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Esistenzialismo
A cura di Giacomo Conserva



La nave
di Daniel Filoni

30 marzo 2014







Una nave appena salpata che senza fretta spumeggia sulle acque, lasciandosi alle spalle il grigiore del porto appena abbandonato. Una nave grande, in legno di abete, costruita con maestria, proprio come si faceva un tempo. Attorno ad essa una foschia leggera che la avvolge sottilmente, ma senza ottenebrarla. Il cielo di sopra è grigio e non sembra felice dell’aria che lo circonda. Dei gabbiani intanto volteggiano in semicerchi, formando arabeschi non decifrabili.

La nave è bella; la nave confonde l’occhio e la visione.

Su di essa alcuni marinai con divise bianco-azzurre, passeggiano sulla grande stiva, scambiandosi di rado parole e riflessioni.

Questi marinai, abituati al viaggio come alla visione, hanno un corpo statuario, occhi che dardeggiano, un’eleganza innata nel portamento. Sono belli e maledetti questi uomini del mare. Nessun però li può ben capire, nessuno può esplicitare la magia dei loro sguardi.

Non sono che un piccolo gruppo, ma la loro presenza scintillante riempie e colma la nave. A vederli mentre si allontanano, si direbbe che qui dalla terra ferma fa uno strano effetto seguirli in questa loro peregrinazione. Eppure verrebbe da tuffarsi in acqua, per raggiungerli. Oramai è troppo tardi, a malapena si distinguono le loro sagome.

Vicino, sulla piattaforma del porto, un’ondata di gente che si raduna.
Occhieggiano ragazze stupefatte dalla scena. Applaudono le madri, simili a spugne, muschi o muffe, con le loro vesti nere di pipistrello.

I padri in fila indiana, come automi, si consumano in gesti meccanici e automatici.

Nel frattempo l’atmosfera si fa più cupa e il mare sbeffeggia e inghiotte gli scogli.

(Una tempesta si scatena sul mare: la nave rolla e beccheggia; portate dal vento precipitano valanghe d’acqua. Più in basso, dimenticati là sul fondale brulicante, pesci che anelano alla superficie).

Mentre la nave continua il viaggio, un uomo per caso tira fuori dalla sua borsa un binocolo e lo mostra alla gente. Lo punta, allora, irriverente verso la nave. Silenzio. Arrivato il mio turno, prendo il magico strumento e lo direziono verso il mare, sempre più in fondo. Nel frattempo i confini si annullano e si perdono, finché la volta celeste del cielo si sposa e s’immerge nelle acque marine.

Ma che vedono i miei occhi? Che cosa vedono? Com’è possibile?

Ora sulla nave è issata una bandiera, proprio sulla prua, dove s’incontrano l’albero maestro e il timone, una bandiera magnifica, enorme, che sventola con allegria nel cielo, senza ostinazione.

Il cielo già s’è fatto più azzurro.

Una bandiera bianca, con contorni violetti, dove s’intravede una scritta magnifica giganteggiare sulla tela. Una scritta molto ben fatta, color oro; una scritta che per la sua lucentezza emana d’intorno riflessi luminosi e caldi. Sì, riesco a decifrarla, posso vederla! Che bella! Che incantevole visione.
La poesia è il suo nome!

Quasi sognanti, i tre marinai: temerari, intelligenti, scaltri. Anche se a un primo sguardo sembrano assenti, in realtà sono desti. Convinti, padroni delle loro azioni e dei loro gesti, camminano e discutono tra loro, senza esitazioni.

Uno di questi, Dario, è circospetto e sognante, illuminato da una luce naturale che proviene dall’alto. Se ne sta come distratto e noncurante del tempo. Ha un sorriso quasi beffardo.
Dal lato opposto, è Valerio.

Nel mezzo della nave, solitario, nei pressi del timone, il terzo degli uomini.
Sembra sia come posseduto da un demone.
Tetragono, odia ogni sintesi o conciliazione.

Inspiegabilmente, dopo qualche minuto che la nave ha abbandonato il porto, anche il cielo si è completamente liberato dal suo grigiore, lasciando trasparire negli uomini una timida emozione.

Qui vicino, sulla terra ferma, invece, si possono udire lunghi discorsi, che riguardano la condizione, lo stato, o il perché del loro viaggio.

La nave nel frattempo continua a tagliare le acque, proprio come una lama su un pezzo di carta.

Dal ponte si possono ammirare piccole imbarcazioni, le quali, stupite dalla forza della nave, si sono proposte di avvicinarla, per imitare il suo rapido andare.

Io ora osservo e assisto. E penso, in silenzio, che come ci ha mostrato la nave, che salpando si è portata dietro il grigiore del mondo, un cambiamento è pur possibile.

Una piccola e imprevedibile sterzata, un colpo, un pugno dato alla vita. Lasciarsi uno spiraglio, una possibilità per decidere, darsi una direzione. Proprio come quei marinai, che hanno fatto delle loro vite un esperimento, un’avventura, un’improvvisa emozione!

È giunto il momento, decido di spostarmi e di isolarmi. Voglio pensare con maggiore attenzione; trovare un significato all’esperienza appena vissuta. Dopo qualche minuto di riflessione arrivo al punto cruciale, al nodo della questione. Seguire gli uomini è una grande sciagura, dico. Penso solamente alla miseria, alla contingenza. Ora, la vita nel suo scorrere, in modo piatto e superficiale, mette i brividi. Mi chiedo se l’esistenza sia davvero una punizione, una prova, un’espiazione. E se l’anima solamente sia un rifugio per soddisfare i bambini.
Sono rapito da questi pensieri labirintici.
Abbandono velocemente il porto e saluto con un cenno la nave, sempre più bella, sempre più lontana.

Starò tre mesi tra l’erba alta del mio casolare, circondato da galli, conigli, cani, gatti, civette e alberi da frutto. La mattina farò lunghe passeggiate e mediterò sul ritorno in società; poi il pomeriggio studierò attentamente e con partecipazione scritti di filosofia politica e naturale, trovandoci motivo di beatitudine contemplativa. Infine, la sera, mi piacerà canticchiare qualche parola, e magari, nei momenti di particolare euforia la trascriverò su carta.

Così passati tre mesi (temprato nel corpo e nella mente), deciderò di tornare in città. Avendo sempre ben a mente l’insegnamento che la visione superba della nave mi ha procurato.


Albrecht Dürer, Ritratto della madre, 1514


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