due momenti — ma anche la nascita della scrittura e del significato.

L’intreccio del corpo e del fantasma, del passato e del presente.
Se Merleau-Ponty ritorna costantemente alla scrittura proustiana, è perché essa giunge a esprimere la scoperta di un’immersione della sensazione entro orizzonti che superano la pura attualità e allo stesso tempo non sono il contrario, ma il fondamento del suo avvento. Il testo che mi servirà da esempio, se non da modello, è essenziale nell’economia del romanzo proustiano: Albertine ha appena parlato all’eroe della Recherche delle strette relazioni che ha intrattenuto con la migliore amica di Mlle Vinteuil.
Ciò la colloca immediatamente dalla parte delle Gomorrhéennes e rialimenta l’amore dell’eroe — lo sconosciuto, se non addirittura l’inaccessibile, è essenziale nel processo di cristallizzazione in Proust. È allora che il giovane ormai smaliziato contempla il sorgere del sole su Balbec, il quale segna per lui la fine di un percorso e l’inizio di un altro: «je n’avais jamais vu commencer une matinée si belle ni si douloureuse» [11].
Un fatto importante è da sottolineare: questo episodio, importantissimo dal momento che esso provoca la decisione dell’eroe di riavvicinarsi ad Albertine, avviando così il racconto dei due volumi successivi, si fonda su un “irreale”, poiché ancora una volta la fanciulla ha mentito (cosa che l’eroe ancora ignora ma non il narratore); lei stessa ne preciserà le ragioni nella Prisonnière: desiderava ritrovare la sua stima mostrandosi intima della famiglia e della cerchia del compositore preferito del giovane, e non ha visto Mlle Vinteuil e la sua amica che poche volte, senza per altro che loro l’abbiano notata [12]. Questo testo ha dunque come fondamento una parola distorta: il legame tra Albertine e i Vinteuil si scopre essere un fantasma dell’eroe, ma un fantasma valido, poiché rivela al giovane la propensione saffica di Albertine (si sa che in Proust la scoperta della verità avviene più spesso indirettamente).

Un secondo punto attira l’attenzione. Il levarsi di un sole allucinato conduce l’eroe alla scoperta di un’indefettibile relazione tra passato e presente. Per cui non è un caso se la descrizione di quest’alba così torva, sia essa stessa inquadrata attraverso interpolazioni più discrete del passato nel presente, che possono valere come annunci del nostro passaggio. Queste interpolazioni possono essere percepite nel leitmotiv della somiglianza tra la madre dell’eroe e la sua defunta nonna, come testimonia una decina di allusioni e il fatto che un’intera pagina tratti il tema della somiglianza: «le cour battant, il me sembla voir ma grand-mère devant moi, comme en une de ces apparitions que j’avais dejà eues, mais seulement en dormant» [13]. Alla fine del testo studiato, l’eroe si accorge che in effetti sua madre assume inconsciamente «cet aire qu’elle avait eu à Combray pour la première fois quand elle s’était résignée à passer la nuit auprès de moi, cet aire qui en ce moment ressemblait extraordinairement à celui de ma grand-mère me permettant de boire du cognac».
Una prima allucinazione conduce dunque a mettere in discussione lo statuto del reale e opera una messa in prospettiva del presente. Del resto è indifferente che sia la madre/nonna che attira lo sguardo dell’eroe sul levar del sole, poiché è un passato incarnato in un presente, una somiglianza che segna la sovrapposizione delle carni ad inaugurare lo spettacolo dell’interpolazione, essendone anche il regista: «pour que je ne perdisse pas le fruit d’un spectacle que ma grand-mère regrettait que je ne contemplasse jamais, elle me montrait, je voyais, avec des mouvements de désespoir qui ne lui échappaient pas, la chambre de Montjouvain» [14].
L’allucinazione in quanto tale, quella cioè che inaugura il passaggio studiato dove la scena di Montjouvain e la visione di un antico tramonto usurpano lo spettacolo dell’alba, è un momento cruciale della scoperta relativa al fatto che il passato e l’immaginario abitano la sensazione attuale non come richiami ma come dimensioni inevitabili del presente. Ma essa ha anche l’effetto di de-realizzare il reale inserendo il fantasma all’interno dello spettacolo percepito, che non è più «sur l’autre qu’un voile morne, superposé comme un reflet».

È da qui che il luogo presente diventa una vista dipinta e priva di consistenza, in cui tutto si mescola: il passato e il presente, la superficie e la profondità, l’acqua, il cielo e il bosco. Si può allora comprendere il motivo per cui la Recherche si dimostra un riferimento costante del Visible et l’invisible, che approfondisce e tematizza la scoperta proustiana di un’apertura ontologica generalizzata:
les choses ici, là, maintenant, alors, ne sont plus en soi, en leur lieu, en leur temps, elles n’existent qu’au bout des ces rayons de spatialité, émis dans le secret de ma chair [...]. Comme le souvenir-écran [...], le présent, le visible [...] n’a pour moi un prestige absolu qu’à raison de cet immense contenu latent de passé, de futur et d’ailleurs, qu’il annonce et qu’il cache. [...] ce qu’il y a, c’est toute une architecture, tout un étagement de phénomène [15].
Riconosciamo effettivamente nell’estratto appena affrontato diversi tipi di strati, che impediscono all’autore di coincidere con il presente, come suggerisce la sua incapacità di rispondere a queste due domande claudeliane fondamentali per Merleau-Ponty: Où suis-je? e Quelle heure est-il? [16]. Troviamo inizialmente una sovrapposizione di diverse temporalità: si innestano così sul presente del testo la scena di Montjouvain narrata in Du côté de chez Swann (essa stessa ispirata a immagini pornografiche del tipo Portes et fenêtres del XIX secolo [17]) e il ricordo di un tramonto contemplato con Albertine [18].
Il lettore sa inoltre che il presente del testo (la percezione dell’alba) è in realtà un passato, quello del narratore. Un secondo livello di palinsesto si aggiunge al primo, di natura psicologica: quello del fantasma all’interno di un ricordo reale.
In effetti, nella scena saffica che ha effettivamente avuto luogo nel passato, l’eroe sostituisce, nel presente della sua percezione, l’amica di Mlle Vinteuil con Albertine. Infine, il testo presenta una interferenza delle localizzazioni, poiché Montjouvain e il bosco di Parville contaminano o piuttosto fanno esplodere lo spettacolo percepito dalla camera del Grand-Hotel. Troviamo qui una dichiarazione negativa del celebre testo del Temps retrouvé, dove è Balbec che penetra nella biblioteca dell’hotel dei Guermantes: «le lieu lointain [...] s’était accouplé un instant comme un lutteur, au lieu actuel» [19].

Ma alla fine di Sodome et Gomorrhe, è il passato che sembra prevalere così da destabilizzare l’eroe e il testo, mentre è il presente che prevale nell’ultimo volume, impedendo in tal modo al soggetto di [perdre] connaissance [20]. Notiamo infine che si verifica un transfert tra interno ed esterno: quando il giovane osservatore de Du côté de chez Swann contempla la scena vietata dall’esterno, è proprio il soggetto osservante ad essere inserito nel riquadro della finestra, la quale permette all’allucinazione di assumere l’aspetto di un quadro, in una sorta di ekphrasis fantasmatica sorprendente.
Ci troviamo dunque a leggere, nello spazio di poche righe, un palinsesto iperbolico e come invertito, poiché è lo strato onirico sottostante che, bel lontano dall’essere cancellato, affiora rispetto a quello soprastante, dato come effettivamente percepito: «ce palimpseste du temps et de l’espace, ces vues discordantes sans cesse contrariées et sans cesse rapprochées par un inlassable mouvement de dissociation douloureuse et de synthèse impossible, c’est sans doute cela, la vision proustienne» [21]. Una follia è alla base del processo di emboîtement a cui si trova sottomesso il lettore (e l’eroe che contempla la scena), il quale falsa lo smontaggio critico che ho effettuato per chiarire il mio discorso.
Questa decifrazione, ancora più minuziosa nelle righe che seguiranno, ha lo scopo di individuare il più precisamente possibile ciò che Merleau-Ponty cercava e trovava in Proust, che egli — a detta di Suzanne — rileggeva con regolarità: non si tratta tanto di una tematica comune, cosa che non significherebbe molto e comunque non sarebbe questo il caso, ma piuttosto di una scrittura del chiasma e di un’espressione dell’architettura del visibile. La lettura del testo stesso dà in realtà la sensazione di una sovrimpressione simultanea e immediata: «l’idée du chiasme et de l’Ineinander, c’est [...] l’idée que toute analyse qui démêle rend inintelligible» [22].

La pregnanza dell’invisibile: stilistica di una frase diSodome et Gomorrhe.
Ce qu’on a appelé le platonisme de Proust est un essai d’expression intégrale du monde perçu ou vécu [...]. Il s’agit de produire un système de signes qui restitue par son agencement interne le paysage d’une expérience, il faut que les reliefs, les lignes de force de ce paysage induisent une syntaxe profonde, un mode de composition et de récit, qui défont et refont le monde et le langage usuel [23].
È importante, per chiarire l’esperienza di transvertébration che costituisce il cuore del mio discorso, scomporre almeno una volta questo sistema di segni e di restituire la sintassi profonda dello stile proustiano, eminentemente equivoco e molto vicino sul piano dello stile al Visible et l’invisible. È soprattutto l’ultima parte della frase terminale dell’estratto scelto che comporta un certo numero di insidie, le quali provocano una perdita di punti di riferimento dell’eroe o del lettore, mettendo in risalto la dialettica della fusione e dello scarto mantenuto tra i due strati del visibile e dell’invisibile.
Il procedimento dell’apposizione è al centro di questa estetica dell’intromissione, che intende affermare una certa latenza dell’apparire: «scène imaginaire, grelottante et déserte, pure évocation du couchant, qui ne reposait pas, comme le soir, sur la suite des heures du jour que j’avais l’habitude de voir le précéder, déliée, interpolée».
Il lettore attento ha inizialmente difficoltà a trovare il referente o l’antecedente di scena immaginaria: è forse l’alba che è contemplata nel presente del testo la quale, non essendo più che un riflesso o una vista dipinta senza consistenza, è divenuta immaginaria? O forse è il tramonto richiamato dal paragone comme quand ils rentrent le soir, che è posto proprio prima della citazione?

In effetti, Proust gioca qui sulla possibilità di stabilire o meno il legame con i due punti: «deux bateaux passaient en souriant à la lumière oblique qui jaunissait leur voile [...] comme quand ils rentrent le soir: scène imaginaire, grelottante et déserte». Infatti si tratta indefettibilmente di due scene, ed è qui tutta l’arte del palinsesto proustiano, poiché l’alba effettiva si trova raddoppiata dal ricordo quasi sensoriale del tramonto.
Questa fusione di temporalità e di luoghi riposa tuttavia sulla coscienza di una distanza che la mina, come testimonia il qualificativo immaginario: il protagonista sa che non si tratta della stessa scena, benché la sua visione sembri attestare che si tratta proprio della stessa scena. Questo sapere è percepibile nell’espressione «qui ne reposait pas, comme le soir, sur la suite des heures du jour que j’avais l’habitude de voir le précéder», la quale suggerisce che proprio perché la giornata non è ancora passata, l’eroe ha a che fare con un’alba; ma, come lui, il suo corpo può credersi spettatore del tramonto.
La scrittura palinsestica intende dunque dire il mosso e lo scarto grazie a un certo numero di segnali testuali, tutto per dare a vedere una sovrapposzione totale, come attesta la prima parte dell’ultima frase, dove il lettore esita un istante sullo statuto dello spettacolo descritto:
nous nous étions levés en voyant le soleil descendre. Dans le désordre des brouillards de la nuit qui traînaient encore en loques roses et bleues sur les eaux encombrées des débris de nacre de l’aurore, des bateaux passaient en souriant à la lumière oblique [...].
In un primo momento non è facile sapere se il narratore descriva l’alba che vede in quel momento o il tramonto di cui parla poco oltre; allora il lettore può domandarsi ancora una volta se la prima parte della frase «dans le désordre des brouillards de la nuit» sviluppi il tramonto del sole o riprenda la descrizione della vue peinte: la punteggiatura (punto fermo come qui, due punti come nell’esempio sviluppato più sopra) rafforza l’interferenza tra i riferimenti.

Il referente di scena immaginaria dunque non esiste come tale, poiché è da subito sovrapposto, allucinato, essendo un misto di effettivo (l’alba) e di visionario (il tramonto). Questa sovrapposizione è resa più complessa dall’affleurement dei vari componimenti di Baudelaire. Chant d’autumne e il suo soleil rayonnant sur la mer, Crépuscule du matin e il suo Aurore en robe rose, versione in prosa di Crépuscule du soir e il suo lueurs roses qui traînent, sullo sfondo di Corréspondances e di Harmonie du soir, giusto per citarne qualcuno, aggiungono solo alcuni strati testuali a questa scena inevitabilmente sensibile, fantasmatica e poetica.
Il tempo proustiano ha dunque un nesso diretto con la sensazione e l’immaginazione, ben più che con l’intellezione: il narratore si scontra del resto con il problema dell’espressione, poiché le metafore spaziali solitamente utilizzate rendono certamente conto della sua esistenza, ma senza giungere a cogliere il suo carattere irriducibile al concetto [24].
Il processo dell’interpolazione offerto qui alla lettura è quindi un modo di rendere «partiellement visibles [...] les couleurs immatérielles des années» e di creare un supporto da «lire sur plusieurs plans à la fois» come le fantastiche poupées [25] dell’ultimo mattino Guermantes.
L’impresa di rendere sfuggenti i punti di riferimento mentali e percettivi passa dunque per un’interferenza di categorie sintattiche al fine di decostruire i nostri schemi d’apprendimento abituali del mondo, del fantasma o del passato. Ciò accade perché il referente di scène imaginaire pone un problema. Il relativo /qui/ stesso (in qui ne reposait pas [...] précéder) è ambivalente, poiché il lettore puntiglioso può domandarsi a quale parte della formula che precede «scène imaginaire [...], pure évocation du couchant» debba essere associato.
Si rapporta a scène imaginaire in generale? Alla prima parte dell’espressione pure évocation du couchant, cosa che sembra inizialmente più probabile nella misura in cui évocation è il centro dell’espressione, o alla seconda, che è un complemento del nome (du couchant)? Il lettore deve attendere l’apparizione del confronto comme le soir e del pronome anaforico /le/ per comprendere che è couchant l’antecedente grammaticale del relativo e che è dunque il “tema” del seguito della frase.

Notiamo inoltre che si crea un’altra confusione dal momento che è difficile capire a cosa si riferisca il pronome anaforico /le/: sembra riferirsi a soir, più che a couchant, cosa non evidente ad una prima lettura. Questa relativa che viene a tagliare la frase procede dunque anch’essa a un’opera di slegamento e di interpolazione. Se la parola couchant è il tema di questa relativa, la fine della frase con il participio passato déliée e la sua desinenza femminile, riprende con l’inizio dell’apposizione (scène imaginaire e pure évocation).
Il lettore passa dunque costantemente se non da un referente a un altro (poiché in definitiva tutto è mescolato e interconnesso), grammaticalmente da un antecedente a un altro, attraverso un’abilità acrobatica che finisce per fargli perdere la coerenza della rappresentazione (ci si aspetterebbe almeno che i due antecedenti di /qui/ e /le/ siano identici). L’intervento del tempo, del ritorno, e dell’anticipazione dell’atto di (ri)lettura è così essenziale.
Abbiamo a che fare con una pratica non lineare, fatta di intersezioni, di riesami, di accelerazioni e ritorni indietro: il paradosso è ovviamente ad una prima lettura, il senso del testo si lascia percepire senza che sia necessario ricorrere ad un ingrato smontaggio grammaticale, poiché ciò che il testo vuole dirci è precisamente che tutto interferisce con tutto e che l’invisibile è un orizzonte che in alcuni casi, come l’allucinazione ma anche come la somiglianza tra generazioni, può diventare sensibile quanto il reale effettivo.
Questa torsione del significato si ritrova infine nella clausola di passaggio con l’espressione «poétique et vaine image du souvenir et du songe», il cui ritmo chiaramente scandito dall’emistichio e la finale identica dei due termini image e songe suggeriscono una sovrapposizione significativa per l’intero testo. La parola souvenir rinvia il lettore alle stratificazioni del passato poste dietro la vue peinte dell’alba: Montjouvain e il tramonto.
Il reale attuale è dunque divenuto immagine di un invisibile che si fa vedere attraverso il visibile attuale come sua ossatura. Bisogna però notare che se certamente l’ultima apposizione fa riferimento all’alba-tramonto, alla percezione effettiva, i sostantivi image e songe non possono non richiamare alla memoria del lettore l’image horrible de Montjouvain che precede immediatamente, e la sostituzione dell’amica di Mlle Vinteuil con Albertine.
Il referente fittizio dell’apposizione finale poétique et vaine image du souvenir et du songe non è tanto l’alba, quanto piuttosto la sovrapposizione delle tre scene-chiave di questo testo, sovrapposizione che include la coscienza che questa fusione sia illusoria («ne parvenaient pas annuler, à couvrir, à cacher»). L’intreccio del passato e del presente rende questo testo un esempio-tipo d’espressione di quello che il filosofo chiamerà la carne:
le sensible, la Nature, transcendent la distinction passé présent, réalisent un passage par le dedans de l’un de l’autre [...] le paysage visible sous mes yeux est, non pas extérieur [...] aux [...] autres moments du temps et au passé, mais les a vraiment derrière lui en simultanéité, au-dedans de lui [...]. [...] passé et présent sont Ineinander, chacun enveloppé-enveloppant, - et cela même est la chair [26].
Ugualmente, l’immaginario e la sensazione non sono più dissociabili, poiché gli aggettivi imaginaire, deliée, interpolée, [...] inconsistante, poétique et vaine finiscono per relegare la scena effettivamente percepita dell’alba nell’onirismo e nell’inattualità. La congruenza con certe analisi di Merleau-Ponty è dunque particolarmente forte, con la differenza maggiore che nel filosofo l’inattualità relativa della cosa ha un valore positivo:
quand on dit que [...] le fantasme n’est pas observable, qu’il est vide, non-être, le contraste n’est [...] pas absolu avec le sensible [...] la chose n’est vraiment observable: il y a toujours enjambements dans tout observation, on n’est jamais à la chose même. [...] Or, inversement, il y a une précipitation ou cristallisation de l’imaginaire [27].
Non c’è da stupirsi del fatto che Merleau-Ponty si leghi a Proust come ad un autore di riferimento: la sua estetica dell’interferenza, della perversione, della de-relazione, dell’identico (le due scene dell’alba e del tramonto sono in effetti le “stesse”, benché non lo siano, poiché sono state viste da un luogo diverso e in un’epoca diversa) è un modo per restituire questa trama invisibile e questa profondità paradossale che si dissolvono sulla superficie del mondo.

La superficie e la profondità.
L’apertura di questo testo ha suggerito che l’image proustiana, non assimilabile ad una immagine pura, è il luogo — forse il momento — sempre precario in cui scavi e affioramenti operano sul sensibile. La profondità si scopre come l’orientamento fondamentale del nostro rapporto con il mondo secondo Proust [28] come per Merleau-Ponty, secondo cui questa è la dimensione la plus existentielle [29] e la dimension du caché par excellence [30]. Proust mette in scena un reale che non esiste come tale se non transvertebrato, nel momento preciso in cui i fenomenologi, lo si è visto con Husserl, si impegnano a descrivere gli orizzonti della cosa.
La fine di Sodome et Gomorrhe propone dunque la lettura di una perdita disforica della sensazione di profondità, legata alla perdita della convinzione e della fede nel reale che diviene voile, reflet, vue peinte: c’è, in questo punto del romanzo, un fallimento del chiasma tra me e il mondo, una presa di possesso del visibile da parte dell’invisibile, il quale finisce per invaderlo più che sottintenderlo.

Ma questo scacco è doppiamente parziale. Infatti, se l’eroe si sente separato o escluso dal presente, la scrittura è una scrittura di empiétement (tra la sensazione e il fantasma, tra il reale e la temporalizzazione), una messa in opera del rapporto e del télescopage conflittuale (la tensione, che Ricoeur mostra al lavoro nel processus metaforico, incontra le frizioni che destabilizzano gli strati sovrapposti del tempo e dello spazio in Proust).
Occorre dunque dissociare impressione del protagonista e pratica del narratore. Soprattutto, se il reale appare come pura superficie all’eroe, ciò accade perché egli è come doppiato da un divario di temporalità e d’immaginario, di souvenir et (de) songe. Il corpo che percepisce, lungi dall’essere il semplice ricettacolo di una sensazione concepita come risultato di stimoli esterni [31], emette radiazioni dal proprio universo intimo venendo a incrociare i raggi del mondo senza che sia possibile dissociarli: «le petit sillon que la vue d’une aubépine ou d’une église a creusé en nous», rientra in entrambi i campi, poiché «toute impression est double, à demi engainée dans l’objet, prolongée en nous-même par une moitié que seuls nous pourrions connaître» [32]. Merleau-Ponty se ne ricorderà quando ritorna al gesto del dipingere:
il ne s’agit jamais que de mener le plus loin le trait du même sillon, déjà ouvert, de reprendre et de généraliser un accent qui a déjà paru dans le coin d’un tableau antérieur ou dans quelque instant de son expérience, sans que le peintre lui-même puisse jamais dire, parce que la distinction n’a pas de sens, ce qui est de lui et ce qui est des choses [33].
Proust giunge, segnatamente, nel testo studiato a esprimere ciò che Merleau-Ponty chiamerà l’expérience du monde, che è sempre, allo stesso tempo, esperienza di sé:
ce mélange avec le monde qui recommence pour moi chaque matin dès que j’ouvre les yeux, [...] fait que mes pensées les plus secrètes changent pour moi l’aspect des visages et des paysages comme inversement les visages et les paysages m’apportent tantôt le secours et tantôt la menace d’une manière d’être homme qu’ils infusent à ma vie [34].
Ma il chiasma sereno e complice individuato da Merleau-Ponty non può ancora essere vissuto come tale (l’interpolazione aveva già questo aspetto angosciante nelle immagini sovrapposte della lanterna magica). Nel testo di Proust il reale è dunque il raddoppiamento di un passato, ma questa volta il rovescio ha l’inquietante estraneità di un incubo.
Non abbiamo tanto a che fare con una scena da romanzo psicologico o di realismo soggettivo, quanto con un ambito molto particolare del genere romanzesco su cui tornerò e che è quello del fantastico proustiano, di volta in volta psicologico e intramondano. Fantastico che appare molto semplicemente come la sola traduzione valida del nostro rapporto quotidiano con il mondo: «toute sensation comporte un germe de rêve ou de dépersonnalisation comme nous l’éprouvons par cette stupeur où elle nous met quand nous vivons vraiment à son niveau» [35].

NOTE
[*]. Per gentile concessione dell’autrice.
[1]. M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Claude Lefort ed., Paris Gallimard, coll. Tel, 1964, p. 195.
[2]. Questo testo, pubblicato nel 1998, è stato ripreso in forma rimaneggiata ne La rumeur des distances traversées, Proust, une esthetique de la surimpression, Paris, Classiques Garnier, 2018, p. 81-94.
[3]. M. Merleau-Ponty, L’oil et l’esprit, Paris, Gallimard, 1964, coll. Folio Essais, p. 19.
[4]. M. Proust, À la recherche du temps perdu, ed. dirigée par Jean Yves Tadié, Paris, Gallimard, coll. Bibliothèque de la Pléiade, 1987.89, 4 vol. Da ora abbreviato con RTP, seguito dal numero di pagina.
[5]. M. Merleau-Ponty, Signes, Paris, Gallimard 1960, p. 21.
[6]. Sul carattere obliquo ma produttivo di questi scambi, vedere Anne Simon, Trafics de Proust, Merleau-Ponty, Sartres, Deleuze, Barthes, Paris, Hermann, p. 39-79.
[7]. Una divergenza maggiore è da trovare nel rapporto ad Altri, intersoggettivo e complice tra Merleau-Ponty, solipsista e conflittuale in Proust, su questo punto più vicino a Sartre.
[8]. Cfr. J. Garelli, Rhymes et Mondes. Au revers de l’idéntité et de l’alterité, Grenoble, Jerome Millon, 1991, p. 164.
[9]. RTP, III, p. 514-513, da «Mais qu’est-ce que cela peut faire? Me dit ma mére» a «poétique et vaine image du souvenir et du songe». Tutta la citazione senza riferimenti espliciti tornerà in queste pagine.
[10]. M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’invisible., p. 156.
[11]. RTP, III, p. 512.
[12]. Ibid. p. 839-840.
[13]. RTP, III, p. 513. Per altre allusioni cfr. p. 499, p. 502, p. 505, p. 506, p. 508, p. 512, p. 513, p. 514, p. 515.
[14]. Ibid, p. 514-515.
[15]. M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’invisible., p. 153.
[16]. Ibid. p. 161-162.
[17]. Cfr. S. Guerlac, A photographic logic of experience (memory as photographer), Proust: Photographies. Three essays, three interludes, in uscita nel 2019.
[18]. A livello genetico, gli elementi che costituiscono la descrizione della fine di Sodome et Gomorrhe si trovano nelle bozze della descrizione dell’alba, all’arrivo in treno a Balbec (À l’ombre des jeunes filles en fleur): stavolta abbiamo a che fare con una sovrapposizione di temporalità scritturali.
[19]. RTP, IV, p. 453.
[20]. Ibid.
[21]. G, Genette, Figures I, Paris, Seuil, 1966, p. 51. Si tratta del saggio Proust palimpseste.
[22]. M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’invisible., notes de travail, novembre 1960, p. 322.
[23]. M. Merleau-Ponty, Le problème de la parole, Résumés de cours. Collège de France, 1952-1960, Paris, Gallimard, 1968, p. 40.
[24]. RTP, IV, p. 504.
[25]. Ibid. p. 503.
[26]. M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’invisible., notes de travail, novembre 1960, p. 321.
[27]. Ibid, nota del maggio 1959, p. 245.
[28]. Si veda ad esempio RTP IV p. 456, 475 e 476.
[29]. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, 1945, Paris, Gallimard, coll. TEL, 1976, p. 269: «parce que [...] elle ne se marque pas sur l’objet lui-même, elle appartient de tout évidence à la perspective et non aux choses, [...] elle annonce un certain lien indissoluble entre les choses et moi».
[30]. M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’invisible., p. 272. Note di lavoro, novembre 1959.
[31]. Si veda la critica di questa definizione scientista della sensazione in Erwin Straus, Du sens des sens. Contribution à l’étude des fondaments de la psychologie [1935], tradotto da Georges Thinés et Jean Pierre Legrand, Grenoble, Jerome Millon, 1989.
[32]. RTP, IV, p. 470.
[33]. M. Merleau-Ponty, Signes, p. 73. Si tratta del saggio Le langage indirect et les voix du silence
[34]. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception., p. 249.
[35]. Ibid.

A. Pevsner, Composizione astratta
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