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La questione del peccato
di Guido Cavalli


6 luglio 2016


Inevitabilmente, abbiamo rigettato la parola “peccato”. Ora dobbiamo confrontarci con il fatto che, senza peccato, la nostra teodicea rimane vuota, e incapace di problematizzare il male. Senza peccato la nostra moralità è diventata solo retorica.

Nella parola peccato era sedimentata una sapienza: la dimensione morale è una lotta, ma noi non partiamo alla pari, e non combattiamo ad armi pari, ma in svantaggio. Il bene a cui guardiamo è più grande delle nostre capacità, e il male che ci attraversa è più forte, e talvolta in questo confronto l’equilibrio non è in noi, oppure ci attraversa nel senso che ci taglia a metà, ci chiede un prezzo — “taglia la tua mano e gettala nella Gheenna” — perché essere migliori, diventare migliori, aderire a quella possibilità di senso, talvolta significa accettare una sfida radicale, una libertà che è possibilità di perdere tutto, disponibilità a oltrepassare un limite, non semplicemente “vincere pulsioni distruttive e liberare creatività”, ma diventare noi stessi altro da noi stessi.

Il peccato è un ricordo, una cicatrice, di una mancanza, di una ferita già inferta, già subita, irrimediabile, una condizione: questa è la condizione umana nei confronti del male, la tentazione che mi impegna a essere migliore. Essere migliore è vincere qualcosa di me, rimediare qualcosa di me, sentirmi chiamato a essere meglio di quello che sono, essere meglio di me, essere uomo migliore di quello che sono.

Giustizia e salvezza sono l’eredità delle due culture che ci hanno generato, la cultura greca e quella ebraica. Giustizia e salvezza — forme di un regime del bene — si sono incontrate, e ancora cercano di reincontrarsi in quel luogo storico che è — la croce di Cristo.

Il perfetto adempimento della Legge (Mt 5,17) non è il superamento o la cancellazione del peccato, che invece prevale nella morale secolarizzata, anche cristiana, anche cattolica, contemporanea. Al contrario è l’esortazione all’adempimento pieno e sovrabbondante della Legge, l’esortazione ad essere “perfetti come il Padre” (Mt 5,48), conformi alla sua tenerezza perfetta (Cfr. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, 2008, p. 413). Anche l’umiliazione, il perdono, il martirio a cui chiama Gesù non sono una morale superiore che sublima e cancella quella della Legge, ma tensione verso il compimento messianico, tensione parossistica all’umiliazione oltre ogni grado di umiliazione, al perdono del dolore imperdonabile, perdonato per essere perfetto come l’Altissimo (Mt 6,12), alla speranza di salvezza ogni oltre speranza, verso il giorno della vendetta di Dio, quando passeranno il cielo e la terra, e la Legge sarà compiuta nella venuta perfetta del regno. Lo dico perché non vedo più segno di questa tensione morale nei discorsi della fede. Il discorso religioso è caduto nel discorso dei valori. Un discorso della soggettività. Porre la questione del valere dei valori è la proclamazione involontaria e patetica della fine del valere di qualsiasi valore. È il segno più lampante dell’instaurazione della logica della misurazione del valore sull’evidenza del suo valere. Così il sale è divenuto insipido (Mt 5,13), e questo è un fatto ormai irrevocabile. Bisogna tornare a misurarsi con la misura oggettiva della Legge e con la tensione al suo pieno adempimento. Fedele, uomo di fede è chi mantiene questa tensione, questo confronto aperto tra miseria e perfezione che sono i bracci della croce.

In questo modo il cristianesimo ha cercato di accostare e al tempo stesso tenere distinte queste due dimensioni — giustizia e salvezza — in una relazione che è vicinanza e lontananza, intimità e separazione, frapponendo tra loro come una membrana, un ponte, un legame: l’idea di peccato. Che è un’idea di uomo spezzato, in cammino fiducioso verso un regime di giustizia, e in ascolto speranzoso di una parola di salvezza.

Di fronte al peccato, la giustizia si fa relativa, cessa di essere giustizia dell’uomo sull’uomo (anche il gulag è giustizia amministrata dall’uomo sull’uomo), ma diventa giustizia capace di fermarsi — capace di rispetto — che sa voltare il capo dall’altra parte di fronte a quella parte dell’uomo che è nascosta, anima, che convive con il peccato — una giustizia che non giudica la coscienza ma gli errori degli uomini.

La salvezza — dell’uomo che ha peccato — diventa invece atto di giustizia ricevuta, atto di giustizia compiuto non dall’uomo ma verso l’uomo, gratuitamente: grazia.

In mezzo, a tenere insieme e guardare entrambe, c’è il peccato originale come memoria di un male subito incolpevolmente, e tuttavia concretamente inscritto nella nostra carne — la prima cosa che si incarna in noi è il mondo, ovvero l’essere mondano del nostro corpo, l’essere transitorio, viandante, pellegrino su un cammino di bene — il peccato come confine che ci attraversa di una lotta tra bene e male, entrambi al di là della nostra ragione, della nostra carne, della nostra storia. Non è l’uomo la dimensione né del bene né del male. L’uomo è il luogo in cui si incontrano. Questo confine concreto è in noi, e noi lo dobbiamo dire e nominare per quello che è: una soglia oltre la quale noi siamo male e siamo bene. Quella soglia è il peccato.

Tutto lo sforzo nicciano di annullare quest’idea di uomo avvolto e giocato tra la dimensione mondana e ultramondana, tra giustizia e salvezza, racconta dello sforzo che noi stiamo facendo per uscire da questa idea di uomo, di volerci liberare dalla fatica di questa idea di uomo per giungere a una dimensione apparentemente pacificata — a un umanismo pieno e totalizzante — nel quale si perde però il senso di ogni pietà — pietà per il peccatore, pietà per l’uomo, per la sua innocenza impossibile. Pietà per i figli dell’uomo, “die ungebornen Enkel” di Grodek.

Jan Van Eyck, Uomo con turbante rosso, 1433


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