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Esistenzialismo
A cura di Giacomo Conserva



Dostoevskij e la vergogna di esistere
di Stefano Scrima

30 marzo 2014







È la ragione che ci fa essere propriamente uomini; mettiamola così. Ma chi ha detto che seguire sempre la ragione sia la cosa per noi più vantaggiosa? Ciò non significa automaticamente negare le pulsioni della nostra libera volontà — che ha, appunto, le sue ragioni (un po’ come le ragioni del cuore di Pascal) — a favore di una realtà determinata, che ha il solo compito di far rispettare le formule con cui è stata pensata? (E da chi?) È un po’ quello che è successo con l’utilitarismo e il positivismo: entrambi non potevano accettar se non i consigli della ragione, di quello che altri chiamano utile, ovvero qualcosa che miri alla prosperità, al benessere — categorie arbitrariamente designate come le più vantaggiose per l’esistenza umana. E come la mettiamo con quel moto rabbioso che ci pervade quando ci ritroviamo incatenati a un modo d’agire prestabilito, quando sentiamo che stiamo agendo perché così ci è stato insegnato e così crediamo sia meglio per noi? L’esperienza quotidiana di questo sentimento dovrebbe farci riflettere sulla labilità di alcuni giudizi consolidati nei confronti della condizione umana, che di fatto spesso si rivelano essere semplici pregiudizi, o comunque verità solo parziali.

Fëdor Dostoevskij nel romanzo Memorie del sottosuolo (1864) costruisce il suo personaggio, avvocato della volontà, proprio partendo da questo sentimento di ribellione, nell’intento di smuovere le coscienze del lettore, sebbene egli stesso scriva che le sue memorie serviranno più che altro a lui, per vedere se almeno con la propria coscienza si può essere sinceri: «il nostro proprio volere, spontaneo e libero, il nostro proprio capriccio, anche se stravagantissimo, la nostra fantasia, irritata a volte magari fino alla pazzia, tutto ciò è appunto quello stesso vantaggiosissimo vantaggio tralasciato, che non rientra in nessuna classificazione e a causa del quale tutti i sistemi e le teorie se ne vanno continuamente al diavolo». [1] Vantaggioso non è solo quello che la ragione, come viene intesa dalla maggior parte degli uomini, dice essere vantaggioso, ma più di tutto ciò che soddisfa la nostra sete di libertà, di appagamento del nostro essere indeterminato, attraverso la libera scelta, anche se va contro le consuete regole della prosperità e del ‘buon senso’. Siamo sì uomini in quanto esseri sensati, ma ancor di più in quanto esseri liberi: «io infatti, per esempio, è naturalissimo che voglia vivere per soddisfare tutta la mia capacità di vivere, e non soltanto per soddisfare la mia capacità raziocinante, cioè forse una ventesima parte della mia intera capacità di vivere». [2] E poi siamo sicuri che «la ragione non s’inganna nei vantaggi? Può darsi che l’uomo non ami la sola prosperità. Può darsi che ami esattamente altrettanto la sofferenza». [3] Chi non ha mai provato il piacere ‘perverso’ — perché contro la morale occidentale — della sofferenza che si fa subito autocommiserazione e quindi senso di vita? L’uomo del sottosuolo è «sicuro che l’uomo all’autentica sofferenza, cioè alla distruzione e al caos, non rinuncerà mai. La sofferenza… ma è l’unica causa della coscienza». [4] E chi vuole realmente privarsi della coscienza, baluardo d’umanità? L’uomo, pur di non soggiacere alle regole mortifere di una ragione autoproclamatasi regina — perché «del resto, il due per due quattro non è più vita, signori, bensì il principio della morte» [5] — «metterà a repentaglio perfino i panforti e desidererà apposta l’assurdità più funesta, l’insensatezza più antieconomica, unicamente per mescolare a tutta questa positiva ragionevolezza il proprio funesto elemento fantastico». [6].

Tuttavia il percorso di liberazione dal giogo della ragione dell’uomo del sottosuolo all’insegna di una completezza esistenziale non è senza dazio. Non si tratta di sofferenza, di dolore, categorie di facile comprensione, bensì di colpevolezza che nei picchi di lucidità arriva a farsi vergogna. L’uomo è colpevole, come sempre, vuoi per aver violato la proibizione di Dio, vuoi per aver ricevuto il fuoco da Prometeo. È colpevole soprattutto per esser nato e aver preso sulle sue spalle il peso dell’esistenza, privilegio che va espiato attimo dopo attimo: «l’essenziale poi è che, per quanto si rigiri la cosa, ne viene pur sempre fuori che sono sempre io e per primo il colpevole di tutto e, quel che più offende, colpevole senza colpa e, per così dire, per legge di natura». [7] Il paradosso della colpevolezza senza colpa rende il tutto ancor più assurdo, e contemporaneamente ancor più armonico con la ‘fantastica’, per non dire insensata, condizione umana.

Ma il sottosuolo è ancora più profondo di quel che pensiamo. Anche se non c’è una colpa, se non l’inconsapevole nascere, l’uomo ne troverà comunque una per farsi colpevole e giustificare così il suo senso di vergogna per essere in vita. «Il suo principalissimo difetto è la costante immoralità», [8] l’ipocrisia, la vanità (tematiche che torneranno ne La caduta di Albert Camus). Così l’uomo fabbrica la sua morale e poi ci sbatte contro per dare un significato al suo senso di inadeguatezza. Causa e fine è la vergogna, una vergogna di esistere. L’uomo del sottosuolo si chiede: «di che cosa mi vergognavo?», e non può che rispondersi: «non so, ma mi vergognavo». [9]

«Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostro corpo e sangue; ce ne vergogniamo, lo consideriamo come un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali». [10] È solo un brutto scherzo della coscienza, uno strabordare del pensiero, sarà, ma non si può sconfiggere senza scalfire la nostra stessa umanità.


[1] Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, trad. di A. Polledro, Einaudi, Torino 2008, p. 27.
[2] Ivi, p. 29.
[3] Ivi, p. 35.
[4] Ivi p. 36.
[5] Ivi, p. 35.
[6[ Ivi, p. 32.
[7] Ivi, pp. 10-11.
[8] Ivi, pp. 30-31.
[9] Ivi, p. 126.
[10] Ivi, p. 132.


Fëdor Dostoevskij


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