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Civiltà della vertigine | Kasparhauser 11
A cura di Marco Tabacchini




Estasi addomesticate.
La vertigine nell’epoca della sua produzione tecnicizzata
di Marco Tabacchini

Agosto 2015


Gli emblemi ritornano come merci.
Walter Benjamin, Parco centrale


1.
Per una di quelle rare e felici coincidenze che ogni volta permettono, a chi ne sa fare tesoro, di rigiocare differentemente la leggibilità della storia, la data del 1903 non corrisponde soltanto al primo volo dei fratelli Wright, al disastroso incendio della metropolitana di Parigi o al colpo di stato militare che segnerà il destino della Serbia. A questo breve quanto arbitrario elenco, infatti, andrebbe per lo meno aggiunta l’inaugurazione del nuovo Luna Park di Coney Island, il quale, con la sua straordinaria architettura di meccanismi e spettacoli, costituirà per molto tempo l’insuperabile modello per ogni futuro commercio di sensazioni. [1] L’eccentricità dei divertimenti raggruppati in uno spazio tanto ristretto, sorta di parodia della recente esposizione universale, era tale da poter gareggiare con il più caotico quartiere delle metropoli reali, tanto da poter sembrare null’altro che uno specchio fedele della fantasmagoria della merce. Allo stesso modo, e con buona pace di ogni fede troppo lineare nel «cammino progressivo della civiltà contemporanea», [2] le linee curve con cui l’attrazione simbolo dell’area newyorkese, il Loop the Loop, prometteva ai suoi visitatori l’esperienza della vertigine, avrebbero benissimo potuto sovrapporsi alle linee di visibilità di un’intera epoca, il cui carattere inconfondibile doveva molto alla seduzione dello slancio e della tensione. Qui a Coney Island, infatti, come del resto in altri coevi templi del divertimento, quel che a prima vista sembrava costituire un tentativo organizzato di evasione di massa, di fronte all’«inconscio disagio prodotto dallo sviluppo delle grandi città», [3] ben presto si dimostrò essere una delle tecniche di contenimento di una nuova forma quotidiana di vertigine, la quale, lungi dall’essere scomparsa a seguito dei progressi della civiltà, era stata, a detta dei suoi accorti finanziatori, semplicemente addomesticata. Il che significava, come accade tanto per le sensazioni quanto per gli animali: messa sapientemente a profitto. Illuminante, in tal senso, resta ancora oggi uno scritto di Georg Simmel, pubblicato nello stesso anno in cui il Luna Park americano si preparava ad accogliere i suoi primi clienti. Recante il titolo Le metropoli e la vita dello spirito, il breve saggio si distingue per la perentorietà con cui la vita moderna è descritta quale debitrice, nella sua forma, allo choc costituito dall’«intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori». [4] Il ritmo delle metropoli, con la sua «concentrazione di uomini e di cose che eccita l’individuo alle massime prestazioni nervose», [5] avrebbe favorito il sorgere di due differenti modalità di convivenza con la vertigine: da un lato, l’individuo rinchiuso in un comportamento blasé e caratterizzato dalla sensibilità irreparabilmente attutita; dall’altro, l’inarrestabile agitazione di chi si vede costretto a fornire, di fronte ai molteplici stimoli e subendo perfino «la velocità e la contraddittorietà del loro alternarsi, delle risposte tanto violente da sbatacchiarlo per così dire di qua e di là, in modo tale da mobilitare anche le sue ultime riserve vitali». [6] Non è tuttavia difficile riconoscere come sia il moderno anestetizzato che la frenesia nevrastenica non siano altro che simmetriche modalità di subire incondizionatamente gli stimoli dovuti a una medesima vertigine. Se il secondo si abbandona in maniera quasi sonnambolica alla sua attrazione, la forma disincantata e annoiata con cui il primo attraversa l’esistenza non è altro che una sorta di difesa posta in atto di fronte alla possibilità di un coinvolgimento. In entrambi i casi, uno stesso processo di adattamento, una stessa capacità — o meglio: una stessa forza — di adeguazione rispetto al ritmo imposto dalla modernità trionfante.

È forse per questo che la fin de siècle vide il diffondersi e lo strepitoso successo dei parchi giochi, chiamati a risolvere il problema posto dai moderni anestetizzati, riluttanti a reagire di fronte all’inattesa seduzione del mondo, e dagli agitati incapaci di contenere la propria costitutiva esposizione a quest’ultimo, mediante la somministrazione di smarrimento meccanizzato ad alta intensità, «più vicino allo spasmo che al divertimento». [7] Le mirabolanti attrazioni ludiche avrebbero così avuto il compito d’innescare uno stato paradossale di liberazione dalla vertigine, la sua abreazione valorizzata e controllata, ricorrendo alla vendita al dettaglio di esperienza vertiginosa entro tempi e spazi rigorosamente delimitati, permettendo così che altrove il venire alla presenza del mondo potesse condursi in maniera pressoché impercettibile.

2.
Il moderno connubio tra tecnica e vertigine, quale i parchi di divertimento potevano mostrare, certo non era sfuggito a un osservatore come Caillois, il quale non aveva esitato a riconoscere nelle attrazioni meccaniche un’inaudita capacità di intensificazione del gioco: «Per dare a questo tipo di sensazione l’intensità e la violenza capace di stordire gli adulti, si sono dovute inventare macchine potenti. Non c’è dunque da stupirsi se si è dovuta aspettare l’età industriale perché la vertigine diventasse realmente una categoria del gioco. Essa è ormai dispensata a una massa avida per mezzo di una quantità di meccanismi infernali, collocati nelle fiere e nei luna-park». [8] È tuttavia singolare il fatto che proprio l’utilizzo di nuove tecniche nella produzione di vertigine abbia comportato la possibilità stessa della sua declinazione ludica. Singolare anzitutto perché la teoria del progresso esposta in I giochi e gli uomini aveva categoricamente affermato la reciproca esclusione di civiltà e vertigine, con la sostanziale regressione della seconda, ridotta a ruoli modesti o perfino clandestini, a seguito del sopravanzare della prima (un’esclusione reciproca che, d’altra parte, inviterebbe ogni volta a ritrovare, proprio nell’insistente fascinazione per la vertigine, il tratto costante che smorza ogni ipotesi di progresso). [9] Non solo: oltre a essere considerata estranea alla moderna cultura del gioco, e dunque alla cultura tout court, mero retaggio di un passato estatico, la vertigine non può che presentarsi nell’impossibilità stessa di conciliarsi con la vita quotidiana, là dove le altre forme del gioco non cessano invece di intrattenere con questa una qualche complicità. E così, scrive Caillois, «La competizione è una legge della vita ordinaria. Il caso, anch’esso, non contraddice la realtà. L’imitazione vi trova posto, come possiamo vedere con i truffatori, le spie e i fuggiaschi. In cambio, la vertigine ne è praticamente bandita, a meno che non si prendano in considerazione alcune rare professioni in cui la bravura di chi le pratica consiste comunque nel dominarla». [10] Stupisce allora la facilità con cui la tecnica sia stata posta al servizio dell’esperienza vertiginosa. In tal senso, l’equivalente moderno e tecnicamente assistito dei giochi di vertigine, identificabile con le attrazioni da parco dei divertimenti, rappresenterebbe dunque il più audace compromesso che la civiltà possa siglare con l’attrazione della vertigine e il pericolo mortale che ne deriva. Un pericolo, questo, ormai mitigato dalla sistematica eliminazione di ogni rischio, tanto che «la ricerca del travolgimento della coscienza o della perdita della percezione, per espandersi nella vita quotidiana, deve assumere delle forme molto diverse da quelle che la vediamo prendere sulle varie macchine rotanti, montagne russe, ottovolanti, ecc., inventati per suscitare la vertigine nell’universo chiuso e protetto del gioco». [11] Quali rudimentali antesignani dell’odierno marketing estetico ed esperienziale, simili eterotopie ludiche hanno riproposto la formula di uno spazio tanto delimitato quanto separato e protetto, ma che nello stesso tempo si propone come meta ideale per la ricerca del massimo scatenamento di massa. E questo in opposizione a tutto quanto sembrava inquietare la vita quotidiana: se in essa l’incertezza e l’esposizione all’altro convivono con una monotona assenza di stimoli, il parco a tema propone la simultanea presenza di eccitazioni in stato di sicurezza, di minacce e scatenamenti simulati, di rischio calcolato nei minimi dettagli. Si tratta, tutto sommato, diincursioni protette e discontinue, il cui disorientamento transitorio pare quanto di più lontano sia dall’abbandono che da sempre accompagna la vertigine, così come da ogni ripercussione sulla vita quotidiana. Esse infatti «cessano con l’arresto della macchina e non lasciano, nel cultore di questi divertimenti, che un fuggevole senso di stordimento prima di restituirlo al suo stato normale». [12] Solo con il ricorso all’alcol e alla droga, dunque solo con l’ebbrezza della vita e non del gioco, all’uomo moderno sarebbe ancora permesso soddisfare il proprio gusto per la vertigine. E tuttavia, acconsentire alla ricerca di questa soddisfazione significa anzitutto ripudiare il carattere fittizio del gioco, carattere che costituisce una delle qualità imprescindibili dell’attività ludica.

3.
«Da qualunque parte si affrontino le cose,» scriveva Caillois nel 1938, «il problema ultimo risulta in fin dei conti essere quello della distinzione: distinzione del reale e dell’immaginario, della veglia e del sonno, dell’ignoranza e della conoscenza, ecc.». [13] Si sarebbe potuta aggiungere anche la distinzione, più volte accennata, tra gioco e realtà, se questa separazione non si rivelasse ogni volta labile e precaria, perfino ogni volta già compromessa dall’intima natura del gioco stesso, i cui principi così meticolosamente codificati e difesi si trovano sempre passibili di sconfinare in ambiti tendenzialmente indifferenti o irrispettosi verso ogni sorta di convenzione. Se è proprio una simile distinzione a garantire la specificità del gioco, tanto che «ogni contaminazione con la vita normale rischia di corrompere e guastare la sua stessa natura», [14] non vi è questione più urgente di quella riguardante il destino del gioco una volta che questo si trova inscritto entro il perimetro insidioso e opaco dell’esistenza quotidiana. D’altra parte, «se i giochi disciplinano gli istinti e impongono loro un’esistenza istituzionale», [15] nulla impedisce che questi istinti, una volta allentate o cadute le maglie del disciplinamento ludico, trovino altri campi entro i quali dare libero corso alla propria frenesia.

Caso esemplare di tale torsione, nota Caillois, è quello che l’istinto di competizione, l’agon, è passibile di subire ovunque il suo scatenamento sia subordinato all’imperativo del successo, obbligando così il principio ludico a retrocedere al rango di mezzo in vista del conseguimento di un fine di ben altro valore. Là dove l’agonismo si svincola dalle rigide delimitazioni del campo da gioco, quale terreno comune in cui lo sforzo più intenso paradossalmente coincide con il massimo distacco, eccolo presto piegato agli imperativi della pretesa realtà, a quei “giochi di potere” che più nulla hanno di ludico, in quanto il minimo gesto comporta conseguenze ineluttabili. In altri termini: eccolo piegato agli imperativi della guerra. Una volta confiscato l’agon entro un regime di utilità, infatti, «alle nazioni pare legittimo, se non meritorio, condurre la guerra in modo spietato e senza limiti», [16] sfidandola così a spingersi fino al proprio eccesso, fino a scatenare quel movimento di ascesa all’estremo che per Caillois decide della sua stessa forma contemporanea. Soltanto allora, e in maniera irreversibile, la guerra «si allontana dal torneo cavalleresco, dal duello, in una parola dal combattimento regolato in campo chiuso, per trovare la sua forma totalizzante nelle distruzioni massicce e nei massacri di intere popolazioni». [17]

Sarà proprio il nuovo aspetto sregolato e illimitato della competizione a spingere la guerra moderna entro l’ambito separato del sacro, per il quale «fanatismo e dismisura» [18] decidono ogni forma di partecipazione. Ma la sacralizzazione della guerra, a seguito dello sconfinamento dell’agon nella vita quotidiana, non costituisce l’unica conseguenza della sua ascesa all’estremo: come la schiera di scrittori e letterati individuata da Caillois non cessa di mostrare, essa finisce per accompagnarsi a una nuova sensazione di vertigine, che afferra chiunque abbia saggiato o anche solo immaginato il corso iperbolico della guerra moderna. Così, dopo aver incluso entro i propri ranghi le forze dell’agon, la guerra si appresta ad avvalersi anche di quelle garantite dall’ilinx, secondo nuove e incalcolabili combinazioni in seno alle quali è la guerra stessa a dover mutare natura; è chiaro, infatti, «che la vertigine non può trovarsi associata alla rivalità regolata senza immediatamente snaturarla. La paralisi che l’ilinx provoca, come del resto il cieco furore che mette in moto in altri casi, costituiscono la negazione rigorosa di uno sforzo controllato». [19] Resta allora da chiedersi che cosa accada qualora la vertigine finisca per associarsi a una rivalità già spinta al suo estremo, a una competizione ormai compromessa con ben altri principi, come quella di cui la moderna guerra totale si è impadronita. A differenza di altri ambiti e forme del conflitto, dai quali sembra apparentemente bandita ogni compiacenza alla vertigine, qui essa, lungi dal venire combattuta come un ostacolo al proprio compito disciplinato, si rivela essere la risorsa più rapida per l’accesso a una nuova e più appropriata condizione, situata a metà strada tra il godimento estatico (nonché estetico) e una sovrana padronanza delle proprie azioni. È quella particolare forma di estasi a cui Jünger dedica le pagine centrali del suo La battaglia come esperienza interiore, un «tale entusiasmo da far ribollire il sangue nelle vene, da farlo spumeggiare nel cuore. È un’ebbrezza superiore a qualsiasi ebbrezza, uno scatenamento che spezza ogni vincolo», [20] che fuga ogni scrupolo e deride ogni esitazione di fronte al proprio compito omicida (essendo ogni accenno di distacco o di consapevolezza nei confronti della vertigine null'altro che altrettante concessioni all’esitazione, la quale «turba l’infallibilità ipnotica e compromette il funzionamento di un meccanismo la cui estrema precisione non consente dubbi né pentimenti» [21]). L’esperienza vertiginosa sembra essersi così installata al cuore stesso della competizione, decidendone a un tempo sia l’illimitatezza della posta in gioco, il carattere assoluto della lotta, sia l’altrettanto illimitata disponibilità dei suoi entusiasti sostenitori: esse sono tali che lo stesso termine “posta in gioco” sembra ormai inadeguato, avendo fagocitato ogni distinzione e ogni ambito della vita. Finendo insomma per sovrapporsi all’esistenza stessa.

4.
Numerose sono le pagine dedicate da Caillois all’intima connessione tra la moderna vertigine della guerra e il trionfo della totalità nazionale come nuova e imperante struttura collettiva; esse si dimostrano infatti sorrette da una medesima mitologia, si presentano entrambe come il più autentico dei destini, si alimentano degli stessi discorsi sacrificali, fanno esplicito richiamo a virtù e doveri perfettamente compatibili, tanto che all’inasprirsi della prima corrisponde giocoforza l’intensificazione della seconda. La questione posta da un simile legame non risiede solo nella complicità che ogni dimensione nazionale sembra intrattenere con una guerra tendenzialmente senza limiti. Qui si tratta, piuttosto, di indagare quel particolare utilizzo di cui la vertigine è passibile ogni qualvolta si è cercato di far marciare all’unisono milioni di individui. Certamente una tale marcia non nasconde le sue parentele con quell’altra forma di mobilitazione totale, più propriamente economica, che negli stessi anni ha dato origine ai moderni parchi dei divertimenti: una stessa tensione, una stessa ricerca sembra accomunare le due masse. Ma se in un caso la vertigine non era che una sensazione fugace, puntualmente separata dall’esistenza quotidiana, per gli entusiasti volontari della guerra, partiti per il fronte agli albori del Novecento, essa ha costituito per lunghi anni la sola atmosfera propriamente respirabile. Come è stato possibile tecnicizzare fino a questo punto la vertigine? Sottoporla a una vera e propria tecnica di produzione? Catturarne la particolare esperienza in vista di un preciso scopo? È forse questo l’obiettivo che ha animato i propagandisti all’alba della prima guerra mondiale, i quali hanno saputo intuire come non ci si potesse accontentare di conquistare alla causa della guerra la rivoluzione industriale e il suo potenziale produttivo, ma che ci fosse inoltre bisogno di un esercito a sua volta illimitato tanto nel numero quanto nelle ambizioni. Per porsi all’altezza della guerra a venire non sarebbe allora bastato l’incessante perfezionamento delle armi, né tanto meno l’arruolamento di massa; a questi si sarebbe dovuta aggiungere la tensione all’estremo di ogni singolo partecipante: «Ci vuole in più il fanatismo della nazione armata». [22]

E così, allo stabile monopolio della violenza fisica da parte dello Stato, impostosi in tutte le società occidentali, presto si accompagna il monopolio della vertigine e della sua passione, nelle differenti versioni nazionaliste proposte all’alba del Novecento. D’altra parte, lo stesso clima di militarizzazione della vita civile, che di lì a poco sarebbe sfociato nella Grande Guerra, mai avrebbe potuto assurgere a una simile estensione senza la presenza congiunta di una disciplina accuratamente organizzata dagli Stati europei nonché di una diffusa esaltazione della “nazione in armi”, ossia della mobilitazione volontaria e gloriosa a difesa della propria patria. [23] Cosa sarebbero, infatti, questi due monopoli, senza la loro efficace inscrizione entro un unico mito della Nazione, questa «creazione anonima che possiede forza coercitiva, e alla quale viene attribuita una certa credibilità»? [24] Come garantire altrimenti l’istituzione di un esercito all’altezza della guerra totale, se non offrendo la promessa di un’appartenenza, di un’appropriatezza e di una padronanza, per compensare e ricompensare la dedizione di ogni soldato verso il proprio ruolo, il quale «non consiste che nel tenere fino alla fine il proprio posto di minuscolo ingranaggio sostituibile in un immenso meccanismo in movimento». [25] Se, seguendo la proposta di Simmel, è possibile individuare la vertigine pienamente moderna nello scoprirsi a tutti gli effetti «ridotto ad una quantité négligeable, ad un granello di sabbia di fronte a un’organizzazione immensa di cose e di forze», [26] la macchina mitologica nazionalista sarà allora quella particolare macchina volta a contro-effettuare e recuperare tale sensazione ai fini del mantenimento di un’altra vertigine, quella di sentirsi parte di un nuovo sforzo collettivo — la guerra — volto a dare senso a questa immensità organizzata. È grazie ai suoi prodotti che la guerra diventa qualcosa in «più di un pauroso rimedio in cui le nazioni sono talora costrette a cercare la salvezza. È la loro ragione d’essere. Serve persino a definirle: la nazione è l’insieme degli uomini che fanno la guerra fianco a fianco» [27] — in altre parole: che «fanno della vertigine collettiva il punto culminante e aggregante dell’esistenza pubblica». [28]

È come se la rapida diffusione dei sogni di lotta e vittoria avesse trovato il proprio vettore di propagazione nell’esplicita promessa che l’attraversamento di una simile prova costituirà, tanto per il singolo che per la “sua” nazione, il cammino privilegiato per una trasfigurazione della vita quotidiana. Qui la marca nazionalista non è altro che la garanzia della qualità del prodotto esperienziale fruibile in seno alla guerra: come considerare altrimenti il catalogo discorsivo eterofobo con il quale, da un capo all’altro dell’Europa, si è provveduto ad animare le entusiastiche manifestazioni di sciovinismo, irredentismo, ultranazionalismo e revanchismo all’alba del primo conflitto mondiale? [29] Gli stessi discorsi che hanno contribuito alla produzione sistematica di quell’atmosfera nazionalizzata e satura di tensioni la quale ha comportato l’immersione di intere popolazioni in climi strategicamente elaborati. Per lunghi decenni, infatti, la macchina mitologica nazionalista è stata libera di secernere un’epica della marca e della merce politica al tempo della passione imperialista, tanto che numerosi furono gli scrittori, particolarmente sensibili all’atmosfera del tempo, che non tardarono a registrare nelle loro opere i primi effetti di una simile circolazione. Tra questi va certamente annoverato Ernst Toller, al tempo arruolatosi volontario, ma che pochi anni più tardi non si esimerà dal confessare: «Sì, viviamo in una specie di ebbrezza. Le parole Germania, patria, guerra hanno una potenza magica: quando le pronunciamo non si volatilizzano, ma rimangono nell’aria, girano su se stesse, s’infiammano e c’infiammano». [30] Nella moderna guerra di materiali, anche le parole divengono, quali accessori bellici dell’immaginazione umana, altrettanti combustibili in vista dello stordimento generalizzato...

Certo è possibile che, lungi dal costituirne la causa scatenante, la macchina mitologica nazionalista si sia limitata a tradurre in discorsi esaltati e accesi la specifica forza di attrazione — quasi una sorta di forza di gravità, scrive Caillois — che la guerra detiene nei confronti della società. E tuttavia la meticolosa costruzione di una mistica della guerra, l’elevazione di questa a grandioso destino e prova decisiva tanto dei singoli quanto delle nazioni, anche nel caso in cui non sia direttamente interessata a una sua messa a profitto, non potrebbero che tradire un gesto di abdicazione di fronte a questa nuova e tecnicizzata sensazione di vertigine. D’altra parte, nel 1943, proprio quando la guerra civile mondiale stava per giungere al suo parossismo, Caillois affida al breve testo Vertigini la più incisiva condanna verso ogni gesto di condiscendenza nei confronti della vertigine: «È proprio come se le cose, lasciate a se stesse, precipitassero verso la guerra; come se fosse sempre necessario opporre una resistenza per evitarla». [31] Come pensare allora un'etica della resistenza nei confronti della vertigine? Come opporsi alla sua seduzione, alla tentazione del proprio abbandono? Come introdurre uno scarto, un tratto, una qualche esitazione là dove un ritmo irresistibile sembra imporre il proprio movimento? Rispondere a simili questioni significa forse tentare un primo, timido gesto per dissodare quell'immaginario che ancora oggi non cessa di farci precipitare.


[1] Cfr. V. Codeluppi, Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, Milano 2000, p. 152; in particolare, sulla valorizzazione della vertigine nei parchi giochi, si rimanda alle pp. 151, 161 e 182.
[2] G. Berri, C. Hanau, L’esposizione mondiale del 1900 in Parigi, Vallardi, Milano 1900, p. 32.
[3] W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p. 566.
[4] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995, p. 36 (corsivo dell’autore).
[5] Ivi, p. 44.
[6] Ivi, p. 42.
[7] R. Caillois, I giochi e gli uomini, Bompiani, Milano 2004, p. 44.
[8] Ivi, p. 43.
[9] Cfr. ivi, p. 117.
[10] Ivi, p. 68.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 69.
[13] R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 48.
[14] Id., I giochi e gli uomini, cit., p. 61. Cfr. Id., “Gioco e sacro” [1949], in Id., L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 153: «Insomma, buon giocatore è chi è abbastanza equanime da non confondere gli ambiti del gioco e della vita».
[15] Id., I giochi e gli uomini, cit., p. 73.
[16] Ivi, p. 72.
[17] Ibidem.
[18] Id., La vertigine della guerra, casa di marrani, Brescia 2014, p. 107.
[19] Id., I giochi e gli uomini, cit., p. 90.
[20] E. Jünger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato 2014, p. 73. Cfr. inoltre ivi, pp. 103 e 119-121.
[21] R. Caillois, I giochi e gli uomini, cit., p. 161.
[22] Id., La vertigine della guerra, cit., p. 119.
[23] Cfr. ivi, pp. 153-160; E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008, pp. 106-134.
[24] R. Caillois, “Conversazione con Jeannine Worms”, Riga, n. 23, Marcos y Marcos, Milano 2004, p. 101.
[25] Id., La vertigine della guerra, cit., p. 138. Cfr. E. Jünger, La battaglia come esperienza interiore, cit., p. 105: «Le personalità si alternano impercettibilmente occupando un ruolo fisso».
[26] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 54.
[27] R. Caillois, Gioco e sacro, cit., p. 166.
[28] Ivi, p. 106.
[29] Per un’esaustiva rassegna di simili posizioni, in apparenza così diverse e tuttavia così speculari, perfino così sovrapponibili e compatibili tra loro, basterebbe consultare il recente lavoro di C. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2013. Nonostante un eccessivo interesse verso le singole responsabilità di tale o talaltro governo europeo, il lavoro di Clark presenta il pregio di mostrare la rapida propagazione e imposizione, sulla scala di un intero continente, del discorso nazionalista.
[30] E. Toller, Una giovinezza in Germania, Einaudi, Torino 1972, p. 58.
[31] R. Caillois, “Vertigini” [1943], in Id., La comunione dei forti, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 65. Vale la pensa segnalare che proprio in questo testo il sintagma «vertigine della guerra» fa la sua prima comparsa, quasi un decennio prima, dunque, del saggio omonimo.



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