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Transmoderno. Un nuovo paradigma | Kasparhauser IV
A cura di Marco Baldino




Il ritorno del paleolitico*
di Peter Lamborn Wilson

(Traduzione e note di Marco Baldino)


20 giugno 2013


Ogni cultura (o comunque ogni cultura urbano-agricola) coltiva due miti apparentemente contrastanti: il mito della decadenza e il mito del progresso. René Guénon e i neo-tradizionalisti sostengono che nessuna cultura antica ha mai creduto al progresso, ma naturalmente fingono, perché loro stessi lo hanno perseguito.

Una versione del mito della decadenza nella cultura Indo-europea è incentrato sull’immagine dei metalli: oro, argento, bronzo, ferro. Ma che dire del mito in cui Kronos e i Titani vengono distrutti per far posto a Zeus e agli dèi olimpici? — si tratta di una storia parallela a quella che di Tiamat e Marduk, o a quella di Leviathan e Jah. In questi miti del progresso, un originario pantheon “femminile”, ctonio e caotico (terrestre o equoreo) è sostituito (rovesciato) da un successivo, spiritualizzato e ordinato pantheon celeste “maschile”. Non è questo un passo in avanti nel tempo? E non hanno Buddhismo, Cristianesimo e Islàm tutti proclamato di essere migliori del paganesimo?

In realtà, naturalmente, sia i miti della decadenza sia quelli del progresso, hanno lo scopo di esercitare un controllo, di introdurre una società del controllo. Tutti e due ammettono che prima del presente stato di cose qualcos’altro esistesse: un differente modo di fare società. In entrambi i casi pare esserci qualcosa come una sorta di “memoria genetica” [“race-memory” vision] del Paleolitico, del grande, immutabile tempo della preistoria dell’umano. Nel caso della visione progressiva, quell’età primordiale è vista come un’epoca di vasto disordine, brutale e orrenda. Il XVIII secolo non ha scoperto questo punto di vista, ma l’ha trovato già espresso nella cultura classica e in quella cristiana. Nell’altro caso, quello della decadenza, il primordiale è visto invece come momento prezioso, innocente, numinoso, felice, più facile di quello attuale, ma anche irrevocabilmente perduto, impossibile da recuperare se non attraverso la morte.

Così, mentre per gli entusiasti fedeli adoratori dell’ordine, questo stesso si presenta come infinitamente più perfetto di ogni caos originario, per i suoi insoddisfatti e potenziali nemici, esso si presenta invece come qualcosa di crudele e di oppressivo (“ferro”), ma anche di fatalmente inevitabile e sostanzialmente onnipotente.

In nessun caso i partigiani del mito dell’Ordine ammetteranno che “Caos”, o “Età dell’oro”, potrebbe esistere nel presente, o che esistono nel presente, qui e ora, fattivamente, benché dissimulati dall’illusoria totalità della Società dell’ordine. Noi però crediamo che il “Paleolitico” (che non è né più né meno che un mito, come il “Caos” o l’“Età dell’oro”) esista tuttora, come una sorta di inconscio sociale. Riteniamo inoltre che l’età industriale stia volgendo al termine con l’ultimo lasso della neolitica “rivoluzione agricola” e che anche le ultime religioni dell’Ordine stiano declinando e anche che tutto questo “materiale rimosso” tornerà in superficie. Cos’altro si potrebbe intendere quando parliamo di “nomadismo psichico” [1] e di “scomparsa del sociale”? [2]

La fine del Moderno non significa un ritorno al Paleolitico, ma un ritorno del Paleolitico.

L’antropologia post-classica (o post-accademica) ci ha preparati per questo ritorno del rimosso: di recente si è diffuso un sentire comune che spinge verso una ri-comprensione della società di raccolta e di caccia. Le grotte di Lascaux sono state scoperte proprio quando andavano scoperte — nessun antico romano, nessun cristiano medievale, nessun razionalista del XVIII secolo le avrebbe mai trovate belle o significative. In queste grotte (simbolo di una archeologia della coscienza) noi abbiamo invece trovato gli artisti che li hanno creati, scoprendoli come antenati e, anche, come noi stessi, vivi e presenti.

Una volta Paul Goodman [3] ha definito l’anarchismo come una sorta di “conservatorismo neolitico”. Definizione spiritosa, ma non troppa accurata. L’anarchismo (o, almeno, l’anarchismo ontologico) non simpatizza tanto con gli agricoltori bifolchi, quanto piuttosto con le strutture sociali non-autoritarie e con l’economia pre-capitalistica dei cacciatori e dei raccoglitori. Inoltre non possiamo definire questa ‘simpatia’ come ‘conservatrice’. Un aggettivo migliore, dal momento che abbiamo trovato le nostre radici nel paleolitico (una sorta di eterno presente), potrebbe essere “radicale”. Non vogliamo tornare alla tecnologia materiale del passato (non abbiamo alcun desiderio di proiettarci all’indietro, verso l’età della pietra), piuttosto siamo per il ritorno di una tecnologia psichica che abbiamo dimenticato di aver posseduto.

Il fatto che noi troviamo Lascaux bella significa che Babilonia ha finalmente cominciato a disfarsi. L’anarchismo è probabilmente più un sintomo che una causa di questo sfacimento. A dispetto delle nostre immaginazioni utopiche, noi non sappiamo cosa aspettarci. Ma, da ultimo, siamo almeno preparati per la deriva verso l’ignoto. Per noi questa è un’avventura, non la fine del mondo. Noi accogliamo volentieri il ritorno del Caos, perché, con il pericolo che gli si avvolge intorno, arriva, alla fine, una nuova possibilità creativa.


(*) Il discorso di Peter Lamborn Wilson, controverso personaggio dell’ambiente anarchico newyorkese, sembra giocare qui le tracce mnestico-collettive dell’epoca paleolitica, in cui l’uomo era ancora un cacciatore e un raccoglitore, contro le strutture posteriori del neolitico agricolo e scambiatore: ‘libertà paleolitica’ contro ‘conservatorismo neolitico’. L’uomo contemporaneo (in linea con le visioni circolari e spiraliformi del tradizionalismo) sarebbe così testimone di una trasformazione che pone l’aureo paleolitico all’orizzonte del declinante sistema capitalistico. La conoscenza del passato sarebbe la sola via di accesso al presente e cercando di comprendere il presente gli uomini sono costretti a rivivificare il passato. L’aspetto più interessante di questo discorso di Hakim Bey sembra essere una certa convergenza (più suggestiva che reale) con le teorie del post-storia: il ritorno del paleolitico eterno, cioè senza tempo, senza tempo storico per essere precisi, non come una catastrofe e nemmeno come ritorno all’età della pietra, ma come ritorno di certe strutture psichiche che l’avvento del capitalismo neolitico prima e dell’età industriale poi, aveva rimosso. [ndc]

[1] Si tratta di un concetto che ricorre in Peter Lamborn Wilson, ripreso tuttavia da autori come Gilles Deleuze e Félix Guattari (cfr. Id., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di G. Passerone, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1987. Segnatamente il cap. XII, «Trattato di nomadologia: la macchina da guerra») e da Jean-François Lyotard (cfr. Driftwork, ed. Roger McKeon, New York 1984. Questo testo riproduce alcuni saggi apparsi in Dérive à partir de Marx et Freud (tr. it. di M. Ferraris, A partire da Marx e Freud, Multhipla, Milano 1979), e in Des Dispositifs Pulsionnels (Union Général d’Editions, Paris 1973). Si tratta di una pratica di lettura che consiste nel prelevare concetti da un contesto (morale, religioso, politico, etico, ecc.), lasciando a se stessi i sistemi sottoposti. [ndc]
[2] Sulla fine o morte o implosione del sociale si è trattenuto a lungo Jean Baudrillard, in opere apparse tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Si veda ad esempio, J. Baudrillard, «L’implosione del senso nei media e l’implosione del sociale nelle masse», “aut aut”, n. 169, 1979. [ndc]
[3] Paul Goodman è uno scrittore e pensatore americano. Fu uno degli ispiratori, negli anni ’50 e ’60, della sinistra americana. Ricercatore universitario, specialista di storia americana popolare, fu anche poeta, romanziere, drammaturgo, saggista e quel che si dice un educatore anarchico. Appassionato di studi filosofici e sociali, fu tra i fondatori della psicoterapia della Gestalt. [ndc]


Peter Lamborn Wilson (New York, 1945). Filosofo, poeta e scrittore statunitense. Autore di un’opera variegata. Noto anche come Hakim Bey. In Italiano si possono leggere, pubblicate sotto lo pseudonimo di Hakim Bey: Millennium. La Jihad contro la politica (ShaKe edizioni, 1997); T.A.Z. Zone temporaneamente autonome (ShaKe edizioni, 1993-2007); Il giardino dei cannibali. I viaggi filosofici di un sufi beat (ShaKe edizioni, 2010). Come P. Lamborn Wilson, le edizioni ShaKe hanno tradotto e pubblicato Le repubbliche dei pirati. Corsari mori e rinnegati europei nel Mediterraneo (2010).



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