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Remo Bodei e la ricerca del Limite.
Nell’epoca della hybris ipermoderna e della dismisura

di Roberto Fai


8 aprile 2016



È con la Modernità che ha preso corpo un’idea di natura, radicalmente opposta a quella ‘classica’, greca. È tra Rinascimento e ’600 che viene, infatti, affermandosi l’idea della natura come un oggetto che sta di fronte a noi, un Gegenstand, pura fatticità, che in quanto tale può essere trattata come prodotto, analizzata, e infine utilizzata dall’osservatore — dal soggetto: altra categoria moderna! — che occupa il punto centrale e dominante di questo universo. È il punto di vista di quest’osservatore a regolare e governare l’universo degli oggetti che gli si presentano innanzi come fatticità, res extensa: appunto, l’idea cartesiana della natura! Mai avrebbe potuto un “greco” pensare/tradurre l’idea di natura, di phisis, in res extensa, in natura naturata, perché, per lui, la natura era già da sempre ‘salva’, eterno germogliare: phisis sovrana e, pertanto, imprevedibile. Infinita produttività, permanente germogliare e “emersione” (fisis, appunto, come nella radice indoeuropea fio traduce, infatti, emergere) di carattere divino.

Così come anche il cristianesimo ha contribuito nel determinare un’ulteriore, radicale differenza rispetto alla concezione ‘classica’ della natura, anticipando così quello sguardo prospettico dell’osservatore ‘moderno’ che saprà inquadrare e dominare la natura, inscrivendo il nostro rapporto con la natura nei termini e nella dimensione dell’uti e non del frui: dell’utilizzare e non del fruire. Solo con Dio possiamo stare nella relazione di beatitudine disinteressata; alla natura e al suo incessante divenire e oltrepassare possiamo invece accostarci nei termini dell’uti: in ciò aprendo la strada a quel tipicamente moderno “impiego” della natura da parte della ‘tecnica’ — natura come fondo manipolabile-calcolabile, a nostra piena disposizione. È attraverso questi canoni e vettori che la moderna scienza della natura potrà così trovare il proprio fondamento nell’esercizio e affermazione incessante e permanente sperimentazione sulle cose: segno, anche inevitabile, di quella metafisica volontà di potenza che Nietzsche proverà a esprimere, nella sua Genealogia della morale, offrendo l’immagine di un’incessante e interminabile vocazione del nostro stesso agire — “umano, troppo umano” —, tracotante nei confronti della natura: «Hybris — scrive Nietzsche — è oggi tutta la nostra posizione nei confronti della natura, la nostra violenza sulla natura per mezzo delle macchine e della inventività così incapace di pensiero di tecnici e ingegneri; hybris è la nostra posizione nei confronti di Dio….; hybris è la nostra posizione nei confronti di noi stessi, poiché compiamo esperimenti su di noi, che non ci saremmo mai permessi con alcun animale…. Noi oggi facciamo violenza su noi stessi, non c’è dubbio, noi schiaccianoci dell’anima…».

Non a caso, nei primi decenni del Novecento, sarà Oswald Spengler a esprimere con straordinaria lucidità questo mutato rapporto, questa inedita stimmung, affermando che «non possiamo guardare una cascata senza trasformarla mentalmente in energia elettrica»: quasi a sancire come la percezione estetica — gratuita e inutile — della natura (espressione di pura bellezza), abbia destinalmente lasciato il posto al sopravanzante “occhio” che sa meditare sull’impiego tecnico, calcolante, della phisis. D’altra parte, lo stesso Heidegger, nella sua riflessione sul tema dell’abbandono (Gelassenheit), in questi termini aveva provato a condensare l’immagine del mondo che il ’900 esprimerà nella sua compiutezza: «Ora il mondo appare come un oggetto, nei cui confronti il pensiero calcolante mette in opera i propri assalti. La natura diventa un unico gigantesco serbatoio, la fonte di energia per la tecnica moderna e per l’industria. Questa relazione fondamentalmente tecnica dell’uomo nei confronti del mondo intero sorse dapprima nel secolo XVII, in Europa e soltanto in Europa».

Sino a sancire quel processo che avrebbe visto la tecnica “istallarsi” o impiantarsi, nel ’900, come il campo dominante di ogni manifestazione sociale: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra» — così Heidegger nella famosa intervista del 1976, pubblicata postuma, e non a caso intitolata “Ormai solo un Dio ci può salvare”: espressione cui ricorre lo stesso Heidegger, rispondendo ad una domanda dell’intervistatore. Questo ci ha detto Heidegger: che la tecnica compie il destino nichilistico della metafisica proprio attraverso la rimozione della finitezza: l’uomo tecnologico vive così, sicuro di sé, nel senza fondo dell’oblio della propria finitezza. E se l’orizzonte dei suoi pensieri non è più la terra, che egli abita tra nascita e morte, perché la terra è stata inghiottita dalla logica della produzione e del consumo e ridotta, come l’uomo stesso, a materiale d’impiego, l’uomo non potrà essere in grado di intravedere la possibilità reale di un “altro pensiero”, che sappia cogliere l’essenza della tecnica. Se l’homo technologicus concepisce il mondo come ciò di cui i “soggetti” dispongono, dunque come il grande oggetto di ogni manipolazione, piuttosto che come “l’altro” a cui rispondere delle nostre decisioni in quanto “quest’altro” ne prestabilisce i limiti inoltrepassabili, ciò significa che non sapremo abbandonare la certezza illusoria di trovare nella tecnica lo strumento per avere il mondo nelle nostre mani.

Se non si tratta di procedere oltre la tecnica, né contro di essa, ma di corrispondere alla sua essenza — proviamo a seguire le indicazioni di Heidegger —, come farlo, dal momento che la tecnica si pone oggi come l’illimite, come qualcosa che si erge di fronte a noi come una necessità, come una potenza indipendente dalla nostra stessa volontà? È possibile fermare, o dove si arresta questa inesorabile tensione all’illimite che sembra connotare il nostro tempo? Oppure, nella radicale cesura che il Moderno ha inaugurato nel rapporto tra natura e tecnica, corpo e artificialità, rispetto all’epoca classica, segnando il dominio e “l’autonomia” delle seconde sulle prime, è forse possibile per noi appellarci a quella sentenza eschilea secondo cui, «la tecne è senza forza rispetto ad Ananke»? In questo caso, sarebbe come dire che vi è, si dà, dentro la natura, un suo dispositivo invariante davanti al quale, alla fine, tutte le “tecnai” umane non possono riprodursi pienamente e autonomamente da sole, inciampando e facendo attrito in quella “necessità” (Ananke) che è inscritta nei codici naturali. A meno di immaginare che la soluzione, o la prospettiva possano risiedere, lontani da ogni illusione profetica — come giustamente non può che essere la filosofia —, nel fatto che il nostro agire possa e sappia reggere “l’urto” di questa sfida, affidandosi a quel blochiano principio speranza, che lo stesso Heidegger, rinnovando la domanda di Hölderlin, provava a formulare in questi termini: «….lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva».

Sta di fatto che, oggi, nel “tempo della tecnica” planetaria dominante e pervasiva, le nostre domande e le nostre inquietudini si sono fatte più radicali, anche perché siamo consapevoli che l’azione dell’uomo — il nostro agire —, sganciata da ogni fondamento assoluto o arché, si è resa più libera e, per ciò stesso, tremenda, inquietante. Tale condizione evoca prometeicamente quel deinon — “perturbante”, “tremendo”, “inquietante” — dell’uomo, su cui, nello stasimo dell’Antigone, andava interrogandosi Sofocle, affermando con straordinaria lucidità e consapevolezza profetica che «… di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge». È tale la crescita, non solo dell’apparato scientifico-tecnologico a nostra disposizione, ma anche della capacità di modificare la natura attraverso un processo di quasi totale “tecnicizzazione” e di riproducibilità artificiale, che l’enorme estendersi della sfera di ciò che possiamo fare sembra diventare sempre più indipendente dall’uomo e dalla sua volontà. La tecnica da mezzo è diventata fine essa stessa, come va ripetendo spesso Emanuele Severino.

Ma, al tempo stesso, è la stessa pervasività della tecnica ad alimentare questa inedita sensibilità. Infatti, le straordinarie innovazioni della scienza contemporanea (dalla scoperta del genoma umano alla mappatura del Dna, dall’uso dei brevetti nelle applicazioni scientifiche alle nuove tecniche di riproduzione-fecondazione assistita, al tema delle banche dati e della intrusione nella privacy nell’epoca del panopticon globale, grazie al controllo di ogni forma di comunicazione e visibilità delle sfere soggettive) producono oramai un effetto diretto sugli orientamenti culturali, nella sfera soggettiva e sulle pratiche sociali, determinando una pervasiva circolarità tra tecnica, legislazione, politica, religione e visioni del mondo, causando profondi conflitti ideologici, culturali ed etico-giuridici, che hanno ad oggetto il tema del limite o della illimitatezza, di fronte alle straordinarie opportunità/possibilità derivanti dalle inedite condizioni tecno-scientifiche.

Basti pensare al confronto serrato sulla determinazione dello stesso statuto della natura umana proprio nel tempo in cui la “tecnica”, le biotecnologie, sembrano poter “tagliare” e attraversare la “vita” sin dal suo originarsi “naturalistico”, mettendo a frutto le ipotesi della sua stessa totale riproducibilità tecnica. Oppure, se pensiamo anche ai nuovi strumenti e forme di comunicazione virtuale — con internet e i social —, con le conseguenti implicazioni di carattere antropologico e comportamentale. Si coglie, in altri termini, come davvero la vita e il corpo costituiscano la vera posta in gioco della politica contemporanea: relazione talmente inestricabile da alimentare quel dispositivo categoriale riassumibile nella nozione/concetto di “biopolitica” che, nel suo doppio, contrastante versante — o d’inclusione del bios dentro logiche e dispositivi di dominio-potere, o di “infinita apertura” della vita, dal momento che il campo di “normatività” che affiora dalla soglia che lega “l’invariante biologico” alla dimensione tecnico-artificiale della stessa è in grado di spostare in avanti la “giuntura organica” che connota il vivente, sì da espandere/trasformare la “natura umana” —, costituisce il cuore del conflitto politico del nostro tempo. Sino al punto da lasciar configurare una biopolitica affermativa, vale a dire l’idea di far prevalere una possibilità normativa (giuridica, legislativa) così come affiora dalla vita stessa: non già, una politica sulla vita, bensì una politica della vita stessa. Solo così, le plurali “forme di vita” possono esperire la loro autonomia, liberate da ogni sovrastante ed ‘esterno’ interdetto giuridico-normativo.

Quanto sopra delineato, costituisce lo sfondo speculativo e la cornice concettuale più pertinente per presentare e recensire l’agile e denso volumetto, Limite (collana “Parole controtempo”, Il Mulino, Bologna, 2016) che Remo Bodei ha recentemente dato alle stampe. Come di consueto, la scrittura di Bodei — insieme al quadro speculativo e al blocco d’idee che compone il libro — riesce pienamente nel suo intento: offrire a tutti noi una pregnante e ricca “cassetta degli attrezzi”, sì da consentire di sottrarci a quella pervasiva condizione — ampia e generalizzata — di spaesatezza etica, culturale e politica che scandisce e pervade il nostro tempo. Peraltro, ci è parso più opportuno affrontare in modo — se possiamo dire così — “laterale” il saggio di Bodei, piuttosto che ricorrere al classico registro di citare passi e luoghi del libro, lasciando così al lettore la suggestione di inoltrarsi dentro la fitta e ricca selva di rimandi filosofici e metaforici che scandiscono le appena cento pagine — esclusi i riferimenti bibliografici — che l’autore sa comporre con consueta sapienza e straordinaria competenza. Da Aristotele alle neuroscienze, da Leopardi a Nietzsche, dalla scoperta del Nuovo Mondo all’attuale globalizzazione, dal conflitto tra le generazioni a Dostoevskij, da Giordano Bruno alla biopolitica — solo per citare pochi rimandi tematici —, l’agile volumetto di Bodei si sottrae a ogni intento normativo-prescrittivo, accompagnando il lettore nell’intrico di temi e questioni che intersecano la nostra esistenza dilemmatica, lasciandogli il compito di saper corrispondere (e assumere su di sé) a quell’etica della responsabilità, nel tempo in cui la sua diretta antagonista — l’etica della convinzione — sembra irrigidirsi nell’assolutezza di quell’esasperazione individualistica e frammentaria che, non riconoscendo altro da sé, sembra costituire la cifra della nostra epoca.


Roberto Fai, Dottore di ricerca in “Profili della Cittadinanza nella costruzione dell’Europa” e “Teoria e prassi della regolazione sociale nell’U.E.”, collabora con la Cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Catania. Già Presidente del Collegio siciliano di Filosofia, ha ideato e tuttora promuove il Premio di Filosofia “Viaggio a Siracusa”. Ha curato, con Pietro Barcellona e Fabio Ciaramelli, il volume Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità (Dedalo 2007) ed è autore dei volumi Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire (Mimesis, 2009) e Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità (Mimesis, 2013).




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