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Drôle de guerre
Il paradosso del pacifismo e l’etica come arma politica

di Marco Baldino

9 febbario 2015 - 25 gennaio 2017



I. Il paradosso del pacifismo

Se la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero, il ripudio della guerra “senza se e senza ma”, è certamente una posizione non filosofica e meta-culturale, non potrà cioè fare da guida a nessuna considerazione ‘filosofica’ riguardo al nostro presente, così intensamente attraversato dalla guerra: chi vuole la guerra? Nessuno. Chi fa la guerra? Tutti. Il nostro presente è così pieno di guerra che negarla sembra implicare una sorta di auto-accecamento.

“Proprio tempo” non significa la contingenza di un tempo slegato dal suo passato, ma forma abbreviata e sintetica dell’intero passato o abbreviazione del passato nella forma contratta del presente. La meraviglia del presente è, per la coscienza europea, che questo tempo è pieno di guerra e lo stupore della coscienza europea per essere essa stessa in guerra è parte integrante del problema. Tale parte ha nome “pacifismo integrale” e il suo significato è quello di essere una reazione risentita alla scoperta che tale tempo non è conforme alle aspettative di questa coscienza e deve quindi essere nuovamente fluidificato.

La storia è attraversata dalla guerra perché le autocoscienze, i desideri umani, atropogeni, lottano per l’autonomia, ovvero per non dover rispondere che a sé, dinanzi a chi deve invece rispondere sempre e solo ad altri. Si tratta di qualcosa come una dialettica tra ‘maggiorità’ e ‘minorità’. Emanciparsi dalla condizione di minorità è una necessità che nessun pacifismo può negare, perché non si può, in coscienza, respingere l’aspirazione emancipativa in nome della pace (e questa è già una notevole contraddizione): l’emancipazione supera cioè eticamente la ripulsa della guerra.

Infatti non si può ammettere che, in nome della pace, un soggetto accetti di rimanere prigioniero del suo stato di minorità, nel momento stesso in cui, invece, ne sta prendendo coscienza. Questo perché l’emancipazione dallo stato di minorità è una presa sulle proprie spalle del proprio destino, che è un destino di morte: «Nell’angoscia mortale l’uomo prende coscienza della sua realtà, del valore che ha per lui il semplice fatto di vivere: e soltanto così egli si rende conto della “serietà” dell’esistenza» [1] — laddove chi vive nella piena tutela d’altri, senza dover mettere in gioco la propria vita, è, appunto, quel che si dice un ‘minore’.

La dialettica delle autonomie è ciò che chiamiamo “sviluppo storico” o il suo motore. In questo contesto liberarsi o emanciparsi, significa non dover più rispondere ad altri, ma ciò significa anche riconoscere il proprio destino di morte. E tale riconoscimento è possibile solo attraverso un confronto in cui si mette in gioco la propria vita. Questa è una prima considerazione. La seconda è che limitare o espungere il rischio di guerra dalla “scena umana” è un problema post-storico.

Se il ricorso alla guerra è espungibile, lo è alla sola condizione che la dialettica delle autonomie sia compiuta. Compreso che la maggiorità è sapere il proprio destino di morte, l’emancipazione dal proprio stato di minorità può divenire un puro gioco sociale, per esempio una dialettica tra ‘maggior-età’ e ‘minor-età’, solo se il desiderio scompare, solo se l’uomo è già tutto nel passato. Ma la tacitazione del desiderio o la sua riduzione a “gioco sociale”, può darsi solo se il negativo proprio dell’uomo, può essere a sua volta ridotto a manifestazione inoperosa, incapace cioè di intaccare l’equilibrio esistente che, per tanto, deve potersi concepire come globalmente stabile, cioè non accrescibile, non suscettibile di assumere ulteriori configurazioni.

Solo questo scenario può contemplare l’estinzione della guerra, e questo cozza in tutta evidenza con la pretesa di limitare la guerra attraverso un ripudio etico o attraverso una esotica ripulsa dell’inquietudine. Il minore non espungerà la guerra rovesciando semplicemente i rapporti di forza, misurandosi sul terreno del maggiore, ma modificando il significato della Weltanschauung, imperniandola, per esempio, sul concetto di virtù — così è accaduto duemila anni fa e più. Oppure portando ad effetto una rivoluzione che libera il lavoro dalla sua immagine servile — anche questo fa parte del passato già dato. Nessuno di questi tre metodi (confronto a morte, stoicismo, rivoluzione sociale) ci salverà dalla guerra. Ci vuol altro. Ci vuole anzitutto una comprensione stratificata e sintetica di ciò che chiamiamo ‘presente’, della ‘novità’ che rappresenta. Ebbene, nessuna petizione di principio etico potrà fornirci, essendo questa nient’altro che una posizione già occorsa, e quindi semplicemente morta, una visione sufficientemente ampia del problema. Oppure, questa stessa petizione è già una minaccia di guerra.


II. Una nuova arma politica

Nell’ottica dello storicismo politico, per il quale, «contrariamente a quanto sostiene la teoria filosofico-giuridica […]. La guerra non è mai scongiurata» [2], la politica è una caleidoscopica variazione di stati d’equilibrio, un gioco e uno scontro di forze. La politica qui non vuole costruire niente, non si serve di idealità se non per farne delle armi, non è dell’ordine della civilisation, bensì dell’ordine del corpo, delle pulsioni, dello scontro, della divisione, della partigianeria; è un gioco che divide, che punta al trionfo di un’architettura partigiana, oppure punta ad impedire che una certa architettura ci governi in questo modo, fino a questo punto: dominare, non lasciarsi dominare, stringere alleanze, affermarsi, battersi, inventare astuzie, nascondersi, ecc.. La tecnica dialogica tradizionale, quella socratica per intenderci, non è un criterio sufficiente di verità — non basta aver ragione discutendo, allo storicismo occorre la verifica storica. Non c’è discorso che possa dirsi vero se non dopo la prova, extra-categoriale, del ferro e del fuoco. Ebbene, è proprio lo storicismo politico che ci permette di affermare che la prassi è sempre prassi politica, anche quando manda avanti l’etica.

Mandare avanti l’etica, non è che un modo di fare politica, un agire di parte che utilizza il mezzo della filosofia, cioè l’argomento universale, per affermare un punto di vista particolare. Si dice: le nostre proposizioni sono universali, quindi sono impegnative per tutti, anche per voi; tali proposizioni non affermano un ‘particolare’ (il nostro), ma il ‘generale’, al quale voi dovete necessariamente sottomettervi, altrimenti sarà chiaro a tutti che siete dediti al male, che volete il male della comunità, della società, dell’umanità, che siete dei reprobi, che siete una minaccia per il corpo sociale o, almeno, per la democrazia. Insomma, l’etica, proprio in quanto utilizza l’argomento universale, rischia di cadere preda della categoria foucaultiana del “razzismo di stato”.

Di recente un filosofo italiano — una filosofa, per la precisione — ha scritto: «C’è un diffuso equivoco, insieme profondo e interessato, insieme filosofico e morale... È la confusione, o l’interessata identificazione, di radicalità etica e radicalismo politico... Vale a dire: non ci sono ragioni se non di parte. L’etica è politica, e la politica è lotta. E l’equivoco dov’è? Chiunque prenda posizione in materia morale è parziale, e dunque a priori semicieco e arbitrario, nel migliore dei casi da assoggettare subito a par condicio… Si esclude [cioè] che si possa agire o parlare, in materia morale, per altre ragioni che l’interesse di parte, o addirittura l’auto-interesse, e si seppellisce l’atto o il detto che aspirano ad essere adempimento del proprio dovere, o richiamo al dovere di ognuno, sotto l’accusa di estremismo politico». [3]

Ebbene, dopo il naufragio della grande partigianeria rappresentata dal marxismo degli anni Sessanta e Settanta, partigianeria organizzata in ideologia, la quale, come diceva Hannah Arendt, è la logica totalmente realizzata di un ideale che consente di spiegare il movimento della storia come un movimento unico e coerente [4] — nei nostri termini: una grande macchina di occultamento destinata a legittimare una volontà (partigiana) di compimento totale — ha fatto seguito, come sappiamo, un decennio dall’andamento dolce e enigmatico, che nei suoi inizi fu interpretato come “movimento di riflusso” e poi sommariamente liquidato come ‘postmoderno’. Con l’inizio dell’età berlusconiana, blocchi della sinistra intellettuale, privi di quella grande copertura ideologica che loro stessi hanno contribuito a dissolvere, tenta di appropriarsi una nuova arma, sostitutiva della vecchia ideologia: l’etica. Questa si è presentata dapprima sotto la veste di un’adesione morale al potere giudiziario, pensato come garante dello stato di diritto, dell’unità nazionale e delle conquiste della Resistenza, salvo non prendere atto che ciò costituiva un’iranizzazione della società italiana, una liquidazione del repubblicanesimo, un’apertura al dispotismo (e qui mi riferisco proprio alle categorie kantiane di forma imperii e forma regiminis rese celebri dal Progetto di una pace perpetua), poi, sempre più chiaramente, come un tentativo di subordinare il politico all’etica.

Direi che se c’è un equivoco diffuso, profondo e interessato, filosofico e morale, è la gerarchizzazione, artatamente supposta, tra radicalità etica e agire politico. Allo storicismo politico, che vedeva con chiarezza feroce che non ci sono ragioni se non di parte, si sostituisce una sorta di tomismo politico che afferma, con candida mistificazione, che il bene comune graviterebbe sull’etica piuttosto che sulla complessità dei rapporti sociali, che le prese di posizione in materia morale esprimerebbero doveri che vincolano tutto il corpo sociale e che il mancato rispetto di tali doveri mette automaticamente fuori dal corpo sociale, genera cioè eresia.

L’equivoco diffuso, se c’è, è pertanto questa sapiente mendacia che occulta il fatto che la radicalità etica altro non è se non una forma di radicalismo politico. La politica non è lotta — si dice — non è ‘guerra’, ma un parlare insieme per la realizzazione di comuni progetti, i quali, svolgendosi sotto la supervisione della coscienza etica, di cui i professori di filosofia garantiscono la fondatezza, fanno trionfare una parte sotto le vesti di un trionfo della legge universale.

È così che una certa intellettualità ha tentato la scalata al cielo, ha tentato la Repubblica platonica. Ci si batte per la difesa della scienza (universale), per le ragioni della ragione (universale), per lo spirito della comunità, solo che in cielo, invece di incontrare la redenzione della politica dalla ‘guerra’, ha incontrato la possibilità di un argomento capace di squalificare interi blocchi del corpo sociale, di indicarli al ludibrio, di auspicarne il rogo, la disinfestazione, la soppressione come agenti patogeni. Ha incontrato la possibilità di un arma partigiana che, attivando una sorta di razzismo sociale, giustificato per mezzo di un racconto filosofico, degrada al livello di reiezione una parte della società, in nome della difesa della società. Niente di più deleuziano, si potrebbe dire: si tratta sempre di «di cercare nuove armi» [5] e, allo stesso tempo, niente di più foucaultiano: si tratta sempre di mostrare come certe pratiche filosofiche non abbiano altro scopo che far funzionare una lotta, uno scontro, i prodromi di una guerra. [6]

[1] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G. F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, p. 38.
[2] M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra della razze al razzismo di stato, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Ponte alle grazie, Firenze 1990, p. 44. Più oltre Foucault spiega che lo “storicismo politico” non è nient’altro che «questa appartenenza reciproca e insuperabile, della guerra e della storia» [p. 116] e che il platonismo, «ossia l’idea secondo cui il sapere e la verità non possono non appartenere al regime dell’ordine e della pace», è ciò che intende e insiste per instaurarsi proprio sulla base dell’esclusione di questo storicismo politico. [cfr. Ibidem]
[3] Roberta De Monticelli, “L’equivoco dei nostri giorni”, Phenomenology Lab, 1 dicembre 2010, http://www.phenomenologylab.eu/index.php/2010/11/la-questione-morale/, commenti a “Se chi vota centrodestra è trattato da criminale. Recensione di Marcello Veneziani al libro di Roberta De Monticelli, La questione morale”.
[4] Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Comunità, Milano p. 642.
[5] G. Deleuze, Pourparler, tr. it. di S. Verdiccio, Quadlibet, Macerata 2000, p. 235.
[6] M. Foucault, Op. cit..



Battaglia di Isso, mosaico romano 100 a.C. ca, museo archeologico, Napoli

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