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La lezione esistenzialista: Fabro e Kierkegaard
di Marco Strona

15 maggio 2014


L’aspetto principale di Kierkegaard su cui Fabro intende soffermarsi riguarda il paradosso del mistero dell’Incarnazione, per il quale è stato reso possibile l’incontro tra il tempo e l’eternità mediante il salto della fede espresso nel momento, nell’attimo della temporalità: questo Eterno è l’Eterno-nel-tempo; non è possibile incontrarlo al di fuori del tempo, e per avere accesso ad una relazione con l’Eterno, l’esistente, cioè l’uomo, deve mettergli a disposizione “tutto il proprio tempo, tutta la propria esistenza, istante per istante, rifuggendo non solo da ogni mito o ideologia, ma anche da ogni interiorizzazione che implichi l’astrarre dal proprio tempo”. [1]

Tutto questo ha delle conseguenze anche sul piano antropologico. L’incontro tra il tempo e l’Eternità, tra l’uomo e Dio, ha implicazioni che riguardano l’identità stessa dell’uomo, che deve sempre di più conformarsi al suo Modello: la vera identità dell’uomo, allora, è una costruzione sempre in fieri, e consiste in una relazione dialogica tra l’uomo e Dio, tra l’esistente e il Trascendente.

L’asse principale su cui ruota tutta la riflessione di Kierkegaard, e che Fabro intende proporre ai suoi contemporanei e al dibattito stesso filosofico-teologico, è perciò la figura di Cristo inteso come Modello e come dono: la nostra contemporaneità con Cristo consiste nell’assumerlo come Modello; è infatti nella tensione di Cristo come Modello che risiede la dialettica principale del «divenire cristiani».

La contemporaneità, quindi, può essere l’occasione per il discepolo, di ricevere da parte di Dio la fede e di vedere la magnificenza della creazione intera: la trascendenza di Dio, dunque, non resta sospesa e tanto meno eliminata nel dramma dell’abbassamento di Cristo (tema centrale dell’Esercizio del Cristianesimo), ne costituisce anzi lo sfondo di sostegno e di illuminazione, e rappresenta “la garanzia assoluta di Dio per la promessa della salvezza in Cristo con la grazia della sua Passione, ossia della sintesi salvifica di imitazione e grazia”. [2]

Da qui emerge l’importanza, anzi la necessità, delle opere intese come atti d’amore: nella sua lettura Fabro ama particolarmente evidenziare, in Kierkegaard, l’aspetto esistenziale della fede; “per avere la fede”, egli afferma, “occorre anzitutto un’esistenza, una determinazione esistenziale”. [3]

La caratteristica dell’esistenza, infatti, risulta essere quello dell’“implicazione della verità in una situazione” [4]: l’unica forma valida di comunicare la verità è quella di «esserci dentro», ovvero, di «presentarsi in carattere», secondo la nota formula Kierkegaardiana.

In quanto l’esistenza è movimento, come appunto rileva Kierkegaard, “vale il principio che c’è una continuità la quale unifica il movimento, altrimenti non c’è effettivamente nessun movimento. Come dire che tutto è vero significa che niente è vero, così il dire che tutto è movimento significa che non c’è movimento. L’immobile appartiene al movimento come termine del movimento, nel senso sia di telós come di mètron; altrimenti il principio che tutto è in movimento, se si vuole anche eliminare il tempo e dire che tutto è sempre movimento, è eo ipso l’affermazione dell’immobilità. Aristotele, che in tanti modi mette in risalto il movimento, dice perciò che Dio rimanendo immobile muove tutte le cose, mentre ora il pensiero puro sopprime senz’altro ogni movimento, oppure lo introduce in modo assurdo nella logica: la difficoltà per l’esistente è di dare all’esistenza la continuità, senza la quale tutto svanisce completamente”. [5]

La continuità del momento, prosegue Kierkegaard, è la passione, “la quale nello stesso tempo trattiene ed è l’impulso del movimento. L’eterno è la continuità del movimento, ma un’eternità astratta è fuori del movimento e un’eternità concreta nell’esistente è il maximum della passione. Ogni passione idealizzante è infatti l’anticipazione dell’eterno nell’esistenza per un esistente che deve esistere”. [6]

Questa attuazione dell’ideale rappresenta per Fabro “il richiamo dell’eternità nel tempo, così che la vita nel tempo è una «prova», un esame nella disciplina che è il diventare e l’essere cristiano” [7]: nel realismo cristiano di Kierkegaard, Fabro fa notare in quale modo Dio si faccia presente all’umanità in una Persona singola e in un certo momento della storia. L’uomo, infatti, riceva la verità da un Altro, dal Maestro “che deve dare al discepolo un nuovo (positivo) rapporto alla verità” [8]: l’Apostolo, perciò, “diventa apostolo per tutta l’eternità”. [9]

Ogni insegnamento umano presuppone la presenza di questa condizione per cui la presenza del maestri diviene per il discepolo decisiva, e il «momento», l’istante, assume un’importanza infinita, perché rappresenta il momento in cui Dio si comunica all’uomo, il momento d’incontro del tempo e dell’eternità e, quindi, “il punto di partenza per una coscienza eterna” [10]: Dio si fa così presente all’umanità in una Persona Singola, che è l’Uomo-Dio, e l’uomo si salva in Cristo come Singolo, “in quanto cioè ciascuno di noi fa la propria scelta davanti a Dio di conformarsi a Cristo mediante la fede e la grazia”. [11]

La «verità esistenziale», perciò, si fonda sull'Assoluto — inteso non come Dio dei filosofi, ma come il Dio cristiano, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe — ed esprime la tensione infinita per l’Infinito: testimoniare questo deve essere il compito quotidiano dell’uomo, il suo compito inesauribile, perché, come amava ripetere Fabro, ciò è un segno della pienezza di esigenza nel trascendimento verso l’Amore e il Bene. [12]

L’intento di Fabro, attraverso la sua lettura di Kierkegaard, è quello di contribuire a realizzare l’aspirazione dell’uomo essenziale di incontrare l’Infinito nel finito, l’eternità nel tempo, mediante la contemporaneità e la partecipazione dell’uomo con la Verità eterna apparsa nel tempo: questo varco è indicato nel momento, che diviene il kairós, il tempo opportuno, la porta che consente l’incontro decisivo del tempo con l’eternità; il “momento nel tempo”, come afferma Kierkegaard nelle Briciole di filosofia, “deve avere un’importanza decisiva, in modo che in nessun momento del tempo o dell’eternità io possa dimenticarlo, perché l’eternità, che prima non era, avrebbe cominciato ad essere in questo momento”. [13]

Il problema di fondo della contemporaneità, che è strettamente legato a quello della comunicazione della verità, in particolar modo della verità cristiana, è quello della conformazione al messaggio che si annuncia, e non semplicemente quello del suo annuncio: il Cristianesimo, secondo l’espressione del filosofo danese, non ha bisogno di professori ma di confessori, cioè di testimoni e di martiri.

È proprio questo che a parere di Fabro sembra costituire il nucleo attorno al quale si raccoglie tutta l’opera di Kierkegaard e che si esprime con il principio che la soggettività è la verità: la verità esistenziale è tale, quando essa è “«verità in me» ed io sono conformato ad essa”. [14]

Possiamo esplicare questo passaggio di Fabro mediante le parole della Postilla in cui Kierkegaard afferma che “l’esistente che sceglie il cammino dell’oggettività si sprofonda in tutta quella riflessione d’approssimazione che vuole esporre oggettivamente Dio, il quale in tutta l’eternità non può essere raggiunto, perché Dio è soggetto e quindi esiste solo per la soggettività nell’interiorità”. [15]

Si tratta, perciò, dell’incontro con la Verità che ogni uomo ha l’occasione di sperimentare, mediante la libertà, in tutte le circostanza dell’esistenza: quel che Johannes Climacus [16] ha di mira, osserva Fabro, è “l’equivoco della mistificazione dell’uomo da parte del pensiero moderno per aver volatizzato l’esistenza nell’essenza, il Singolo nell’universale, la serietà della decisione nella mediazione od anche per aver assorbito «dialetticamente» la qualità nella quantità” [17]: l’istante, perciò, viene a rappresentare il limite e insieme il punto di contatto del tempo e dell’eternità; esso, afferma Fabro, come la tangente della storia, “è l’unico assoluto di chiarificazione dell’essere in quanto l’eternità non è a noi direttamente accessibile”; [18] è, per dirla con Rigobello, “la gioia del sì situata temporalmente in quello squarcio di a-temporalità” [19] racchiuso nell’attimo.

Possiamo quindi concludere che il tema dell’autenticità e inautenticità della condizione umana risieda proprio nella decisione che l’uomo stesso prende ogni volta davanti a Dio; anzi possiamo dire che l’istante è l’occasione che Dio ci dona per manifestare la Sua misericordia e che attende una nostra risposta: grazie a questo momento, il discepolo diviene un uomo nuovo, un uomo con una qualità nuova si è convertito perché “gli è stato conferito da Dio un movimento nuovo, non di fuggire dalla verità, ma di andarle incontro e riceverla”. [20]

Questi costituiscono, a mio avviso, gli elementi che ci consentono di delineare il percorso capace di poter dare un nuovo senso di umanesimo che, a partire dalla questione antropologica, sappia tradursi anche in impegno per l’edificazione del Bene Comune: un umanesimo come impegno cui “ogni uomo, in una misura o in un’altra, in un modo o in un altro, in quanto uomo, non può sottrarsi senza diminuire o perdere il senso del proprio essere uomo”. [21]

Se, come detto, l’esistenza infatti caratterizza in maniera autentica grazie al peculiare rapporto dell’uomo con Dio, essa, in particolare, si attesta in un giudizio di fatto che consiste in “un quid semplice e indivisibile, come l’affermazione e la negazione di realtà”. [22]

Pensare l’esistenza in abstracto e sub specie aeterni equivale a sopprimerla nella sua essenza: l’esistenza, quindi, “non può essere pensata senza movimento, e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni”; [23] non esige perciò un lungo dimostrare ma si impone in un «piccolo Momento»”. [24]

Questa è perciò la vera dialettica Kierkegaardiana, la dialettica «qualitativa»: essa consiste nell’essere antitetica alla dialettica hegeliana nel cammino che l’esistenza deve percorrere per elevarsi a Dio; indica, cioè, “l’attuarsi in elevazione all’Assoluto della libertà nel ritorno al suo fondamento e scopo o tèlos supremo, che in senso cristiano è il salvarsi dalla perditio saeculi mediante la remissione dei peccati e la conformità con Cristo”. [25]

Nel suo momento speculativo, in particolare, questa dialettica si contrappone a quella hegeliana, definita da Fabro come «quantitativa», rivendicando “l’opposizione-distinzione di essere e pensiero sul piano metafisico e quella di pensare e volere sul piano esistenziale” [26]: la dialettica «qualitativa» intende quindi contrapporsi alla dialettica «quantitativa» della storia idealistica, concepita, come vedremo tra poco, come il Tutto, come “lo sviluppo necessario della Idea e pertanto come tessuto di rapporti necessari e realizzazione di istituzioni che si articolano e si saldano nell’unità del sistema”. [27]

La dialettica qualitativa, dunque, rappresenta il cammino che occorre compiere all’uomo per diventare veramente se stesso, in conformità con la novità del Nuovo Testamento: essa, come attesta lo stesso Fabro, ha perciò il significato di una “rivendicazione della responsabilità della libertà”. [28]

La tematica di un umanismo rinnovato, di un nuovo umanesimo, è molto cara a Cornelio Fabro, soprattutto per mostrare quale sia la vera natura dell’uomo, e quindi quanto profonda sia l’essenza della sua stessa libertà. Tutto ciò, ovviamente, ha delle conseguenza anche sul piano etico-sociale che però non affronteremo direttamente in questo lavoro, ma su cui sarebbe utile poter riflettere.

Giunti a questo punto possiamo osservare come la filosofia di Kierkegaard esprima per Cornelio Fabro un orientamento spirituale rigoroso e radicale: un orizzonte teoretico che situa al centro l’irriducibilità dell’esistenza, un fondamento teoretico che pone in relazione dialettica essere e libertà.

Questa libertà l’uomo la può sperimentare e vivere pienamente solo all’interno dell’esistenza: sono le tante piccole scelte che è chiamato a compiere che ci fanno comprendere come anche l’etica non può essere una sfera autonoma, ma rimanda sempre all’Assoluto, a Dio, e che si ottiene con un «salto».

Non vi è dubbio, pertanto, che il momento etico costituisce per Fabro il nodo e la chiave dell’esplorazione della struttura dell’esistenza nella riflessione di Kierkegaard, che continuamente cerca di opporre alla dialettica formale e astratta della mediazione, la dialettica «doppia» o reduplicazione (Fordoblelse) che consiste nell’appropriazione della verità nell’esistenza ovvero l’esistere del Singolo in ciò che pensa o decide davanti a Dio e a Cristo : è la dialettica della libertà che “si fa storia di se stessa e può tanto liberare che legare se stessa”. [29]

La soggettività costitutiva dell’Io, osserva ancora Fabro, non è quella del conoscere, ma quella dell’agire: nel conoscere, infatti, “l’uomo resta nel campo oggettivo delle essenze, ossia delle possibilità (Mulighed, secondo la terminologia Kierkegaardiana), mentre con l’agire essa si trova cioè «passa» nel campo della «realtà».” [30]

Quest’ultima è perciò “l effettiva soggettività”, che non può passare ed esaurirsi nell’oggettività formale, cioè universale, ma, osserva Fabro, “si sprofonda sempre più in se stessa, ossia nell’attuazione della propria libertà che ha per soggetto non il pensiero puro, non la Sostanza unica, non la Ragione assoluta o lo Spirito assoluto che sfociano nel panteismo, ma il Singolo, che è ogni singolo in quanto soggetto di responsabilità della propria libertà”. [31]

È la realtà dell’esistere che rappresenta il supremo interesse per il soggetto esistente; l’esistenza, infatti, ha sempre un fine, un tèlos. Ma il pensiero puro, prosegue Fabro, “senza alcun rapporto con un soggetto esistente”, [32] intende spiegare tutta la realtà “all’interno di se stesso e ciò rende impossibile ogni spiegazione di ciò di cui in realtà si tratta”. [33] Nella sfera del «pensiero puro», astratto, non c’è possibilità di fare esperienza della libertà da parte del soggetto: anzi, il pensiero puro spiega l’esistenza all’interno di se stesso “e così confonde ogni cosa perché l’esistenza, lo scoglio contro cui il pensiero puro deve fare naufragio, essendo stata volatilizzata, si trova assorbita all’interno del pensiero puro e così tutto ciò che si potrebbe dire dell’esistenza è bell’e spacciato”. [34]

Il passaggio, quindi, dalla possibilità alla realtà è un movimento che non è possibile esprimere né comprendere all’interno del linguaggio dell’astrazione, “poiché questa precisamente non può dare al movimento né spazio né tempo che presuppongono il movimento” [35]: c’è allora un «salto» da compiere.

Il tema dell’esistenza è stato, possiamo dire, il leitmotiv di molte correnti della storia del pensiero del ‘900: in particolare dell’esistenzialismo, o meglio della filosofia dell’esistenza, la cui paternità sembra essere attribuita proprio a Kierkegaard.

L’incontro di Cornelio Fabro con questa corrente di pensiero, e quindi con la filosofia di Kierkegaard, avviene nell’arco di tempo che va dagli 1940 agli anni ’60 circa. [36] Tale evento — che per alcuni, soprattutto neo-tomisti, poteva apparire scandaloso — è stato in realtà molto proficuo: in particolare ha permesso a Fabro, e quindi al cattolicesimo, l’incontro e la possibilità della valorizzazione di alcuni aspetti fondamentali della modernità, come ad esempio il tema della libertà.

Nei testi dedicati all’Esistenzialismo Fabro si impegna in un confronto aperto, senza pregiudizi, tra la scuola tomista e la nuova corrente di pensiero che, a partire dagli anni Venti e Trenta si era imposta in Germania e in Francia. I problemi esistenziali, sottolinea Fabro, “hanno un senso ben definito che si riferisce direttamente allo sviluppo della filosofia moderna di cui ha rappresentato la fase più critica ed acuta: essi riguardano direttamente il movimento della libertà come contenuto dell’essere dell’uomo, e le categorie esistenziali sono gli atteggiamenti dell’essere come libertà”. [37]

L’Esistenzialismo, in particolare, si interessa di quello che può dirsi il “dinamismo dello spirito” [38] ed ha sentito a più riprese e lo ha espresso con efficacia, “il bisogno di «toccare» l’essere, di stringerlo, di muoverlo e di muoversi in esso senza mai uscirne, di realizzarlo — od almeno di tentare di realizzarlo — come «pienezza» compiuta e beatificante” [39]: l’essere di cui si occupa l’Esistenzialismo, a differenza della metafisica classica, è “l’essere di secondo grado, l’essere in quanto è mosso dallo spirito e s’intreccia con lo sviluppo dello spirito”. [40]

L’Esistenzialismo, perciò, viene ad aprire, per il filosofo friulano, un campo nuovo che rappresenta il momento critico della modernità, cioè il momento in cui l’essere si manifesta come libertà.

Fabro porterà avanti per il resto della sua vita questo tema, dell’essere come libertà, proprio perché riconosce la profonda novità dell’Esistenzialismo, una novità non riducibile alla lezione della Scolastica che richiede, per essere compresa, una differenziazione tra ontologia prima e ontologia seconda.

La lezione esistenzialista, ovvero la concezione per cui l’essere è libertà, provoca Fabro “ad un ripensamento dell’ontologia tomista in una forma che, senza minimamente incrinare il quadro tradizionale, permette, però, di valorizzarne l’apporto originale”. [41] Il valore dell’Esistenzialismo, e quindi anche della filosofia di Kierkegaard, consiste nell’opporsi all’Idealismo, in quanto quest’ultimo rappresenta “la conclusione del processo di disumanizzazione del Razionalismo moderno, di quell’ipertrofia della ragione che ha soffocato e ucciso la libertà dell’uomo, e prima nelle teorie filosofiche che nella prassi politica degli Stati totalitari”. [42]

È proprio questo ritorno all’originario che pone in crisi “il quadro del razionalismo moderno unilateralmente determinato prima del cogito”. [43]

Il problema del cominciament indica questa esigenza “della riduzione fondamentale al momento indivisibile costitutivo dell’incontro della coscienza con l’essere” [44]: l’esistenza, cioè, assume un carattere pre-riflessivo perché rinvia all’immediatezza di quanto è dato nell’esperienza, nella sua apertura all’essere.

L’Esistenzialismo viene letto perciò da Fabro, soprattutto mediante l’opera di Kierkegaard, come il momento critico dell’intero pensiero moderno dimentico dell’equazione tra essere e libertà: Fabro, quindi, rilegge questa nuova corrente di pensiero “non solo come paziente della crisi del razionalismo moderno ma, altresì, come momento di riscoperta essenziale, negata dal razionalismo medesimo e dimenticata, in buona misura, anche dalla tradizione del pensiero cristiano, cioè quella dell’identità tra essere e libertà”. [45]

Per questo motivo tale filosofia intende, innanzitutto, opporsi alla ragione assoluta dell’Idealismo e considerare l’esistente sempre come “un singolo che attua nel tempo la sua libertà” [46]: l’Esistenzialismo, prosegue, “rivendica un inizio nuovo irriducibile ai sistemi precedenti ed è precisamente l’esistenza come libertà, ed un metodo nuovo cioè la dialettica di questa libertà finita nel tempo”. [47]

Esso intende chiarificare l’essere come tale, “ma a differenza del realismo cosmico dei Greci e del realismo teologico della scolastica, ripiega su un realismo dello spirito finito nella sua situazione del suo essere nel mondo e di comunione fra i molti singoli”. [48]

L’Esistenzialismo quindi, al posto della formula «moderna» cogito ergo sum, sostituisce quella del sum ergo cogito: “il fondamento è l’essere e il cogitare, come il velle, amare e tutte le altre funzioni del soggetto singolo, scaturiscono e rimandano all’essere”. [49] Con questo non si vuole negare le essenze delle cose e dell’uomo, ma affermare che “l’essere e il divenire dell’essere non si possono senz’altro derivare dal contenuto di una definizione quando l’essere in questione è l’essere dell’uomo il cui divenire è progetto e atto di libertà che sfugge a ogni anticipazione o deduzione astratta”. [50] Tali conclusioni sono state ispirate da Fabro mediante la lettura dell’opera di Kierkegaard che, in questo senso, è stato un vero maestro per lui in questo.

L’aspetto che più interessa a Fabro, a proposito dell’opera Kierkegaardiana, riguarda il fatto che l’essere del singolo che non può venire ricondotto ad un predicato comune e indifferente, “ma è originariamente qualificato come «essere dell’uomo», inderivabile a parte ante, insolubile a parte post”. [51]

Con Kierkegaard, Cornelio Fabro rilegge per la prima volta la lezione esistenzialista, non come la corrente alternativa al moderno, ma come “l’intuizione più profonda che sta dietro la stessa affermazione moderna” [52]: come attesta lo stesso filosofo italiano, “l’incontro fra l’atto tomistico dell’esse e l’atto moderno dell’autocoscienza, è il preciso compito di un tomismo consapevole”. [53]

L’esistente, rispetto all’esse, appare qualcosa di fondato: il pensiero, dunque, è rivolto sempre verso l’Altro, è “appetenza dell’Altro”; [54] il pensiero, cioè, è orientato all’essere “come l’occhio alla luce”. [55] Per comprendere pienamente l’esistente occorre quindi prima intendere l’esse, “il Sein dell’esistente” [56]: il punto di partenza di questo nuovo tipo di filosofare risiede perciò nella “problematicità radicale di tutto l’esistente rispetto all’essere”; [57] si tratta, in definitiva, di stabilire con esattezza i rapporti tra l’essere e l’esistente, il singolo. La conoscenza dell’essere, specifica Fabro, è legata alla concretezza dei singoli caratteri individuali e, al contempo, “in ogni pensiero di oggetti particolari è implicito il concetto confuso dell’ente in generale”. [58]

Ed è proprio il Singolo, l’individuo concreto «in carne ed ossa» che è al centro della riflessione fabriana e Kierkegaardiana: il Singolo però non inteso come una monade isolata, ma in costante riferimento a Dio. Questo, come vedremo meglio, è il cuore e l’anima della libertà.

L’essere, quindi, non può mai concepirsi senza il riferimento immediato al concreto esistente, all’esistenza dell’uomo, e in questo senso Cornelio Fabro è stato uno dei pochi, insieme a Gilson, ad essere riusciti a mostrare l’originalità della metafisica di Tommaso nel suo nucleo fondamentale quale l’actus essendi. [59]

L’essentia e l’actus essendi, in Fabro, non hanno significati indipendenti e perfettamente separabili: non si può, quindi, comprendere un’essenza se non in relazione all’esistenza, o come possibile se l’essenza è considerata in astratto, o come reale se l’essenza è considerata come realizzata di fatto in natura. Rileva Fabro che: “l’essere puro per sé sussistente, non è per noi oggetto di semplice apprehensio o intuizione, ma è una conclusione alla quale arriviamo dopo laboriosi ragionamenti, checché abbiano voluto dire gli ontologi, e questo per le condizioni particolari del nostro modo di conoscere che è finito e legato alla sensibilità”. [60]

L’insistenza e la chiarificazione di questo concetto serve a Fabro per rispondere alla domanda intorno all’essere: l’essere, afferma, “è l’atto che fugge ogni concetto; è trascendentalizzante rispetto all’ente […] è l’atto di presenza dell’ente per cui s’illumina nella coscienza la verità dell’ente e dei suoi contenuti e concetti”. [61] L’essere risiede perciò nel fondo stesso della realtà dell’ente e al fondo della possibilità del conoscere: questo per diversi motivi.

Innanzitutto, dichiara Fabro, “perché l’ente è concepito come il soggetto portatore dell’essere e soprattutto perché l’essenza del conoscere è quella di illuminare l’ente nell’essere, riportando l’ente all’essere”. [62] È soltanto in questo “ritorno” o “processo regressivo” che si può avere l’esperienza metafisica dell’essere: non si tratta, quindi, “di un’esperienza privilegiata che si appella ad un contenuto o atto particolare, a un cogito, a un volo, a un existo […] L’essere — prosegue Fabro — mentre fonda e attesta la realtà dell’ente, ne denunzia il limite e pone la negatività del limite. Così l’essere, attestandosi nella sua trascendentalità, pone la trascendenza”. [63]

Ciò che intende comunicare Fabro è che l’esperienza dell’essere attesta sempre “il suo trascendere rispetto all’ente, la sua inesauribilità che nientifica ogni particolarità dell’ente: l’esperienza dell’essere si risolve quindi nella esperienza dell’apertura illimitata dello spirito”. [64]

Ecco il motivo per cui la filosofia dell’esistenza, come Fabro stesso afferma, può dirsi benissimo “l’ultima «forma» del pensiero occidentale”. [65] E usa dichiaratamente il termine forma, e non quello di sistema proprio perché l’esistenzialismo “è sorto in opposizione aperta al sistema” [66]: il sistema, infatti, si ritiene essere onnicomprensivo, “vuol spiegare tutto e non conosce residui, assimila, schematizza le cose più disparate, subordina il reale all’ideale, la vita alla contemplazione”. [67] Il sistema, cioè, non tocca la vita, non condivide le sorti precarie della realtà, non sperimenta l’angoscia, il dolore e nemmeno la speranza; la realtà che si sperimenta nella vita è molto più complessa, “è rottura, eccezione, si fa strada per urti ed opposizioni”. [68]

L’esistenzialismo, in opposizione all’idealismo, intende essere una filosofia che s’ immedesima con le vicende stesse della vita. L’esperienza dell’essere mostra, infatti, “l’insufficienza dell’ente e muove lo spirito finito a trascenderlo: è proprio in questo andare «all’essere senza predicati» che tanto la metafisica come la mistica hanno posto il compimento della vita”. [69]

Cornelio Fabro insiste particolarmente su questo punto, e lo fa mediante la ripresa di un passaggio della Postilla di Kierkegaard che egli traduce in questo modo: “Che un pensatore astratto dimostri la sua esistenza per via del pensiero, è una strana contraddizione, poiché nella misura in cui egli pensa astrattamente, egli fa astrazione precisamente dal fatto che esiste. Più si sviluppa, più il pensiero tende a diminuire la sfera dell’esistenza. Se il pensiero riuscisse a realizzarsi completamente, l’esistenza del pensatore sarebbe assorbita in esso ed egli cesserebbe di esistere”. [70]

In questo senso, l’unica esperienza forte è quella dell’essere, da intendere come “l’apertura positiva dell’esistente finito, che è l’uomo, verso l’Assoluto: l’esperienza di tale apertura orientata verso l’Assoluto è il vertice più alto in cui la coscienza finita può prospettare e invocare la presenza dell’Essere senza predicati”. [71]

Per l’esistenzialismo — contrariamente all’Idealismo che risolveva il singolo nella “nella sostanza indifferente del Tutto” [72] — il centro di ogni riflessione è e deve essere l’uomo, l’uomo concreto in «carne ed ossa», il Singolo, a partire da cui ha inizio ogni riflessione sulla realtà.

La prima «realtà reale», infatti, è per Kierkegaard l’individuo; e se il Singolo, a volte, può presentare aspetti contraddittori, significa che la contraddizione e il paradosso sono la struttura stessa della realtà: ecco allora che per Fabro l’esistenza non si definisce, “non si trova né si comunica per concetti”; [73] l’esistenza è ciò che il singolo trova “e prova vivendo nella «sfera di essere» che gli compete”. [74]

A questo proposito è significativo per Fabro riprendere quello che Kierkegaard scrive nel suo Diario: “Che la «realtà» non si lasci comprendere, l’ha già dimostrato esattamente Jo. Climacus in un modo molto semplice. Comprendere è risolvere la realtà in possibilità: ma allora è impossibile comprenderla, perché comprenderla è trasformarla in possibilità, quindi non mantenerla come realtà. Rispetto alla realtà, il comprendere è un regresso, è un passo indietro, non un progresso. Non però nel senso che la «realtà» sia senza concetto: il concetto che si trova quando la si comprende, risolvendola in possibilità, è anche nella realtà. Ma nella realtà vi è un di più – cioè il fatto che esso concetto è realtà. Il passaggio dalla possibilità alla realtà è un progresso (eccetto per quel che riguarda il male): quello dalla realtà alla possibilità un regresso. Ma questa sciagurata filosofia moderna ha fatto entrare la «realtà» nella Logica; e poi, per distrazione, si dimentica che la «realtà» nella Logica non è che «realtà pensata», cioè possibilità”. [75] E ancora: “Ciò che confonde tutta la dottrina sulla «essenza» nella logica (riferimento a Hegel), è il non badare che si opera sempre con il «concetto» di esistenza. Ma il concetto di esistenza è un’idealità, e la difficoltà sta appunto nel vedere se l’esistenza si risolva in concetti. Se fosse così, allora Spinoza potrebbe avere ragione nel suo: «essentia involvit existentiam», cioè il concetto di esistenza, vale a dire l’esistenza ideale. Ma d’altra parte anche Kant ha ragione quando afferma che dal concetto di esistenza non scaturisce nessuna nuova determinazione di contenuto. Kant, è chiaro, pensa onestamente all’esistenza come non coincidente col concetto, cioè pensa ad un’esistenza empirica. Soprattutto nell’ambito dell’ideale vale il principio che l’essenza è l’esistenza — se è permesso di usare qui il concetto di esistenza. La tesi leibniziana: Se Dio è possibile, è necessario — è giustissima. Ad un concetto non si aggiunge nulla in più, sia che esso abbia o non abbia l’esistenza: nulla importa al concetto di questo; perché esso ha ben l’esistenza, cioè esistenza di concetto, esistenza ideale. Ma l’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al singolo (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo, l’esistenza (l’essere o non essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo Singolo non ha certo un’esistenza concettuale. Il modo col quale la filosofia moderna parla dell’esistenza, mostra ch’essa non crede all’immortalità personale; la filosofia in generale non crede, essa comprende solo l’eternità dei «concetti»”. [76]

Ecco come, allora, l’oggetto di questo filosofare concreto sia proprio “l’essere dell’esistente”, [77] cioè l’uomo stesso con i suoi talenti ed i suoi limiti, con le sue paure e le sue speranza: la filosofia dell’esistenza, volgendosi all’essere dell’esistente inteso come «possibilità» e non alla sua idea astratta, si propone di comprendere l’uomo stesso inserito — e questa è la novità metafisica di Fabro — in un contesto ontologico partecipativo.

La concezione dell’essere che Fabro riprende da Kierkegaard si qualifica precisamente nell’esistenza stessa dell’uomo: è il soggetto, che, in quanto esistente, si trova nella verità, “e la verità è in funzione della «scelta» che l’uomo fa, se sceglie l’Infinito o resta nel finito”. [78]

Ogni conoscere essenziale, quindi, concerne l’esistenza; anzi solo il conoscere che si rapporta esistenzialmente all’esistenza è conoscere essenziale. Il conoscere che secondo la riflessione dell’interiorità interiorizzantesi non concerne l’esistenza “è essenzialmente un conoscere accidentale, il suo grado e ambito è essenzialmente indifferente [...] Soltanto la conoscenza etico-religiosa è perciò conoscenza essenziale. Ma ogni conoscenza etico-religiosa si rapporta essenzialmente a questo che l’esistente esiste”. [79]

Il significato dell’essere, la sua verità, costituisce l’unico fondamento della metafisica: Kierkegaard e Heidegger, in questo senso, hanno rivendicato l’originalità costitutiva dell’essere per la coscienza perché è solo in virtù dell’essere “che l’uomo trascende nell’infinito essere”, secondo l’insegnamento di Kierkegaard. Questo, come vedremo, sarà compito anche della libertà umana. Per Kierkegaard «essere spirito» significa “essere se stessi di fronte a Dio in quanto si è impegnati in una decisione con passione infinita. «Essere se stessi» è venire in contrasto col «numero» e con la temporalità. «Decidere» è dare testimonianza della propria individualità spirituale. La «passione infinita» indica la trascendenza propria della libertà”. [80]

La categoria della libertà è quella che definisce lo statuto ontologico dell’esistenza, perlomeno dell’esistenza in quanto espressione della condizione dell’uomo relativa al suo essere nel mondo. In Kierkegaard il primato dell’esistenza assume su di sé la responsabilità della scelta etica e del salto della fede. La soggettività è infatti per Kierkegaard, che per questo non può in nessun modo essere ricondotto a nessuna delle varie forme del soggettivismo moderno, sempre connessa alla questione della oggettività della verità.

Il pensiero dunque non può mai astrarre dalla vita, dalla realtà, dall’Io perché ogni singolo è una “individualità spirituale, sintesi di finito e Infinito che non si rapporta all’Infinito «mediante» la natura fisica che è fuori di lui, né mediante la storia universale del genere umano, ma si può volgere a Dio per se stesso” [81]: Iddio, anzi, “deve entrare in ogni pensiero, anche il più nascosto, in ogni sentimento anche il più segreto, in ogni movimento anche il più intimo”.

La caratteristica dell’esistenza risulta quindi essere quello dell’ implicazione della verità «in situazione», all’interno cioè della stessa esperienza quotidiana: l’unica forma valida di comunicare la verità è proprio quella di “esserci dentro, ovvero, di presentarsi in carattere”, [82] secondo la nota formula Kierkegaardiana. Il significato di questa affermazione — la soggettività è la verità — sta però agli antipodi del soggettivismo gnoseologico del pensiero moderno: è, anzi, un soggettivismo inteso come “consapevolezza dell’attuarsi (scelta) della libertà della persona”; [83] indica, perciò, la soggettività come impegno supremo della libertà.

Risulta chiaro quello che Fabro vuole trasmetterci, mediante le parole di Kierkegaard: “la via della riflessione oggettiva “trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale, e quindi riduce l’esistenza a qualcosa di indifferente, di evanescente: allontanandosi dalla soggetto, si finisce nella verità oggettiva e mentre il soggetto e la soggettività diventano indifferenti, lo diventa anche la verità, ed è questa precisamente la sua validità oggettiva, perché l’interesse si trova, come la decisione, nella soggettività”. [84]

L’ontologia moderna ha preteso di “introdurre il movimento nella logica” [85] e di legger la vita con gli occhiali della logica senza accorgersi, come fa notare Fabro, che la logica astrae dall’esistenza perché l’essenza dei rapporti logici “è l’«inclusione» necessaria del predicato nel soggetto e la «continuità» necessaria fra i momenti del processo logico”. [86]

Riassumendo brevemente quanto detto finora, occorre sottolineare il notevole interesse di Fabro per l’antropologia Kierkegaardiana, la quale delinea una concezione dell’uomo nel suo costante rapporto a Dio: partendo dalla questione del paradosso — in particolare del paradosso assoluto — Fabro traccia una linea di sviluppo dell’antropologia che riesce a far incontrare e dialogare il Cristianesimo e la modernità.


[1] U. Regina, Kierkegaard. L’arte dell’esistere, Morcelliana, Brescia 2005, p. 131.
[2] S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1993 p. 236.
[3] C. Fabro, “Cristologia Kierkegaardiana”, in L’Osservatore Romano, 16 settembre 1971; ristampato in Divinitas, XVI, 1, 1971, p. 143.
[4] C. Fabro, “La “comunicazione della verità nel pensiero di Kierkegaard”, in Id., Dall’essere all’esistente, Marietti, Genova-Milano 2004, p. 233.
[5] S. Kierkegaard, Postilla Conclusiva non scientifica, in Opere, p. 430. Corsivi miei.
[6] Ibidem.
[7] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo, Studium, Roma 1971, p. 41.
[8] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, Zanichelli, Bologna 1962, p. 16.
[9] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Atti dell’Amore, Bompiani, Milano 2003, p. 55.
[10] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Briciole, cit., p. 16.
[11] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Scritti sulla comunicazione, Logos, Roma 1982, p. 11.
[12] Gli esempi di questa comunicazione sono, secondo Fabro, Socrate e Cristo: Socrate per quanto riguarda la verità naturale, cioè all’infuori della rivelazione, Cristo per ciò che concerne la verità soprannaturale. L’antitesi che si oppone a questi modelli è, da una parte, la filosofia cosiddetta astratta che dissolve l’esistenza nell’essenza “e ignora il Singolo «davanti a Dio»” (C. Fabro, “La «comunicazione della verità» nel pensiero di Kierkegaard”, in Id., Dall’essere all’esistente, Marietti, Genova-Milano 2004, p. 234), e dall’altra “il predicatore della cristianità che si limita a fare il suo sermone domenicale senza impegnarsi per suo conto nella realtà cristiana e senza impegnare in esso il suo uditorio, suscitando l’ammirazione di sé invece di spingere all’Imitazione di Cristo”(Ibidem).
[13] S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, cit., p. 206.
[14] Ibidem.
[15] S. Kierkegaard, Postilla, cit., p. 366.
[16] Lo pseudonimo utilizzato da Kierkegaard ricorda, come fa notare Fabro, il mistico Giovanni Climaco, che nella sua opera, la Scala Paradisi, descrive “i gradini necessari per salire al Cielo”. Kierkegaard utilizza questo nome in opposizione a Hegel che ha preteso con il suo metodo estremamente razionale, “di scalare la vetta dell’Assoluto”.
[17] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Briciole, cit., p. 6.
[18] C. Fabro, L’Assoluto nell’esistenzialismo, Miano, Catania 1953, p. 38.
[19] A. Rigobello, Prossimità e ulteriorità. Una ricerca ontologica per una filosofia prima, Rubettino, Soveria-Mannelli 2009, p. 90. Come afferma lo stesso Kierkegaard nell’Esercizio del Cristianesimo: “In rapporto all’Assoluto non c’è infatti che un solo tempo: il presente; per colui che non è contemporaneo con l’Assoluto, l’Assoluto non esiste affatto. E poiché Cristo è l’Assoluto, è facile vedere che rispetto a lui è possibile solo una situazione: quella della contemporaneità”. S. Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo, cit., p. 724-725.
[20] C. Fabro, “Introduzione”, in S. Kierkegaard, Briciole, cit., p. 6.
[21] G. Lazzati, La città dell’uomo, Ave, Roma 1984, p. 15.
[22] C. Fabro, “Le prove dell’esistenza di Dio in Kierkegaard”, in Humanitas, XVII, 1962, p. 106.
[23] C. Fabro, Il problema della fede, La Scuola, Brescia 1978, p. 119.
[24] C. Fabro, “Le prove dell’esistenza di Dio in Kierkegaard”, cit., p. 107.
[25] C. Fabro, “La dialettica qualitativa della libertà in S. Kierkegaard”, in Id., Riflessioni sulla libertà, Maggioli, Rimini 1983, p. 231.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, pp. 231-232.
[28] Ivi, p. 232.
[29] C. Fabro, “La dialettica della situazione nell’etica di S. Kierkegaard”, in Riflessioni sulla libertà, cit., p. 162.
[30] C. Fabro, “La libertà umana e l’eternità dell’inferno in Sören Kierkegaard”, in Ecclesia Mater, IX, 3, 1971, p. 311.
[31] Ibidem.
[32] C. Fabro, Il problema della fede, cit., p. 121.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, cit., p. 290.
[36] Si veda, tra i numerosi saggi dedicati all’argomento, in particolare C. Fabro, “La filosofia dell’esistenza”, «Divus Thomas» n. 45, Piacenza (1942), 452-454; Id. “Rassegna sull’esistenzialismo italiano”, «Divus Thomas» n. 46, (1943); Id., “Esistenzialismo e Realismo”, «Acta Pont. Acad. S. Thomae Aquinatis», IX (1944), 242-26; Id., Introduzione all’esistenzialismo, Vita e Pensiero, Milano 1943; Id., Problemi dell’esistenzialismo, AVE, Roma 1945.
[37] C. Fabro, “Cronache dell’Esistenzialismo”, in E. Fontana (a cura di), Fabro e l’Esistenzialismo, Edivi, Segni 2010, p. 69.
[38] Ibidem.
[39] C. Fabro, Introduzione all’esistenzialismo, Edivi, Segni 2009 (Prima ed. Milano 1943), p. 10. La difficoltà consiste nel fatto che fino a questo momento, specialmente con l’Idealismo, l’essere veniva subordinato al pensiero: in questo modo, però , non era mai possibile cogliere l’essere in quanto essere, ma qualche altra cosa, al massimo un “pensiero dell’essere”.
[40] C. Fabro, Cronache dell’Esistenzialismo, cit., p. 69.
[41] M. Borghesi, “Esistenza e libertà in Fabro”, in A. Acerbi (a cura di), Crisi e destino della filosofia, Studi su Cornelio Fabro, EDUSC, Roma 2011, p. 107.
[42] C. Fabro, “Significato dell’Esistenzialismo” (1947), in E. Fontana (a cura di), Fabro e l’Esistenzialismo, p. 120.
[43] M. Borghesi, Esistenza e libertà in Fabro, cit., p. 109.
[44] C. Fabro, “Breve discorso sull’essere”, in Id. Tomismo e pensiero moderno P.U.L., Roma 1969, p. 365.
[45] M. Borghesi, Esistenza e libertà in Fabro, cit., p. 110.
[46] C. Fabro, “L’Assoluto nel Tomismo e nell’Esistenzialismo” (1951), in E. Fontana (a cura di), Fabro e l’Esistenzialismo, cit., p. 138.
[47] Ibidem.
[48] Ibidem.
[49] C. Fabro, “L’Assoluto nel Tomismo e nell’Esistenzialismo”, cit., p. 139.
[50] Ibidem.
[51] C. Fabro, Introduzione all’Esistenzialismo, cit., p. 16.
[52] M. Borghesi, Esistenza e libertà in Fabro, cit., p. 113.
[53] C. Fabro, “S. Tommaso e il pensiero moderno”, in Id., Tomismo e pensiero moderno, P.U.L., Roma 1969, p. 433.
[54] C. Fabro, Introduzione all’esistenzialismo, cit., p. 101.
[55] Ibidem.
[56] C. Fabro, Introduzione all’esistenzialismo, cit., p. 17.
[57] Ibidem.
[58] C. Fabro, Introduzione all’esistenzialismo, cit., p. 101. Tali formule esprimono in un certo senso un paradosso: il concetto di ente, cioè, che si presenta come il più astratto tra i vari concetti, “è l’unico che «nel significare» si riferisca all’esercizio dell’essere; e siccome l’essere in esercizio non si ha che nell’individuo reale, così è a questo immediatamente che termina il riferimento intenzionale del concetto di ente”. Nell’aristotelismo tomista, ci ricorda Fabro, sono considerati enti reali o sostanza “solo gli individui, per cui la conoscenza dell’individuo ed il contatto con l’individuo è indispensabile alla conoscenza ed al contatto con l’ente com’è in sé, come «veramente è»”. Ivi, p. 103.
[59] Per un confronto tra Fabro e Gilson sul concetto di actus essendi si rimanda in particolare ai seguenti testi: A. Robiglio, “Gilson e Fabro: appunti per un confronto”, «Divus Thomas» 1997; M. Paolini Paoletti, “Conoscere l’essere. Fabro, Gilson e la conoscenza dell’actus essendi”, in A. Acerbi (a cura di), Crisi e destino della filosofia. Studi su Cornelio Fabro, EDUSC, Roma, 2012; L. Romera, Pensar el ser. Anàlisis del conocimiento del Actus Essendi segùn C. Fabro, Peter Lang, Bern, Berlin, Frankfurt, New York, Paris, Wien 1994.
[60] C. Fabro, La nozione metafisica di Partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, Edivi, Segni 2005, 188. Si rimanda anche al testo di C. Fabro, Partecipazione e Causalità, Edivi, Segni 2010.
[61] C. Fabro, Dall’essere all’esistente, cit., p. 64.
[62] Ivi, p. 56.
[63] Ibidem.
[64] Ibidem.
[65] C. Fabro, Problemi dell’esistenzialismo, Edivi, Segni 2009, p. 7.
[66] Ibidem.
[67] Ibidem.
[68] Ibidem.
[69] Fabro, Dall’essere all’esistente, cit., p. 56.
[70] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, cit., p. 260.
[71] C. Fabro, Dall’essere all’esistente, cit., p. 56.
[72] C. Fabro, Problemi dell’esistenzialismo, cit., p. 8.
[73] Ivi, p. 9.
[74] Ibidem.
[75] S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1948-1950, n°2802, vol. VII.
[76] S. Kierkegaard, Diario, cit., n°2729, vol. VII.
[77] C. Fabro, Problemi dell’esistenzialismo, cit., p. 9.
[78] C. Fabro, L’Assoluto nell’Esistenzialismo, Edivi, Segni 2010, p. 100.
[79] S. Kierkegaard, Postilla, cit., p. 254.
[80] C. Fabro, L’Assoluto nell’Esistenzialismo, cit., p. 109.
[81] C. Fabro, Il problema della fede, La Scuola, Brescia 1978, tav. XXIV.
[82] C. Fabro, “La «comunicazione della verità» nel pensiero di Kierkegaard”, in id., Dall’essere all’esistente, Marietti, Genova-Milano 2004, p. 233.
[83] C. Fabro, “Introduzione” in S. Kierkegaard, Opere, cit., tav. XLIV.
[84] Ivi, 362-363.
[85] Ibidem.
[86] Ibidem.

Cornelio Fabro (sul tavolo la foto di santa Gemma Galgani)



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