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Cose che si sperano, cose che si vedono
Ebrei 11,1. Secondo Lutero

di Emanuele Angeleri

2 dicembre 2017


«Dubbio e fede si corrispondono reciprocamente e si contrappongono in forma complementare. Chi non ha mai dubitato non ha nemmeno rettamente creduto».
— Hermann Hesse


1. Fiducia, credenza, appartenenza

Il termine fede che ci accingiamo ad analizzare è quello arrivatoci attraverso il cristianesimo con la parola greca πíστισ (pístis), che è stata tradotta in latino con fides, da cui deriva il corrispondente termine italiano fede. Avvertiamo subito che il vocabolo greco e quello latino, rimontando entrambi a radice indoeuropea, sono parenti stretti sul piano etimologico, in quanto connessi alla radice greca πεíθειν (“persuadere, convincere”), e si corrispondono quasi perfettamente. Nell’ebraico biblico, viceversa, un corrispondente esatto della parola fede, come intesa dai cristiani oggi, non compare. La parola più vicina è אמונה (‘emunàh), che però significa “fermezza, costanza, fiducia” e anche “fedeltà” , [1] concetti abbastanza differenti da come modernamente si intende la parola fede. In realtà l’uso di πíστισ nel NT non è sempre lo stesso: negli Evangeli è diverso da quello che se ne fa nelle Epistole. Negli Evangeli fede significa spesso “fiducia”, ossia “credere” e “aver fiducia” in qualcuno o qualche cosa: εí ἔχετε πíστιν ὠϛ κόκκον σινάπεωϛ («Se aveste fede [fiducia] come un granel di senape…» — Lc 17,6) con un significato non molto lontano dall’ebraico אמונה (‘emunàh). [2]

Qui noi vogliamo soltanto far vedere come il concetto di fede, quale ancor oggi è inteso, sia di derivazione paolina e sia un’estensione particolare che la Chiesa primitiva ha effettuato del concetto di πíστισ. I primi cristiani, per la maggior parte ebrei che si volevano distinguere dagli altri ebrei in quanto davano credito a Gesù, asserivano di aver fede (fiducia) nelle sue parole. Via via che l’identità cristiana si andava affermando, credere (aver fiducia) in Cristo andò acquistando un significato sempre più preciso: credere nella sua risurrezione, nei miracoli a lui attribuiti, che fosse il figlio di Dio, una persona della Trinità eccetera; un insieme di credenze definitivamente stabilite nel Credo (Simbolo niceno, 325 E.V.). Avere fede voleva dire una cosa ben precisa. Chi non aveva fede, chi non credeva, era di fatto un infedele. Per essere salvati e per godere della vita eterna conditio sine qua non fu credere ossia aver fede in Cristo e in tutto quello che ne conseguiva.

Come è noto il discorso si allargò ai Gentili, per i quali il segno di appartenenza visibile fu il battesimo e l’insieme delle credenze cui aderire. Per l’ebreo che non intendeva aderire al cristianesimo il problema della fede in senso cristiano ovviamente non si poneva. Uno nasceva ebreo, veniva segnato con la circoncisione e non doveva aderire a nessun nuovo codice religioso. Era ebreo di fatto e doveva soltanto conformarsi a quelle credenze cui da sempre avevano aderito gli Ebrei. Naturalmente l’insieme delle credenze che il cristiano doveva accettare costituivano una novità e potevano creare qualche difficoltà: non è facile credere nella risurrezione della carne, credere che Dio si è incarnato ed è venuto in terra, credere nella Trinità, credere che la morte è stata sconfitta… e dunque a quell’insieme di credenze si chiedeva che il cristiano aderisse per fede. Che cosa volesse dire aderire per fede non è affatto ovvio e quindi un chiarimento si rendeva necessario. L’apostolo Paolo, o chi per lui, [3] rendendosi conto del problema, sentì la necessità di far chiarezza proprio agli Ebrei su che cosa esattamente si dovesse intendere con la parola fede e scrisse la seguente definizione, che riportiamo come appare nella moderna versione della Riveduta: «Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono» (Eb 11,1). Questa definizione, analizzata da vicino, lascia, a dire il vero, abbastanza insoddisfatti. La fede sarebbe un qualcosa che trasforma una speranza (un desiderio fiducioso, la cui realizzazione è per definizione incerta) in certezza dimostrando (ossia dando prova razionale di) cose invisibili (ossia ultrasensoriali e dunque da collocare nel regno dell’intuizione, se non addirittura dell’immaginazione). Torneremo più avanti su questa definizione paolina di fede per esaminarla più attentamente. Qui ci preme fissare l’attenzione su ciò che la nuova religione, che stava nascendo dall’ebraismo, introduceva rispetto alla tradizionale religione ebraica. Per essere ebreo bastava nascere ebrei, essere circoncisi ed entrare nell’alveo della disciplina tradizionale dell’ebraismo (osservanza dei comandamenti e delle usanze rituali trasmesse dai padri); per essere cristiano occorreva invece distinguersi e fare preventivamente un atto di fede, col quale il richiedente dichiarava di accettare le credenze della nuova religione di cui dava testimonianza con il battesimo, segno pubblico della sua conversione.

Col passare del tempo il rituale si modificò con l’introduzione del battesimo dei bambini — che di fatto per i genitori cristiani divenne obbligatorio — per mezzo del quale il nascituro diventava automaticamente cristiano senza ovviamente, trattandosi di infante, dovere o potere fare nessuna dichiarazione di fede. Con questa variante la nuova religione cercava di imitare l’ebraismo, marcando i cristiani fin dalla nascita con un segno ben preciso, sostitutivo della circoncisione, con ciò trasformando l’appartenenza al cristianesimo in un’appartenenza a un nuovo particolare popolo, che si distingueva non per il “sangue” (razza) ma per la “credenza” (adesione a un corpo di dottrine). Rispetto all’ebraismo il cristianesimo ebbe il vantaggio di presentarsi come “gruppo aperto”: si entrava nel nuovo popolo volontariamente e l’acquisizione si trasmetteva con il semplice atto del battesimo. Inoltre il nuovo popolo era di tipo molto speciale, diremmo un super-popolo, non caratterizzabile in termini biologici, ma in termini di appartenenza ideale per semplice adesione a un complesso di credenze sintetizzate nella formula ben precisa del Credo. L’appartenenza al nuovo popolo, secondo la dottrina appositamente elaborata, ricalcava l’appartenenza biologica, nel senso che una volta ricevuto il battesimo l’individuo veniva inserito nel “gruppo” in aeternum, non potendo cancellare questa sua acquisizione in nessun modo. Si appartiene al nuovo popolo dei cristiani per sempre, come per sempre l’individuo appartiene al popolo da cui discende biologicamente. [4] Per conseguenza un cristiano così identificato, ove rifiuti le credenze cristiane, viene indicato come rinnegato o apostata.

Si noti che il concetto di appartenenza a un gruppo nella società civile ricalca e semplifica quello inventato per l’appartenenza al cristianesimo. Il battesimo è sostituito con l’iscrizione in un registro, l’adesione alle regole del gruppo è data per sottintesa, la partecipazione è prevista con la frequenza alle assemblee degli iscritti (analoga alla frequenza dei fedeli alle riunioni religiose) e alle attività dell’organizzazione, la fedeltà è garantita con il pagamento di una quota annuale obbligatoria. Come si vede le procedure si somigliano, fatta eccezione per la reversibilità e le regole di ingresso: l’ingresso in un gruppo “laico” non può essere effettuato da un neonato a opera di un adulto e la decisione di appartenenza non è ritenuta irreversibile. Basta interrompere il pagamento della quota di partecipazione e l’iscritto cessa automaticamente di appartenere al gruppo. Solo regole di cortesia burocratica prevedono la consegna di una lettera di dimissioni.


2. Il concetto di eresia

I cristiani hanno sviluppato relativamente all’appartenenza degli individui al loro gruppo un concetto assai pericoloso, che si è sedimentato nel sentire comune in varie forme descrivibili in termini di pura e semplice intolleranza. Alludiamo al concetto di eresia. Com’è noto, per molti secoli è accaduto che chiunque, battezzato cristiano, avanzava critiche, riserve o deciso dissenso su alcuni punti indicati come materia di fede, poteva essere dichiarato eretico dalle autorità della gerarchia organizzativa mediante un preciso atto formale definito con il nome di scomunica, andando incontro a pene pesantissime, fino alla tortura e alla morte (autodafé). L’accusato che accettava di fare una dichiarazione di recesso dalle sue posizioni di dissenso (abiura) poteva ottenere una riduzione di pena (esilio, prigione, pubblica fustigazione...).

I concetti di eresia e di eretico sono stati recepiti nel mondo civile e sono entrati nella mentalità comune al punto da contraddistinguere alcune forme di intolleranza nella lotta politica e nel vivere quotidiano. La contestazione di alcune idee della parte politica cui si appartiene viene indicata con i termini di deviazionismo, tradimento e simili (equivalenti a eresia); e chi si ponga in posizione critica nei confronti delle linee guida del gruppo cui appartiene viene chiamato con termini spregiativi quali voltagabbana, traditore, venduto, giuda e simili (corrispondenti sostanziali del termine eretico: interessante l’uso della parola “giuda”, che rimanda inequivocabilmente all’origine religiosa della condanna). L’equivalente della scomunica è la procedura di espulsione, con la quale l’iscritto viene cancellato dalla lista dei partecipanti e perde ogni diritto di partecipazione al gruppo stesso. Nelle forme più gravi si è arrivati a richiedere un pentimento pubblico, eufemisticamente indicato col nome di autocritica, da parte dell’accusato (equivalente all’abiura richiesta in campo religioso) e si sono messe in atto purghe, ossia condanne e persecuzioni, che in alcuni casi sono arrivate fino alla tortura e alla soppressione fisica dell’accusato. (Queste nostre osservazioni, sia ben chiaro, non devono essere interpretate come una difesa delle colpe di tradimento e infedeltà vere e proprie, che certamente in alcuni casi si realizzano e si configurano nettamente, ma come una difesa del più elementare diritto alla critica e all’autonomia di pensiero garantito dalle moderne democrazie).

Eresia e il suo parente moderno vissuto come intolleranza discendono direttamente dalla pretesa da parte di alcuni gruppi di possedere ed essere gli unici titolari di verità assoluta, che, in quanto tale, a tutti deve essere imposta e da tutti deve essere accettata. Non vale obiettare che una verità assoluta per sua natura si dovrebbe imporre spontaneamente all’intelletto umano, senza dover far ricorso a coercizioni e imposizioni di sorta. Ancor meno successo avrà sostenere l’argomento che una verità assoluta non esiste e che nelle cose umane esistono solamente tante verità compossibili con le quali si può e si deve convivere esercitando la più comprensiva tolleranza in pacifico confronto, perché in tal caso si sarà sottoposti all’assurda e violenta accusa di “peccato di relativismo”, a quanto pare una delle forme di eresia più perniciose.


3. Esame della parola πíστισ — fede

Partiamo da una frase di Kant, un filosofo che si distingue per la chiarezza e la forza di analisi in tutte le sue opere: «La speranza comincia soltanto con la religione». [5] Ecco un punto fermo: la religione apre alla speranza, ma non ha niente a che fare con la certezza. La definizione paolina di fede come certezza viene dall’affermazione kantiana addirittura capovolta, con buona pace dell’apostolo.

Nel linguaggio corrente speranza e fede sono due concetti che vengono spesso confusi quasi senza rendersene conto, ma non sono ovviamente la stessa cosa. Nella speranza non c’è certezza, nella fede si ritiene invece che la certezza sia inclusa. Che la religione possa aprire la porta alla speranza sembra considerazione del tutto ragionevole. Ma, se si afferma che la religione apre alla speranza è evidente che si vuol dire che non dà certezza. Ora, sarà bene chiarire subito che la parola fede (πíστισ), se si fa riferimento al significato originario del termine, non contiene affatto alcun senso di certezza. Il termine greco πíστισ significa semplicemente “credenza, convinzione, fiducia [in qualcuno o qualcosa], attendibilità” [6] — tutti concetti che rimandano a incertezza, più o meno marcata, un’incertezza che si può risolvere soltanto con un atto personale soggettivo in attendibilità, pur sempre però qualcosa di incerto di cui si può essere soggettivamente persuasi e convinti (come la radice πεíθειν suggerisce). I primi cristiani hanno caricato la parola πíστισ con un’importante accentuazione sul concetto di certezza, tralasciando la connotazione soggettiva originaria della parola. Paolo dà avvio all'operazione in modo esplicito nella sua definizione. Rivediamola nell’originale e in alcune traduzioni sulle quali vogliamo riflettere:
Ἔστιν δὲ πíστισ ἐλπιζομένων ὑπόστασιϛ, πραγμάτων ἔλεγχοϛ ού βλεπομένων

Est autem fides sperandorum substantia, rerum argumentum non parentum (Vulgata)

Or la fede è una sussistenza delle cose che si sperano, ed una dimostrazione delle cose che non si veggono (Diodati)

Es ist aber der Glaube eine gewisse Zuversicht des, das man hofft, und ein Nichtzweifeln an dem, das man nicht sieht (Lutero)

Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono (Riveduta)
Osserviamo che la traduzione latina della Vulgata appare restituire perfettamente il testo greco. Substantia è ricalco della parola greca ὑπόστασιϛ e argumentum può essere accettata come una ragionevole traduzione della parola greca ἔλεγχοϛ [primariamente: “argument of disproof or refutation”, ossia “confutazione” ; ma anche, nel linguaggio neotestamentario, “convincimento” e “prova”, ossia un convincimento ottenuto mediante un qualche elemento di prova]. Circa la traduzione del Diodati c’è solo da osservare che la parola dimostrazione (ripresa poi dalla Riveduta), forza leggermente la parola greca ἔλεγχοϛ, in quanto una dimostrazione può far pensare alla conclusione di un processo logico, ossia qualcosa di più cogente di un convincimento ottenuto mediante un “elemento di prova”. Mi sembra chiaro che Paolo pensasse come elemento di prova a fatti extrasensoriali — basati su forze che non si vedono — e in particolare alla risurrezione: «Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede» (1 Cor 15,17). Ora, la risurrezione come elemento di prova, come appoggio alla certezza, è proprio lo scoglio difficile da digerire. Infine, la parola sussistenza, usata dal Diodati, è un modo corretto (forse un po’ antiquato: il Diodati ha operato nel 1600) di tradurre substantia ossia ὑπόστασιϛ.

Ci pare a questo punto molto interessante valutare la traduzione di Lutero, il quale per ragioni linguistiche si venne a trovare in una situazione abbastanza particolare e fu costretto a una versione che si discosta sensibilmente dalle altre citate. Lutero non disponeva della parola fede fra le radici sassoni (come si è già rilevato, fides latino, da cui la nostra parola fede, è etimologicamente collegato col greco πεíθειν; quindi tradurre πíστισ con fede è la cosa più spontanea e più corretta che chi traduce in latino e poi in italiano possa fare) e ha dovuto usare la parola Glaube (= credenza), che contiene una significativa carica di dubbio, come risuona nella originaria parola πíστισ (ciò che si crede e di cui si è convinti non è affatto detto che sia certo). Per impossibilità linguistica, Lutero si è trovato a dover mantenere il significato originario della parola greca πíστισ con tutta la sua forza; e infatti il tedesco Glaube nel significato è certamente più vicino all’originario πíστισ di quanto gli sia vicina la parola italiana fede (seppure etimologicamente collegata al greco). In italiano fede — religiosamente intesa — è una credenza certissima a carattere assoluto. Una fede con incertezze, che avanzasse dei dubbi o addirittura del dissenso poteva costare la morte (ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Pietro Carnesecchi); per contro, la parola greca nel suo significato classico lascia molto spazio al dubbio come sopra ricordato, mentre nel suo uso neotestamentario — in particolare nella definizione paolina che stiamo esaminando — quel contenuto di dubbio comincia a stemperarsi e la parola fede verrà ad acquisire il significato rigido e assoluto che conosciamo.

Risulterà più chiaro ciò che vogliamo dire se leggiamo l’affermazione di Paolo come l’ha resa Lutero in tedesco. Balza subito agli occhi che Lutero ha avuto qualche problema con l’interpretazione delle parole πíστισ (fede) e ὑπόστασιϛ (fondamento), perché al suo orecchio la parola Glaube (credenza) conteneva una buona dose di incertezza; avrebbe dovuto tradurre: «la credenza è un fondamento di ciò che si spera e ἕλεγχοϛ di ciò che non si vede». Dunque la credenza (una cosa con un’alea di incertezza) fa da fondamento alla speranza (altra cosa che non ha certezza) ed è dimostrazione (?) di ciò che non si vede (come puoi dimostrare una cosa che non vedi con una cosa non certa come una credenza?). Per rimediare a questi problemi egli ha reso ὑπόστασιϛ con Zuversicht (una discreta forzatura, perché Zuversicht significa “fiducia, speranza fiduciosa”, ossia certezza soggettiva) aggiungendo, per compensare, la parola gewiss (“certo, sicuro”) che nel testo originale greco non figura, traducendo quindi: «la credenza è una fiducia [certa] in ciò che si spera e ἔλεγχοϛ di ciò che non si vede». Tradurre ὑπόστασιϛ con Zuversicht, la cui pregnanza espressiva sta decisamente nel versante soggettivo dei significati, come ha fatto Lutero, è operazione abbastanza temeraria, perché il primo significato di ὑπόστασιϛ (“ciò che sta sotto”) è fondamento, quindi qualcosa di abbastanza solido e sicuro, situato nel versante oggettivo del termine. Lutero si è trovato in difficoltà a causa del fatto che nel linguaggio neotestamentario la parola ὑπόστασιϛ viene spesso usata per indicare anche “certezza”. Ma trascinato dal senso di incertezza della parola Glaube non si è sentito di tradurre ὑπόστασιϛ né con fondamento né con certezza; ha usato quindi con coraggio la parola Zuversicht (fiducia) rafforzandola con un gewiss (certo), per evitare di dire che una cosa incerta (una credenza — Glaube) potesse essere sensatamente fondamento di una speranza (una cosa incerta avrebbe fatto da fondamento ad altra cosa incerta, producendo necessariamente incertezza come risultato). Restituito in italiano il testo di Lutero, nella sua prima parte suonerebbe pertanto così: «Ma il credere è fiducia certa in ciò che si spera». Molto differente dal dire: «Or la fede è certezza di cose che si sperano». In un caso la fede è una speranza fiduciosa che, per quanto certa, è pur sempre soggettiva; nell’altro la fede è certezza, ossia qualcosa di indubitabilmente oggettivo.

Vediamo adesso come Lutero si è comportato di fronte alla parola ἔλεγχοϛ. Presa nel suo senso originario la seconda parte di Eb 11,1 suonerebbe così: «… e confutazione (argument of disproof or refutation) delle cose che non si vedono». Ossia il contrario di ciò per cui la definizione viene formulata! Allora bisogna fare una riflessione e considerare che da questo significato negativo la parola ἔλεγχοϛ si sia evoluta nel senso di “elemento di prova” o addirittura di “argumentum” (Vulgata). Lutero deve aver percepito questa difficoltà e ha trovato anche in questo punto una soluzione originale traducendo: «… e un non dubitare (Nichtzweifeln) delle cose che non si vedono».

Confrontiamo infine la traduzione della Riveduta con la traduzione di Lutero, che rimettiamo in italiano per facilitare il confronto:
Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono (Riveduta)

Or la credenza è fiducia certa in ciò che si spera e un non dubitare di ciò che non si vede (Lutero)
Se la fede cessa di essere parola misteriosa proveniente dal mondo religioso legata indissolubilmente al concetto di certezza oggettiva e la si esprime semplicemente per ciò che essa significa ed è, ossia come credenza (circostanza con cui si è dovuto misurare Lutero), la certezza, che sottintende e contiene un concetto di oggettività irrefutabile, non può più essere accettata ed è ragionevole rappresentarla, come ha fatto Lutero, con l’espressione «fiducia certa» (gewisse Zuversicht), ossia una fiducia forte, ma che, forte quanto si vuole, ha pur sempre carattere soggettivo. Analogamente per la seconda parte della definizione l’uso della parola dimostrazione, che implica una oggettività logica (o quanto meno intersoggettività) irrefutabile, non può essere associata alla parola fede, se intesa nel suo significato di credenza, senza stridere. E quindi alla certezza oggettiva della dimostrazione Lutero sostituisce il concetto del non dubitare: una sfumatura, ma essenziale. Infatti, un conto è dover irrefutabilmente credere come conseguenza di una dimostrazione e un conto è non dubitare, ovvero cessare di dubitare, come punto di arrivo di una valutazione soggettiva e travagliata dei fatti. Ci pare indubbio concludere che le due versioni sopra riportate sono profondamente differenti: da un lato la fede come certezza oggettiva assoluta e razionalmente irrefutabile, dall’altro la fede come l’insieme delle cose cui uno crede con tutta la fiducia e la forza di contrastare i dubbi della quale è soggettivamente capace.

Qui non si vuole contestare la traduzione della Riveduta, del Diodati e della Vulgata, le quali peraltro inserite nel contesto di Eb 11 hanno una loro assoluta plausibilità. Si ritiene, anzi, che con tutta probabilità il pensiero di Paolo (o dell’estensore dell’Epistola) sia meglio contenuto nella espressione in cui si dice semplicemente «la fede è certezza» (rimanendo alla superficie del problema, si può semplicemente affermare che la parola sostanza o fondamento rimandano inequivocabilmente a certezza). Ma è proprio in questa identificazione e associazione del concetto di certezza alla parola fede che si scopre l’operazione di spostamento di significato della parola πíστισ che i cristiani — a partire appunto da Paolo — hanno operato. E dalla fede come certezza e valore assoluto indiscutibile nascerà il concetto di eresia che si estenderà fino al mondo moderno nella sua piega nota come intolleranza.

Riassumendo, ecco come (secondo noi) il testo greco dovrebbe essere inteso, liberando la parola greca πíστισ dai significati di assolutezza che via via, a partire dall’uso neotestamentario, le sono stati sovrapposti:
Orbene, credere è un avere fiducia senza incertezze nelle cose che si sperano e un tacitare ogni dubbio sulle cose che non si vedono.
Dove abbiamo tradotto:
  • πíστισ con credere, per non creare equivoci con la parola fede che all’orecchio moderno significa altro.
  • Ὑπόστασιϛ con fiducia senza incertezze: si ha fiducia in un fondamento senza incertezze, una fiducia però pur sempre soggettiva.
  • Ἔλεγχοϛ con tacitare ogni dubbio. A stretto rigore, la parola porterebbe a una contraddizione, si dovrebbe tradurre: la fede è un elemento per la confutazione delle cose che non si vedono (esattamente il contrario del pensiero che si evince da tutto il contesto). Si deve pertanto ammettere che la parola ἔλεγχοϛ debba essere interpretata. A noi sembra logico accettare la proposta di Lutero: Nichtzweifeln (“non dubitare”), che abbiamo reso con tacitare ogni dubbio.
Si può rendere la definizione ancora più comprensibile e attuale:
Orbene, credere è [riuscire] ad avere fiducia senza incertezze nelle cose che si sperano e a tacitare ogni dubbio sulle cose che non si vedono.
Resta una domanda: che cosa intendeva effettivamente l’autore della definizione di Eb 11,1? Per onestà intellettuale dobbiamo ammettere che dal contesto sembra che l’autore fosse più spostato su un credere come certezza e strumento di convincimento oggettivi, piuttosto che sulla interpretazione soggettiva (legittima) che noi, seguendo Lutero, abbiamo indicato. Tuttavia, se il lettore proverà a rileggere il capitolo 11 alla luce della traduzione proposta sopra, non troverà nessuna incompatibilità. Niente ci vieta di immaginare che coloro che sono indicati come persone che hanno avuto fede abbiano anche dubitato e poi tacitato i propri dubbi; in un caso addirittura la persona interessata, Sara (e lo stesso Abramo), si mise a ridere per incredulità (cfr. Eb 11,11 e Gen 18,9-15; 17,17). Dunque ci sentiamo di avanzare la nostra proposta (derivata dalla traduzione di Lutero) sostenendone la legittimità.


4. Conclusione

La nostra opinione è che il versetto che abbiamo esaminato sia la spia dell’inizio dello spostamento di significato che la parola fede ha avuto nel corso della storia del cristianesimo con le conseguenze che tutto ciò ha comportato sulla formazione del senso di “appartenenza” al cristianesimo stesso, intesa per lo più in forma esclusiva e totalizzante e troppo spesso addirittura intollerante.

Riteniamo che modernamente la definizione di fede tradizionale come certezza oggettiva di una realtà trascendente non possa essere accettata. La definizione paolina andrebbe pertanto riletta nel senso avanzato da Lutero, allargando l’interpretazione del Riformatore in una visione ancora più aperta, in cui il senso centrale della fede riposa nel dubbio (fede è anche “tacitare i dubbi”). In buona sostanza, l’umanità circa la realtà ed esistenza del trascendente è in dubbio perpetuo. La parola certezza è fuori di luogo. Il dubbio può soltanto risolversi in attendibilità, nel senso che in determinati momenti ed esperienze di vita la possibilità di una realtà trascendente può sembrare plausibile, in altri momenti può sembrare plausibile il contrario. E ciò vale per la totalità degli esseri umani, con la precisazione che per alcuni — i religiosi — l’attendibilità di una realtà trascendente (le cose che non si vedono) prende una parte significativa della loro vita, mentre per altri — i miscredenti — accade esattamente il contrario, ossia l’attendibilità della non-esistenza della realtà trascendente è per lo più accettata come l’atteggiamento più ragionevole da tenere in una parte preponderante della loro vita.

Resta il fatto che l’umanità vive nel dubbio, in un senso o nell’altro, e che nessuno ha certezze adamantine e incrollabili (chi dice di averle mente, magari a se stesso). Aver fede, credere non può significare altro che aprirsi alla speranza (Kant), ovvero riuscire ad avere prevalentemente fiducia in ciò che si spera e a tacitare i dubbi circa ciò che non si vede, traguardo cui si può ragionevolmente e legittimamente tendere con tutte le proprie forze, senza mai riuscirvi completamente, ovvero senza mai riuscire a trasformare il proprio convincimento soggettivo in certezza oggettiva.


[1] Cfr. W. Gesenius, A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament, Clarendon Press, Oxford 1975.
[2] Si veda su ciò N. Bombaci, Ebraismo e Cristianesimo: «due tipi di fede» a confronto nel pensiero di Martin Buber, in “Dialegesthai” (http://mondodomani.org/dialegesthai/nb01.htm).
[3] Questa affermazione si basa sul fatto che una definizione precisa della parola fede è data nell’Epistola agli Ebrei (11,1), tradizionalmente attribuita all’apostolo Paolo. Per comodità, nel testo, si dà per scontata questa attribuzione, per la verità molto contestata dalla critica.
[4] Recentemente, in base al diritto fondamentale di autodeterminazione riconosciuto a ciascun individuo in ogni società libera, la Chiesa cattolica è stata forzata a procedere, su domanda degli interessati, alla cancellazione del nominativo dal registro battesimale della parrocchia di appartenenza (sbattesimo).
[5] I. Kant, Critica della ragion pratica, 235; trad. di F. Capra, con introd. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 2001(terza edizione), p. 287.
[6] Cfr. H.G. Liddell and R. Scott, A Greek-English Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1996.
[7] Ibidem.


Emanuele Angeleri (1932), dottore in fisica, è stato ricercatore industriale nel settore dell’energia nucleare e delle telecomunicazioni, quindi professore associato di Teoria dell’Informazione e della Trasmissione presso l’Università degli Studi di Milano. Oltre a numerose pubblicazioni tecnico-scientifiche, fra cui ricordiamo: Informazione – Significato e Universalità (Utet 2000), come studioso del testo biblico e libero cultore di ebraismo ha anche pubblicato: Natura, Artificio e ricerca dell’Uno (Mimesis 2005). Ha curato l’edizione italiana del libro di Hans-Peter Dürr, Anche la scienza parla soltanto per metafore. La nuova relazione fra religione e scienza, Gabrielli, Verona 2015.

credit: Jaya Suberg, nightlines, http://www.bell-gallery.com/artist/jaya-suberg/



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