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Teodicea e panteismo nel Moby Dick di Melville
di Luigi Straneo (Pee Gee Daniel)


2 febbraio 2015


Sometimes I think there’s naught beyond.


I. Dio e il problema del male

Il romanzo Moby Dick ci si mostra costantemente indeciso, per quanto concerne la natura di Dio, tra una rassegnazione fideistica verso un dio onnipotente ed eterno, le cui volontà ultime restino per l’uomo affatto imperscrutabili, lo smarrimento atterrente che coglie chi si avverta posto al cospetto di un dio impotente e forse malvagio e, da ultimo, l’ipotesi di una coesistenza dei due principi (del bene e del male) di scuola manichea.
Innanzitutto non si può non tenere conto del “Dio democratico” cui viene resa gloria nella protasi (posposta al cap. XXVI rispetto alla collocazione classica). Come già facevano i poeti greci e latini, e quindi i loro anche più remoti epigoni, rivolgendosi ai numi che costipavano la religione del tempo, l’autore del Moby Dick invita un tale dio — dalle connotazioni abbondantemente yankee — a sostenerlo quando si tratterà di «attribuire le qualità più elevate, per quanto oscure ai marinai più miserabili, ai rinnegati, ai reietti». Altrove parlerà altresì della «dignità democratica che si irradia senza fine su tutta la ciurma da Dio, da Lui stesso, il grande e solo Dio che è centro e circonferenza di ogni democrazia: è la Sua onnipresenza e la nostra uguaglianza divina»; concludendo infine con una supplica dagli accenti lirici:
«tu Spirito giusto dell’Uguaglianza, che hai steso su tutta la mia specie lo stesso mantello reale di umanità! Sostienimi tu, grande Dio democratico […] Tu che in ogni potente marcia sulla terra scegli sempre i tuoi campioni più eletti tra il popolo regale, sostienimi tu Signore». [1]
Un dio che rassomiglia però, piuttosto che al destinatario di un sincero atto di fede, a un’oggettivazione di stampo feuerbachiano, in cui lo scrittore tenda a trasfondere il suo personale sistema assiologico.
Il “Dio democratico” resta comunque l’unico dio a preservare la sua nobiltà, all’interno di un pantheon melvilliano affollato di dei tra loro non già contigui ma contrapposti senza alcuna possibilità di sincretismo. «Il dio di Melville non ha una forma unica, stabilita e definitiva — se l’avesse, se egli potesse riconoscere un’unica immagine di Dio, la sua ricerca e la sua opera non avrebbero ragione di essere» ci dice al riguardo il critico Baldini, e continua:
«ricorre soprattutto in figura del severo e intollerante dio puritano, ed è per questo che egli si dispone a venerarlo anche in quel che, di severo e intollerante, riconosce nella natura sconvolta, nelle smisurate proporzioni di mostri crudeli e spietati, nell’impenetrabilità dei silenzi dell’uomo: ed è per questo, inoltre, che le forme del suo panteismo si possono interpretare tutte al lume d’una posizione calvinista». [2]
Nel 1849 Herman Melville comunicava al libraio Evert Duyckinck il recente acquisto di una costosa copia del Dizionario Storico-critico del proto-illuminista Pierre Bayle. [3] È il celebre anglista Millicent Bell a tentare una sintesi tra i due autori:
«Bayle attaccava con franchezza la predestinazione, dogma della chiesa “di cui mi professo membro”, poiché implica che Dio sia crudele. E Melville, quale figlio posteriore della Chiesa di Calvino, in un passaggio piuttosto pessimistico di Mardi [così già scriveva]: “Tuttora vane le nostre supposizioni. Ancor più vano dire che ogni Mardi non sia nient’altro che il mezzo per un fine; che questa vita è uno stato di prova; che il male è consentito solo in vista di una scadenza. (…) No, no. Oro [=Dio] non ha delegato il suo scettro a nessuno; nel suo regno infinito non vi sono interregni; e il tempo è eternità e noi viviamo nell’eternità ora. Qualcheduno parla ancora di un aldilà in cui tutti i misteri della vita saranno dipanati; e i patimenti della virtù saranno appianati. Oro è giusto, dicono loro. Allora e sempre – ora e in eterno. Ma riparare un torto implica un errore; e Oro non fa errori. Inoltre ciò che appare malvagio ai nostri occhi potrebbe essere buono per lui. Se non prova paura, non possiede neppure le altre passioni, né fini, né scopi (…) ciò che è, è stato e sempre sarà”. [4] In perfetto accordo con Bayle — aggiungiamo noi — allorché si scontra con un Dio concepito come «l’autore del peccato e, ciononostante, giudice severo che punisce eternamente questo peccato nella persona di chi non ne è colpevole». [5]
Quel che ne deriva è l’immagine di un’umanità inevitabilmente tentennante al cospetto di questo “Creatore Protestante” dall’ironia sinistra che, se da una parte dissemina il cammino delle proprie creature di tentazioni e pericoli, per altro verso attende guardingo che accennino anche solo a mettere un piede in fallo per poterle punire nella maniera più intransigente. In altre parole, il comportamento di una tale divinità risulta tanto imperscrutabile che l’unico modo di servirla e sottostarle sembra quello di rinunciare a ogni forma di coscienza critica e di opposizione morale.
«E se obbediamo a Dio dobbiamo disubbidire a noi stessi: ed è in questa disubbidienza a noi stessi che consiste la difficoltà di obbedire a Dio». Così tuona Padre Mapple dall’alto di un ambone, mentre impartisce una lunga tirata omiletica nello stile proprio di un oratore delle chiese riformate. [6] È proprio in questa luce che sembra acquistare valore il traslato del “dio tessitore” che Ismaele, narratore intradiegetico e, per certi versi, alter-ego del suo creatore letterario, elabora quando si ritrova all’interno di un tempio pagano ricavato dalla carcassa di una balena, nel fitto di una foresta delle isole Arsacidi, e osserva:
«Oh tessitore assiduo! Tessitore invisibile, fermati! Una parola: dove va questa trama? Quale palazzo può ornare? Perché tutte queste fatiche senza sosta? Parla tessitore! Ferma la mano: una sola parola! Ma la spola corre, i disegni vengono a galla dal telaio, il tappeto scivola fuori in eterno come un ruscello che scorre. Il dio-tessitore tesse, e da quel tessere è assordato, sicché non sente voce umana, e noi pure che guardiamo il telaio siamo assordati dal ronzio, e solo quando lo fuggiamo possiamo udire le migliaia di voci che parlano attraverso il rumore». [7]
In parole povere, il mondo fenomenico è un quadro di cui ci rimane costantemente oscuro il Tessitore («il vecchio burlone invisibile e indecifrabile» [8] come Melville/Ismaele chiama Dio altrove). Ma per tornare all’umiliazione della ragione di fronte a Dio, cui poc’anzi si accennava, la pervia via di un totale trasporto fideistico non pare quella supinamente praticabile dal genio del nostro autore: «La fede, come uno sciacallo, si nutre in mezzo alle tombe, e persino da questi dubbi cadaverici estrae la sua speranza più vitale» [9] dice Melville, che proprio della fede tratteggerà una convincente prosopopea nel personaggio dell’ufficiale in seconda Starbuck, descritto come un “quacquero per tradizione di famiglia” (cap. XXVI, p.111), ma che è sicuramente anche per convinzioni personali: un perfetto rappresentante della congregazione delle Chiese Riformate, del tutto conforme qual è all’eroe puritano del Pilgrim’s Progress [1678] di John Bunyan, che abbandona la corruzione del mondo alla volta della città celeste e procede nel suo cammino per i campi al grido: “Life, eternal life!” Slogan che pare vieppiù riecheggiato — e, al contempo, rovesciato nel suo senso più profondo — da quell’«Oh, life! […] Oh, life! ‘tis now that I do feel the latent horror in thee! but ‘tis not me! that horror’s out of me! and with the soft feeling of the human in me, yet will I try to fight ye, ye grim, phantom futures! Stand by me, hold me, bind me, O ye blessed influences!» pronunciato appunto da Starbuck alla fine del cap. XXXVIII del Moby Dick, in uno di quei momenti di sconforto che raramente lo colgono. Perché, come dice Bell, prendendo spunto da questo stesso passo, «Starbuck non è insensibile all’orrore presente nella vita, ma quello non è il SUO orrore, per il fatto che Starbuck è un credente.»
È l’eloquente annotazione che Melville vergò ai margini di un passo del succitato Bayle — «Why hath God wrought evil in the world?» [10] — ad apparirci come il vero protrettico del Moby Dick. Qui viene riproposta la vexata quaestio, già agostiniana: Si Deus est unde malum? Questione ulteriormente complicata dall’accenno a un diretto e positivo coinvolgimento di Dio, che suona come una tonante chiamata in reità.
Di fronte a un male ubiquitario, a questo demonismo universale (“the demonism in the world”, come lo definisce Melville) — che più oltre verrà indicato, con un potente neologismo, il vulturismo del mondo, [11] «Oh, horrible vulturism of hearth!» (dal lat. Vultur, uris = avvoltoio) — la domanda intorno alle sue origini non può che riaffacciarsi prepotentemente.
Ecco dunque introdursi qui per la prima volta, in risposta all’annoso problema della coesistenza di un Dio buono e del male morale, il tema dei due principii. È forse proprio questa la risposta giusta? Riguardo a un tale punto, Bell ci parla del centrale uso poetico, interno a Moby Dick, di una formula religiosa che prevede una divinità in cui convivano i due opposti principii, “a dual God-head”, per suffragare «l’ipotesi di un universo in cui il male sia immanente e attivo». Come gli fa eco il teologo Jean-Pierre Jossua:
«I testi biblici in cui Dio sembra fare il male. La figura del capitano-re Ahab, soggiogato dal falso profeta (Fedallah), ispirato da un dio sleale che vuole portarlo alla perdizione. Ahab, rivestito di simboli presi da temi zoroastriani; tra l’altro adora il fuoco (e Fedallah è un Parsi): è dualista, si chiede M. Bell? (…) Bisogna porsi ancora due domande essenziali: qual è il senso preciso del combattimento tra Ahab e Moby Dick? Questo combattimento occupa da solo il centro dell’opera? Sulla prima M. Bell mi pare tergiversare. Percepisce bene che se Ahab è un pazzo diabolico non è solamente quello e che Moby Dick è una figura a volte divina – che è blasfemo cacciare – e a volte cattiva. Dunque? Un dio, due dei?». [12]
In effetti, per Melville non si tratta di un vero e proprio atto di fede nella concezione dualistica, ma di un uso metaforico che ricorre per tutta l’opera, utile a mettere in luce il miscuglio inseparabile di bene e male di cui il dramma umano è impastato. Codesto dualismo si presenta sotto vari aspetti: a partire dalla contrapposizione tra terra e mare, per esempio. «Il mare è essenzialmente landlessness. La Terra è il finito e il mare l’infinito», come nota Gabriele Baldini. «Ma la verità più alta, senza rive, indicibile come Dio è soltanto nell’assenza di terra», [13] specifica Melville, esplicitando la secunda intentio di quel viaggio, in cui convivono «due viaggi paralleli, uno fisico e uno metafisico»; e pare chiaro che «il primo non sia che l’emblema, il simbolo del secondo.» [14] Edwin Honig scrive, a tal proposito:
«Melville utilizzò l’ambientazione “esotica” del mare, cercando una singolare proprietà immaginativa in un dominio senza tempo né spazio di contro alla dominante pratica narrativa di una caratterizzazione e di un adattamento storico di cartone. In Moby Dick l’allegoria cresce al di là d’un viaggio navale che si lascia alle spalle le ipocrisie sociali e religiose dei cristiani rimasti a terra». [15]
Eppure fin dall’inizio Melville si pone la domanda: «Perché i Persiani consideravano sacro il mare?» [16] Come sappiamo da Bayle, il manicheismo “fiorì rigogliosamente” [17] proprio in Persia. E la distesa dei pelaghi, nel romanzo, serve per l’appunto a rappresentare la parte più oscura e formidabile del globo terracqueo (“the dark side of the heart”). [18]
La malignità del mare viene confermata poco dopo nel prosieguo del capitolo L’indoratore, quando, per la pericolosa illusione creata dalla «bellezza e lo splendore tranquilli della pelle dell’oceano un uomo dimentica il cuore di tigre che vi palpita sotto, e preferirebbe non ricordare che quella zampa vellutata nasconde in effetti un artiglio senza rimorsi» (cap.CXIV, p.433), perché «il mare è un’eterna terra incognita, […] per quanto l’uomo bambino si vanti della sua scienza e abilità e per quanto in un futuro promettente questa scienza e abilità possano crescere, pure, per sempre, fino allo squillo del Giudizio, il mare lo affonderà e lo assassinerà» (p.255).
Mentre, nei momenti in cui è in bonaccia, per contrasto pare quasi cambiare la propria natura, primordiale e ambivalente, tanto da essere descritto analogamente a «una gran terra fiorita […]. Le lunghe valli vergini, i fianchi dei colli […]. Oh radure erbose! Oh infiniti paesaggi di eterna primavera dell’anima!». A vederlo si prova “un sentimento filiale, fiducioso, terrestre”, appunto! «Volesse Iddio che queste calme benedette durassero!» (p.433). Infine, l’aspetto demoniaco, tigresco e zoroastriano del mare e il suo contrasto con la benevola terraferma si concentrano in un unico passo, sul finire del capitolo intitolato “Brit”, laddove leggiamo:
«Ma non solo il mare è un tale nemico dell’uomo, che dopo tutto gli è estraneo, esso è anche un demonio per le sue stesse creature, peggiore di quel persiano che assassinò i suoi ospiti, perché non risparmia la prole che esso stesso ha figliato. Come una tigre selvaggia che rivoltolandosi nella giungla soffoca i suoi stessi piccoli, il mare scaglia contro le rocce anche le più forti balene».
Melville fornisce una descrizione dell’oceano Pacifico che contiene una similitudine tra mare e cielo: «affiorano vie lattee d’isole coralline»; ma che così procede:
«questo Pacifico misterioso e divino cinge l’intera massa del mondo, fa di tutte le cose un’unica sua baia, sembra il cuore della terra che batte nelle sue maree. Sollevati da quegli eterni rigonfiamenti, non potete che riconoscere il dio seducente, piegando la testa dinanzi a Pan». [19]
Immagine questa che subito reca alla mente una delle paretimologie del Cratilo platonico in cui il nome del dio Pan viene fatto derivare dalla forma neutra di πᾶς, tutto. [20] È come se la prestabilita analogia tra mare e terra e tra mare e cielo qui, da ultimo, servisse a fondere o, meglio, liquefare l’intera creazione in un unicum: l’hen kai pan che anticipa il tema d’un Melville panteista sui generis che in seguito approfondiremo.


2. Moby Dick

Fatto salvo l’aspetto simbolico che riveste, l’oceano però resta principalmente il palcoscenico deputato alle gesta dell’eroe eponimo del romanzo che qui si esamina. Moby Dick è la baleninità stessa, potremmo dire. Riferimento eidetico incarnato e, a un tempo, Ding an Sich: un noumeno infine irraggiungibile. Già prima di fare la sua apparizione ci viene presentato ambiguo e sfuggente: come diviso in se stesso. È sia «un portentoso e invertito esempio di quei cosiddetti giudizi di Dio che a volte, dicono, vengono a cadere sugli uomini», al cui centro pare misteriosamente collocarlo la storia del Town-Ho (cap. LIV, p.225), sia “un fantasma”, cui «dare la caccia o contro cui gettare la lancia […] non era cosa da uomini» (cap. XLI, p.170).
Se per un verso «quell’odore particolare, emesso talvolta a grande distanza dal capodoglio» (cap. CXXXIII) e «l’opinione soprannaturale che Moby Dick avesse il potere della ubiquità», o perlomeno della bilocazione, perché sembrava «che insomma lo avessero visto davvero a latitudini opposte proprio nello stesso tempo» (cap. XLI, p. 170) le conferiscono alcuni dei crismi della santità, d’altra parte, agli occhi di Ahab viene a rappresentare una sorta di Ahriman satanico:
«era arrivato al punto da identificare con la bestia non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esperienza intellettuale e spirituale. La balena bianca gli nuotava davanti agli occhi come l’incarnazione ossessiva di tutte quelle forze del male da cui certi uomini profondi si sentono azzannare nel proprio intimo […]. Quella malvagità inafferrabile che è esistita fino dal principio, al cui regno perfino i cristiani d’oggi attribuiscono metà dei mondi, e che gli antichi Ofiti veneravano nel loro demonio di pietra » (cap. XLI, p. 172).
Moby Dick sembra conservare tutte le ambiguità e la difficoltà interpretativa che già notavamo a proposito delle distese marine, ma, se possibile, ancora più accentuate. È forse il “Grosso Dio bianco” di Pip (cap. XL, p. 167), dunque; o è “il diavolo bianco” (cap. CXIII, p. 432) di Ahab?
Alla balena è concesso «andare […] fino in fondo al mare, […] nel costato e nel bacino stesso del mondo, di cui non c’è lingua che possa parlare»; e “andare a testoni” dietro a lei «è cosa che fa paura» (cap. XXXII, p. 129). E tra quei fondali marini — che non per nulla in oceanografia vengono definiti sistema adale (dal mitico Ade, per l’appunto, dio posto a guardia degli inferi) — «tu hai visto abbastanza da mandare in pezzi le stelle e fare di Abramo un miscredente» (cap. LXX, pp. 284-285), commenta Ahab, rivolgendosi al nemico cetaceo per allora contumace, con un atteggiamento commisto di venerazione, timor panico e sfida.
C’è un passo rivelatore del cap. XCVI, in cui viene descritta la dissezione del corpo della balena, compiuta «con sotto una capace tinozza nella quale cadono i pezzi trinciati, svelti come fogli dal tavolo di un oratore ispirato. Vestito decorosamente di nero, su un cospicuo pulpito, curvo su fogli di bibbia, che bel candidato arcivescovo, che magnifico papa farebbe questo trinciatore». [21] Come ci informa ancora la nota a piè di pagina: «Fogli di Bibbia! Fogli di Bibbia! gridano invariabilmente gli ufficiali al trinciatore. Il grido gli ricorda di stare attento a tagliare fette il più possibile sottili». In questo insistito accostamento (non aveva forse già usato, al cap. XXXII, la categoria tipografica dell’in-folio per catalogare i diversi tipi cetologici?) l’autore, attraverso un processo sottile e mai del tutto scoperto, pare quasi volerci suggerire la natura stessa di Moby Dick, atteso che, come insegna l’ortodossia ebraica, il Libro, e specificamente la Tōrāh (o Pentateuco, nella versione greca dei Settanta), è il corpo stesso di Dio. Come il Dio veterotestamentario, Moby Dick non ha volto. «Il gran Leviatano è l’unica creatura che dovrà restare senza ritratto sino all’ultimo» (cap. LV, p. 247), come è peraltro prescritto dagli abomini del Levitico circa la raffigurazione di Dio; e mostra al mondo solo la coda o la «gobba come una montagna di neve» (cap. CXXXIII, p. 477). Tutt’al più «presenta al mondo profano una falsa fronte» (cap. LXXX, p. 315), che tra l’altro sarà l’unica parte che ne potrà scorgere il timorato Starbuck, mentre ne verrà travolto: «Oh, la sua fronte implacabile si getta su un uomo a cui il dovere dice che non può fuggire. Signore stammi accanto!» [22]
«Per quanto mi adoperi dunque a sezionarla, non faccio che restare a fior di pelle: non la conosco e non la conoscerò mai. Ma se non conosco neanche la coda di una balena, come potrò conoscerne la testa? E di più, come potrò capire la sua faccia, visto che non ha faccia? Tu potrai vedermi il sedere, la coda, sembra dire la balena, ma la mia faccia non la vedrai. Però anche le parti posteriori non riesco a capirle perfettamente, e insinui ciò che vuole della sua faccia, io dico di nuovo che essa non ha faccia».
La summenzionata conclusione del capitolo The Tail ci riporta espressamente al libro dell’Esodo, quando, nel corso della teofania sinaitica, Geova dichiara a Mosè: «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo, […] toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» [Es 33,20 e 23]. La schiena rappresenta le sue opere manifeste, la faccia i suoi scopi più arcani e inconoscibili al vivente.
Di Moby Dick pare non vi sia traccia fenomenica se non per la sua estesa bianchezza, catottrica e abbacinante. A un tempo il bianco è assenza di colore e il suo esatto opposto newtoniano, ossia la raccolta ottico-fisica di ogni spettro cromatico annoverabile: vista perciò come sovrabbondanza atterritrice. Questa bianchezza tende a conservare tutte le ambivalenze già peculiari della creatura di cui rappresenta la qualità preminente. Nel corso di una lunga elencazione viene infatti via via paragonata a elementi tra loro fortemente contraddittori: alla fiamma bianca a due punte, per esempio. Un’immagine che va a riunirsi a una serie di riferimenti al fuoco come oggetto di adorazione della setta di Zoroastro (ma che è anche segnacolo prometeico, nonché satanico/luciferino), che ritornano, spesso un po’ meccanicamente, nel corso del testo. Ma è nondimeno accostata alla Visione di san Giovanni dei redenti dalle candide vesti. È «il simbolo più pregnante delle cose dello spirito, anzi il velame stesso della Divinità Cristiana» e, contemporaneamente, «con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo». E, in fondo, si riduce a semplice ἐκφανέστατον platonico: ciò che è manifesto a nostri occhi. “A colorness, all-color of atheism” è un’altra delle definizioni assegnate alla bianchezza di Moby Dick: “which we shrink”, aggiunge l’autore. In effetti Melville per bocca di Ahab cede, almeno per un attimo, a un confesso ateismo, laddove il capitano si lascia sfuggire:
«Tutti gli oggetti visibili, amico, sono solo maschere di cartone. Ma […] c’è qualche cosa di sconosciuto ma sempre ragionevole che sporge il profilo della faccia da sotto la maschera. Se l’uomo vuole colpire deve colpire la maschera! Come può evadere il carcerato se non forza il muro? Per me la balena bianca è quel muro. Me l’hanno spinto accanto. Qualche volta penso che lì dietro non c’è niente» (cap. XXXVI, p. 155).
A ulteriore conferma di questo spunto nichilista, ci viene in soccorso la lettera che Melville inviò a Hawthorne nel marzo del 1851, in cui gli rivelava: «perhaps there is not secret». Bell ci parla di un Bayle «dibattuto tra la volontà di credere e l’imporsi del dubbio. […] Negava di essere un ateo, ma se ne potrebbe dire ciò che Hawthorne ebbe a dichiarare di Melville un pomeriggio del 1856 presso le dune di Southport: “Non può né credere né essere a proprio agio nella sua miscredenza”».


3. Il panteismo di Melville

La scissura dualistica sembra essere sanata da Melville in una sorta di personale Gorotman (la società della luce preconizzata dallo zoroastrismo), attraverso l’osservazione di quella bellezza ultima che risiede nel mondo creato. Talora, per esempio, l’impianto metaforico del romanzo viene squarciato e la brutalità del mare, scelto in qualità di reduplicazione simbolica, si rivela una pura parvenza. Basta infatti un occhio appena più attento, anche durante una furente battuta di caccia, per accorgersi di quanta bellezza vi si celi: «molto più in basso di questo mondo stupefacente della superficie, un altro e anche più strano mondo colpì i nostri occhi quando ci sporgemmo a guardare in acqua», racconta Ismaele, anche a nome degli altri shipmates: «Perché sospese in quei sotterranei d’acqua fluttuavano le forme delle madri che allattavano, e di quelle che per la loro circonferenza enorme parevano prossime a diventare madri». E continua nella descrizione oleografica di un gruppo di femmine di capodoglio che si accompagnano ai loro piccoli, riconducendo a una serie di antropomorfismi queste bestie sesquipedali, dalle gestazioni di nove mesi, oltreché unigenite, che «quando traboccano di stima reciproca […] esprimono i loro mutui sentimenti more hominum»:
«come i neonati umani quando poppano fissano calmi e immobili altrove che non sul seno, come se esistessero insieme due esistenze diverse, e mentre prendono il cibo mortale si nutrissero sempre in spirito di qualche ricordo ultraterreno, allo stesso modo i piccoli di queste balene pareva guardassero verso di noi, ma non noi, quasi non fossimo altro, ai loro occhi appena nati, che un pezzetto d’alga del Golfo. […] Alcuni dei più gelosi segreti del mare parvero rivelarcisi in questo stagno incantato. Vedemmo i giovani amori leviatanici nell’abisso». [23]
Nel romanzo si incontrano inoltre alcuni accenni alla teoria della metempsicosi. Così si legge, ad esempio, al cap. LI (p. 218): «ci trovammo lanciati in questo mare torturato dove esseri colpevoli, trasformati in quegli uccelli e in quei pesci, parevano condannati a nuotare e nuotare in eterno». Un riferimento alla reincarnazione torna poco dopo, nel romanzo:
«Eppure è la vita. Perché noi mortali, non appena, con lunghe fatiche, […] abbiamo imparato a vivere quaggiù in nitidi tabernacoli dell’anima, […] partiamo per affrontare qualche altro mondo, e ripassiamo attraverso tutta la vecchia routine della nostra gioventù. Oh la metempsicosi! Oh Pitagora che sei morto duemila anni fa nella Grecia luminosa, così buono, così saggio, così gentile; ho navigato con te lungo la costa peruviana nel mio ultimo viaggio, e stupido che sono, ho insegnato a te, semplice ragazzotto novellino, come si impiomba una cima». [24]
Ma questo interesse per le fantasiose teorie della trasmigrazione delle anime in realtà fa parte di una visione di più ampio respiro, ascrivibile a una sorta di proto-animalismo che, insieme all’interesse verso le diverse manifestazioni della vita, si trasfonderanno in quello slancio animistico che sta alla base del rapporto di Melville col mondo. Slancio che si tradurrà in un’instancabile ricerca di quella “specie di vitalità generica e panteistica” di cui parla quando gli pare di scorgerla ancora nascosta “nelle giunture e nelle ossa” dei cadaveri di pescicani «dopo che se n’era andata ciò che potremmo chiamare la vita individuale» (cap. LXVI, p. 277). Nell’ambito di questa visione emerge una simpatia, o naturale compassione (intesa nel suo senso letterale) verso tutti i viventi, già ben chiara laddove afferma, con accenti che ci appaiono addirittura precursori del moderno veganismo:
«Senza dubbio il primo uomo che uccise un bue fu considerato un assassino; forse fu impiccato; e se fosse stato processato da buoi lo sarebbe stato certamente; e certo se lo sarebbe meritato»! (cap. LXV, p. 275); «se la caverà meglio quel previdente figiano, dico nel giorno del giudizio, che non tu, ghiottone incivilito e illuminato che inchiodi per terra le oche, e banchetti coi loro fegati gonfi nel tuo paté de fois gras» (p. 276)
E che dire allora dell’anima delle balene? «La loro grandezza enorme rende difficile credere davvero che simili masse corpulente di materia abnormemente sviluppata possano essere impregnate, in tutte le loro parti, dello stesso genere di vita che anima un cane o un cavallo» (cap. LVIII, p. 253); «sono spinto a questa conclusione da considerazioni relative alla grande dignità e sublimità intrinseche al capodoglio. Non lo considero un essere comune e basso […]. Esso è massiccio e profondo. E io sono convinto che dalla testa di tutti gli esseri massicci e profondi come Platone, Giove, il Diavolo, Pirrone, Dante, e così via, si levi sempre un certo vapore semivisibile quando essi stanno pensando profondamente.» (cap. LXXXV, p. 336)
Pare legittimo leggervi in controluce il folgorante passo in cui già Bayle precisava che le differenze tra anima di uomo e di animale «sono soltanto accidentali e non un segno di distinzione specifica tra soggetti. Aristotele e Cicerone, all’età di un anno, non avevano pensieri più sublimi di un cane […]; è un fatto puramente accidentale che essi abbiano superato gli animali». [25]
Ragion per cui «umana o animale, la misteriosa fronte è come quel gran sigillo aureo apposto dagli imperatori tedeschi ai loro decreti. Significa: “Dio: fatto oggi di mio pugno”» (cap. LXXIX, p. 313). Un Dio di cui anche l’animale bruto pare in qualche modo consapevole. Troviamo infatti nel testo di Melville tutta una serie di curiosi raffronti, fatti a più riprese tra balena e elefante che non ci sembrano casuali: «A che cosa dovrò dunque assomigliare il capodoglio per la fragranza, considerando la sua mole? Non dovrò assomigliarlo a quel famoso elefante dalle zanne ingioiellate, e fragrante di mirra, che fu portato fuori da una città indiana per rendere onore ad Alessandro Magno?» (cap. XCII, p. 368); «La vista della lancia in frantumi pareva renderlo [si parla qui di Moby Dick] pazzo, come il sangue d’uva e di more gettato davanti agli elefanti d’Antioco nel libro dei Maccabei» (cap. CXXXIII, p. 481).
Essi sembrano convergere in “quello strano spettacolo che si osserva in tutti i capodogli morenti, il volgere della testa verso il sole nello spirare”: «Volta e rivolta la fronte al sole, con tanta lentezza ma con tanta costanza, per rendergli omaggio e invocarlo con gli ultimi movimenti dell’agonia. Anche lui adora il fuoco, lui il più fedele, il più grande e nobile vassallo del sole!» (cap. CXVI, p. 437). Una descrizione che vuol forse rimandare direttamente al costume di quegli elefanti descritti da Plinio, e citati nel Dizionario: loro — oltre a comprendere la lingua del paese in cui abitano, ubbidire ai comandi e possedere la facoltà della memoria, provare il piacere dell'amore e della gloria — addirittura «hanno un sentimento religioso verso gli astri, venerando il sole e la luna». [26]
Si manifesta così il presupposto per una sorta di religione naturale che, in Melville, assume l’aspetto di quella che, riprendendo un’espressione gadameriana, può essere denominata una “metafisica panteistica dell’individualità”. Un panteismo che Melville recupera in virtù di una sorta di sentimento pre-razionale.
In una lettera a Hawthorne, datata giugno 1851, Melville scrive in un nota bene: «In questo sentimento del “tutto”, però, c’è del vero. Devi averlo spesso provato, disteso sull’erba in un caldo giorno d’estate. Le gambe sembrano mettere radici in terra. I capelli sul capo danno l’impressione di foglie. Questo è il sentimento del tutto».
Si tratta della lieta accettazione del Mitsein, o Mitdasein, quindi, attraverso un ecumenismo naturale che Melville sembra abbracciare pienamente quando recupera il significato etimologico di “Chiesa Cattolica”, nella sua componente aggettivale, come «la grande e sempiterna prima congrega di tutto questo mondo di Dio. A essa apparteniamo tutti, anche se qualcuno di noi coltiva qualche ghiribizzo che però non tocca affatto la fede generale. E in questa ultima ci diamo tutti la mano» (cap. XVIII, p. 92). Una “chiesa” ben lungi da quella confessionale:
«Non ho niente da dire contro la religione di nessuno, qualunque sia, fintanto che questa persona non si metta ad ammazzare e insultare nessun altro perché quest’altro individuo non ci crede pure lui. Ma quando la religione di un uomo diviene pazzia autentica, quando si trasforma in vera e propria tortura, e insomma rende questa terra nostra una scomodissima locanda, allora mi pare proprio il momento di pigliare a parte quell’individuo e farsi una piccola discussione» (cap. XVII, p. 89).
«Ho l’impressione che la Divinità sia frantumata come il pane della Cena, e che noi ne siamo i pezzi. Di qui quest’infinita fratellanza di sentimenti», [27] aggiunge Melville, in un passaggio della lettera a Hawthorne. Melville appunto si riconosce come un frammento, per dir così, “transustanziato” di questa deità, che finalmente torna a disvelare la sua “personalità” benigna.
Giunti alla fine di questo percorso, ecco dunque riaffacciarsi, per nulla chiarito, lo stesso problema da cui ci si è mossi: qual è la vera natura di Dio?
Come nota sempre Bell «a final knowledge can be reached only intuitively» [28] (così rimanendo, per forza di cose, perlopiù incomunicabile), «perché tutti hanno dubbi, molti negano, ma dubitando o negando sono pochi quelli che assieme hanno intuizioni. Dubbi su tutte le cose terrene, e intuizioni di qualche cosa divina; questa combinazione non produce né un credente né un miscredente, ma un uomo che considera il credere e il non credere con occhio uguale». [29]

Il presente testo è già apparso, in una versione più ampia, con il titolo “Sometimes I think there’s naught beyond.” Ovvero: le influenze del Dizionario Storico-Critico di Pierre Bayle sul Moby Dick di Melville, in Etica & Politica / Ethics & Politics (2013) XV/2.


[1] H. Melville, Moby Dick [1851], a cura di Nemi D’Agostino, Garzanti, Milano 1992, p. 114.
[2] G. Baldini, Moby Dick o le ambiguità, Riccardo Ricciardi Ed., Napoli 1951, p. 48.
[3] «I bought a set of Bayle’s Dictionary the other day, & on my return to New York I intend to lay the great old folios side by side & go to sleep on them thro’ the summer.» Lettera citata come incipit dei rispettivi saggi sia da M. Bell, “Pierre Bayle and Moby Dick”, Publications of the Modern Language Association of America (PMLA), New York, Sept. 1951, pp. 626-648 e che da J.P. Jossua, Pierre Bayle ou l’Obsession du Mal, Aubier Montaigne, Paris 1977.
[4] M. Bell, “Pierre Bayle and Moby Dick”, cit., pp. 626-648.
[5] P. Bayle, Dizionario storico-critico, Editori Laterza, Roma-Bari 1999, art. “Pauliciani”, nota (I), pp. 79-80.
[6] H. Melville, Moby Dick, cit., cap. IX, p. 51.
[7] Ivi, cap. CII, p. 401.
[8] Ivi, cap. XLIX, p. 211.
[9] Ivi, cap.VII, p. 47.
[10] M. Bell, “Pierre Bayle and Moby Dick”, cit., pp. 626-648.
[11] H. Melville, Moby Dick, cap. LXIX, p. 282.
[12] J.P. Jossua, Pierre Bayle ou l’Obsession du Mal, cit..
[13] H. Melville, Moby Dick, cit., cap. XXIII, p.106.
[14] G. Baldini, Moby Dick o le ambiguità, cit., p. 49.
[15] E. Honig, Dark Conceit. The Making of Allegory, Oxford University Press, New York 1966.
[16] H. Melville, Moby Dick, cit., cap. I, p. 19.
[17] P. Bayle, art. “Pauliciani”, nota (D), in Dizionario storico-critico, cit., p. 36
[18] M. Bell, “Pierre Bayle and Moby Dick”, cit., pp. 626-648: «Sea as symbol of the menacing qualities of life».
[19] H. Melville, Moby Dick, cit., cap. CXI, p. 427.
[20] Platone, Cratilo [408, b-c].
[21] Corsivi miei.
[22] H. Melville, Moby Dick, cit., cap. CXXXV, p. 499.
[23] Ivi, cap. LXXXVII, pp. 348-349 e n. 1.
[24] Ivi, p. 383.
[25] P. Bayle, art. “Rorario”, nota (E), in Dizionario storico-critico, cit., p. 171.
[26] Ivi, nota (D), p. 163.
[27] H. Melville, Opere Scelte, Mondadori, Milano 1972, p. 1147.
[28] M. Bell, “Pierre Bayle and Moby Dick”, cit., pp. 626-648.
[29] H. Melville, Moby Dick, cit., cap. LXXXV, p. 337.



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