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2012


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Il paradigma sacrificale e la prospettiva tragica
di Jacopo Valli


15 maggio 2013




1. Il paradigma sacrificale

Girard, com’è noto, introduce il “meccanismo vittimario” per spiegare la costruzione o ricostituzione del patto sociale; in particolare, prende in esame l’episodio biblico della lapidazione; l’evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra” viene da lui posto come elemento di rottura rispetto alla dinamica sacrificale comune a tutti i miti fondativi: «Il porre al centro della rivelazione la vittima come intoccabile, la generazione del perdono e della pietà come elementi fondanti del patto sociale, costituiscono la grande novità della rivelazione che contrasta con il ciclo sacrificale delle religioni tradizionali, tradendone l’essenza e costituendo, di fatto, un unicum specifico ed imprescindibile».

Ma consideriamo l’episodio della crocifissione: il fatto che il Cristo sia non solo uomo ma anche Dio, dovrebbe consentire la definitiva estromissione del meccanismo sacrificale alla base del periodico rinnovarsi del patto sociale. Nella croce, la vittima viene trasformata in carnefice, la violenza mimetizzata nella figura del sacrificato (il Cristo, l’uomo-Dio) viene svelata: il Dio-vittima muore (sospensione del sacro), ma risorgendo si tramuta nel vincolo simbolico (riattivazione del sacro) di un patto sociale che si dà per eterno – il Cristianesimo fonda il proprio trionfo sulla morte stessa; la resurrezione del Dio è cardine imprescindibile e presupposto necessario all’eventuale resurrezione della carne.

Tuttavia, il meccanismo della violenza mimetica non viene affatto meno; anzi, assume maggior intensità: se consideriamo il fatto che Satana è “l’avversario”, possiamo dire che ogni individuo è satanico rispetto al prossimo, giacché in un contesto tragico, tutti gli individui sono perpetuamente inseriti entro rapporti di potere. Questa dinamica è elusa dal meccanismo sacrificale e in particolar modo da quello cristiano: il nuovo Dio, vincolo simbolico dell’ordine (sacrificalmente) costituito, vieta il sacrificio, ma vietandolo non elimina tuttavia l’inestirpabile violenza mimetica sottesa ad ogni rapporto umano, e impedisce l’eventuale possibilità di ricorrere all’immolazione di una nuova vittima al fine di stabilire un nuovo ordine.

La volontà divina di stabilizzare volontariamente ed eternamente un nuovo ordine sociale procede, dal punto di vista del Dio stesso – anche quello di Dio è solo un punto di vista: creando, egli pone un altro da sé, si divide dia-bolicamente; introduce la possibilità d’essere rifiutato ed ucciso: attraverso l’altro, si dona la morte – e giunge a configurarsi come un’estrema forma di violenza impositiva/costruttiva – distruzione e costruzione sono momenti non dialetticamente contrapposti, ma compresenti in ogni evento: distruggere è creare spazi, e viceversa. Il sacrificio diviene continuo, la violenza più intensa ed inesauribile.

Gli individui sono chiamati a rispondere a Cesare, ma dovendo obbedire al solo Dio, che ogni cosa sovrasta ed è sacro, e, quindi, inviolabile, tendono ad adattarsi ad esso per timore di una punizione e desiderio di una ricompensa: Cesare viene plasmato alla forma di Dio; la legge di fatto non viene sospesa; non si dà possibilità di rivoluzione nei confronti di un vincolo divino eterno ed onnipotente; le leggi di Cesare sono destinate a mutare, seppur lentamente, in quelle di Dio: gli individui non sono più liberamente sovrani, ma sono giocati dalla logica divina, che tende ad impedire l’esercizio di una libera etica (razionale).

È un meccanismo di controllo reazionario perfetto: il sacrificio viene definitivamente interdetto; Dio stesso (vittima-carnefice) si fa garante sim-bolico di un nuovo ordine, eternamente stabilito sulla base di un punto di vista arbitrario; la violenza mimetica, intrinseca ai rapporti umani, non viene meno; sulla base del nuovo ordine divino si costituiscono “giusti” ed “empi”, e chi non segue Dio, ovvero, poi, Cesare, viene eliminato: il sacrificio è destinato a moltiplicarsi.


2. La prospettiva tragica

È stato detto che il Dio creatore dona a se stesso la morte creando l’altro da sé (la “morte di Dio” inizia nel Genesi). Nell’ottica di un Cristianesimo kenotico, Dio crea e creando si pone come altro rispetto al creato e così si rende debole e non più onnisciente e onnipotente e successivamente, facendosi uomo, scende, e, nella croce, versa il proprio stesso sangue (Atti degli apostoli). Questo processo coincide ad un tempo con la fine del sacro e l’inizio del nichilismo. Ma la stessa fine del sacro sacralizza il nulla nel quale il fedele attende dolorosamente facendosene un fondamento; in qualche modo, una casa. E tuttavia, il fedele genuino, dovendo attendere un Dio che non dà risposta, che sta zitto, che fallisce, che ritarda clamorosamente e che è l’unico a poter instaurare il Regno, non ha la pretesa di adeguare Cesare a Dio, giacché, anche se volesse, non saprebbe come e a cosa adeguarlo. Inoltre, un eventuale suo atteggiamento, teso alla costituzione del Regno prima della Parusia, si configurerebbe come tecnicamente anticristiano ed apostatico (cfr. Sergio Quinzio, Mysterium Iniquitatis).

Fede e credenza sono nettamente separate da questa logica: nel caso appena descritto, Dio è morto ed assente; il vincolo simbolico eterno garantito dal meccanismo sacrificale cristiano non si dà più per certo; Dio non è più elemento attivo della reazione, non esercita più la propria smisurata violenza impositiva/costruttiva dall’alto dei cieli; ed i fedeli non possono prendere le parti dei gerarchi, ma possono solo sperare, in silenzio e senza garanzie, «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia», nella sofferenza scardinante della fede, che contempla un ineludibile e di sé fondativo ateismo (spurio, poiché la fede nel dio-nulla ontologico ne è il padre).

Ora, assumendo una posizione di fede tragica (differente da una fede che puntasse ottimisticamente e per volontà di senso su una qualche effettiva presenza sostanziale del dio-ente sperato), la violenza mimetica non viene meno, naturalmente, ma si può almeno pensare di virare verso una logica non sacrificale, che eviti di ricorrere al sacrificio perenne prodotto dal controllo reazionario del dio-ente invisibile, al quale tendenzialmente ci si adatta anche dirittualmente (« in libera coscienza » [...], per dirla con Benedetto XVI).

Agire secondo la logica sacrificale mi pare cioè un illudersi di eliminare un problema, per generarne di peggiori: la violenza non è eliminabile, se non attraverso l’impiego di altra e più forte violenza impositiva/costruttiva, rientrando così in un circolo vizioso degenerativo: si tratta allora di saper gestire la violenza, ovvero di riconoscere la valenza del meccanismo mimetico, sotteso alle continue e diffuse relazioni di potere, senza ricorrere a sacrifici, dèi e demonizzazioni della violenza stessa che, intesa come “potere”, non è male in sé, visto che senza di essa non potremmo difenderci, rivoltarci o mantenere la differenza (orizzontale) necessaria alla produzione della nostra stessa esistenza, come sovrani di noi stessi, anche qualora decidessimo intimamente di votarci ai fantasmi.

Emilio Scanavino, Tramatura, c. 1975

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