Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica
2015


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info


Deleuze vent’anni dopo
A cura di Giuseppe Crivella




Gilles Deleuze e il Perí Physeos di Louis Wolfson
di Marco Baldino

5 novembre 2015


Les moralistes chrétiens cherchaient les traces de la chair qui s’étaient logées dans les replis de l’âme. Deleuze et Guattari, pour leur part, guettent les traces les plus infimes du fascisme dans le corps.

(M. Foucault)

Nella Prefazione al libro di Louis Wolfson, Le schizo et les langues (Gallimard, Paris, 1970), Gilles Deleuze rileva quanto segue: Wolfson è egli stesso schizofrenico. Tema del libro è il ‘procedimento’ messo in atto da Wolfson per governare la propria esperienza o, per essere del tutto chiari, la propria follia.

Deleuze critica la psicanalisi, ma non si tratta di una critica di prammatica. La psicanalisi — egli dice — ha un solo torto, quello di ricondurre le avventure della psicosi al circolo familiare, all’eterno ritornello papà-mamma, cioè alla questione edipica. In realtà lo schizofrenico, in quanto tale, pensa e agisce non all’interno di categorie “familiari”, ma all’interno di categorie mondiali o addirittura cosmiche. Secondo Deleuze, il giovane Wolfson potrebbe per esempio accettare tranquillamente i suoi padre-e-madre così come sono, modificando alcune delle sue conclusioni spregiative nei loro confronti e magari ritornare alla lingua materna che egli, con l’invenzione del procedimento, vorrebbe in verità uccidere. Quello che la psicanalisi non vede è il fatto che Wolfson è malato non nel suo “padre-e-madre”, ma del mondo.

Ora, tutta la questione del “procedimento” sembra, a prima vista, girare proprio intorno alla figura della madre e del padre, alla resistenza nei confronti di tutto ciò che è metaforicamente riconducibile alla madre: la lingua madre, il cibo, la malattia e all’esaltazione di tutto ciò che rinvia metaforicamente al padre: il sapere, le catene di atomi, le lingue straniere... È questo che la psicanalisi insegna a vedere, è con queste categorie che insegna ad affrontare la psicosi. Ma non funziona. Ciò che lo studente di lingue schizofrenico chiama “madre” è in realtà un’organizzazione di parole che gli è stata messa nelle orecchie:
  1. «non è la mia lingua ad essere materna: è la madre che è una lingua»;
  2. «non è il mio organismo che deriva dalla madre: è la madre che è una collezione di organi, la collezione dei miei organi».
Ciò che Wolfson chiama ‘Madre’ è in realtà la ‘Vita’ e ciò che chiama ‘Padre’ è in realtà l’estraneità, ossia tutte le parole che non conosce, tutti gli atomi che continuano a entrare e uscire dal corpo: «non è il padre che parla le lingue straniere e conosce gli atomi, sono le lingue straniere e le combinazioni atomiche a essere mio padre»; il padre è il popolo dei suoi atomi e l’insieme delle sue glossolalie — insomma, il padre è il sapere.

Tra il sapere e la vita vi è una lotta irriducibile. Il problema dello studente di lingue schizofrenico non è quindi un problema legato a questioni familiari (come liberarsi della madre malata, come assomigliare al padre assente), ma un problema metafisico: come giustificare la vita così com’è, cioè sofferenza, a volte urlo, sempre «cattiva materia malata».

In un primo momento Wolfson sembra optare per la seguente soluzione: la sola giustificazione della vita è il sapere, il quale è di per sé il Bello e il Vero.

Ma un giorno incontra la vera ‘rivelazione’: la vita è assolutamente ingiustificabile, e allora la vita e il sapere non si contrappongono più, anzi, non si distinguono neanche più. Ecco allora il senso del procedimento: tutte la parole raccontano una storia di vita e di sapere; questa storia è ciò che c’è di impossibile nel linguaggio, il suo fuori. Questa storia è resa possibile solo da un procedimento che testimonia la follia.

Il limite del procedimento di Wolfson è però che esso spinge sì il linguaggio al limite, ma non lo oltrepassa. Il problema, secondo Deleuze, è invece attraversare da vincitore le regioni della ‘sragione’, «affrontare dall’altro lato del limite [del linguaggio] le figure di una vita sconosciuta e di un sapere esoterico».

Secondo Deleuze questa navigazione pericolosa è riuscita a Roussel, a Brisset, a Artaud, ma non a Wolfson, anche se Wolfson ha messo a nudo la trama del procedimento. Il libro di Wolfson — scrive Deleuze — non è un’opera scientifica. Un metodo scientifico implica sempre la determinazione di una totalità formalmente legittima, mentre è del tutto evidente che la totalità di riferimento di Wolfson (l’insieme indefinito di tutto quanto non è la “lingua madre”) è una totalità illegittima (mancano del tutto le regole sintattiche che facciano corrispondere i sensi a suoni e ordini le trasformazioni dell’insieme di partenza). Wolfson vive perciò il proprio pensiero come il duplice simulacro di un sistema poetico-artistico e di un metodo logico-scientifico.

Riassumendo:
Le caratteristiche fondamentali di tale “procedimento” sono quindi le seguenti:
  1. ad esso non corrisponde alcun metodo scientifico — tale procedimento manca infatti del necessario riferimento ad una totalità formalmente legittima data;
  2. esso non possiede regole in base alle quali ordinare le trasformazioni dell’insieme di partenza;
  3. simula nello stesso tempo l’andamento di un sistema poetico-artistico e, contraddittoriamente, quello di un metodo logico-scientifico.
Il procedimento di Wolfson è tuttavia un modo per governare un’esperienza che si presenta a tutta prima ingovernabile e quindi, in un certo senso, esso è proprio una sorta di Perí Physeos, una sorta di ontologia sorgiva.

Il procedimento di Wolfson non consente di esplorare le regioni del fuori per tornarne dentro vittoriosi (Wolfson non è Roussel, Brisset, Artaud), il suo procedimento è piuttosto la registrazione strumentale del travaso delle forze del fuori nella regione del dentro, o anche del venir meno della stessa frontiera dentro/fuori. Quello di Wolfson non è quindi un problema di trasgressione, quanto un problema di implosione.

Questa ‘implosione’ produce una sospensione confusiva del pensiero e del non-pensiero, tanto da modificare irreversibilmente lo statuto stesso del filosofico.

Si tratta della desintetizzazione dell’Occidente: la ‘desintetitazzione’ è ciò che consuma tutte le totalità legittime e, insieme, i procedimenti eroici di esplorazione del fuori: non c’è più un vero e proprio fuori, o c’è sempre meno, e quindi non c’è più nemmeno un vero e proprio dentro.

In una società — scrive Deleuze — razionale è il modo in cui la gente cerca di raggiungere e di realizzare i propri interessi, ma giù, sotto, troviamo desideri, investimenti di desiderio che non possono essere confusi con gli investimenti di interesse, si tratta di ogni genere di flussi libidinali inconsci che preparano il delirio di questa stessa società e che in qualche misura ne fanno parte, ne costituiscono il principio di rovesciamento. [1] Per capire a fondo questo spunto è necessario riferirsi al binomio buco nero/parete bianca, a cui Deleuze e Guattari si sono spesso riferiti. Se il buco nero è il bozzolo del pensiero invorticato intorno a se stesso, al proprio centro, al proprio asse, diciamo la caratteristica di un pensiero identitario e arrotolato intorno al sistema della propria tradizione (edipico o caratterizzato dal ritornello papà-mamma nel caso di Wolfson), pensare, nel senso di Deleuze, è invece inventare una linea di fuga o di abbandono del buco nero, avventurarsi sulla parete bianca, bianca perché priva degli specifici riferimenti di quella tradizione (per esempio il procedimento di Wolfson). Questo abbandono o fuga è, dice testualmente Deleuze “una specie di delirio”, laddove ‘delirare’ significa propriamente “uscire dal solco”. Ogni società, si potrebbe dire, ha il suo proprio delirio, anzi lo coltiva come un baco nel suo intimo. Il fatto che ci sia esplosione o implosione dipende dalle caratteristiche della società stessa, come una stella che, nella sua evoluzione, può divenire una supernova o un buco nero o una gigante rossa in base alla sua massa di partenza.

Non c’è un modo di lottare contro questo o quello, non c’è una “razionalità rivoluzionaria” rinvenibile a priori, ma solo la coltivazione di un Perí Physeos, di una visione del cosmo. Se questa finisce per dar luogo a un grande bouleversement, come nel caso di Roussel, Brisset, Artaud, allora abbiamo i grandi rivolgimenti spirituali, le rivoluzioni del pensiero, nascono così le supernovae. Se, all’opposto, abbiamo l’elaborazione di un modo di stare al mondo che è solo un personale stratagemma (procedimento) per resistere in questo mondo così com’è, come nel caso di Louis Wolfson, allora questa strana cosmologia, per Deleuze rientra a pieno titolo nel novero delle esperienze in perdita e, per quanto il suo profilo sia “molto speciale”, è e resta follia. Deleuze decreta pertanto la morte di Louis Wolfson nella forma della gigante rossa: una stella che muore per rarefazione, ingigantendosi e raffreddandosi, che inghiotte tutta la materia su cui riesce ad estendere il proprio ‘procedimento’, per geniale che esso sia.


[1] G. Deleuze e F. Guattari, «Capitalismo: un delirio molto speciale», tr. di M. Baldino, “Tellus”, n. 22, gennaio 2000, pp. 109-110.


Louis Wolfson


Home » Culture Desk » Deleuze vent'anni dopo


© 2015 kasparhauser.net