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Anoressia mentale e assenza del limite: il volto mortale della contemporaneità
di Omar Montecchiani

10 marzo 2013


Mentre in prossimità di ogni nuova edizione si rinnovano incessanti — e contrastanti — le voci relative a una presunta esclusione dal DSM del disturbo narcisistico di personalità, si fa sempre più incombente la necessità di un ampliamento/diffusione delle misure preventive rispetto ai disturbi del comportamento alimentare nell’epoca iper-moderna. L’accostamento tra l’esclusione del narcisismo patologico (come categoria) dal manuale diagnostico per eccellenza, e l’espansione epidemica dei DCA oggi — e, nello specifico, del disturbo anoressico — non è né arbitrario né aleatorio.

Se da una parte psicoterapeuti, psichiatri e psicologi adducono la eventuale importante assenza a una questione di problematica teoretica interna, relativa a una definizione coerente e indiscussa — assoluta — del disturbo narcisistico di personalità, dall’altra, le ipotesi “complottistiche” si rifanno a presunte questioni economiche globali, riguardanti assicurazioni, farmaci etc., di cui potenti multinazionali della “salute” tirerebbero le fila. Ma al di là di questo duplice scenario in fondo “consolante” nella specificità delle oggettivazioni teoretico-economiche, si affaccia — sganciandosi e collegandosi peraltro, al tempo stesso, con le altre due teorie — un’ipotesi del tutto plausibile e inquietante, se innestata all’interno del mondo iper-reale dell’immagine, della tecnologia virtuale e del consumismo globale: i tratti narcisistici di personalità (a differenza della macrocategoria del disturbo narcisistico di personalità) sarebbero penetrati in modo così diffuso e pervasivo tra la popolazione, da mettere in discussione la possibilità di esercitare una diagnosi del disturbo che, appunto, possa dirsi tale in senso forte. Se siamo tutti malati, siamo tutti sani.

Questa congettura può essere resa ancora più concreta se — per tornare alla polarità evidenziata in precedenza — all’interno di una ipotetica società narcisistica (per citare un famoso libro degli anni ’70 di C. Lasch) andiamo a rilevare i tratti di una società funzionalista, meccanicizzata, automatizzata in ogni interstizio economico-finanziario, ma anche culturale e spirituale. In cui l’utilità, il possesso, il dominio, lo sfruttamento, l’inaridimento emotivo e morale ma soprattutto la fragilità dell’identità in generale, rappresentano i tratti specifici oltre che del narcisismo patologico, anche del disturbo anoressico, che di quello acquisisce evidentemente i tratti principali ed eclatanti, e che — insieme all’altro — si sta sviluppando in modo esponenziale.

Ma se da una parte si potrebbe dire che il disturbo anoressico rappresenta l’acme, l’intercettazione psicofisica e la radicalizzazione di un processo sociale globale in corso, d’altra questa estremizzazione è il segno, forse, dello svilupparsi di una nuova tendenza abitativa, di una nuova Weltanschauung: di una modalità di progettazione umana, che in alcuni soggetti più sensibili e recettivi scivola verso derive estreme e visibili rispetto alle altre forme sottosoglia, rispetto dunque a un disturbo-tratto narcisistico di personalità frustrato — “fragile”, direbbe Lasch.

Discorso provocatorio, certo. Ma in fondo non del tutto insostenibile, se si prende in esame la “densità narcisistica” interna alla patologia anoressica, che nella radicalità dei suoi cortocircuiti fenomenologici lascia emergere l’insostenibilità propria della società attuale, rispetto allo scandalo della morte in un’epoca medicalizzata, l’incontrollabilità del desiderio o addirittura alla sua scomparsa/deriva, nell’epoca dei gadget e del bisogno compulsivo e fuori discorso (Recalcati, Lacan) — l’intollerabilità della frustrazione, in primis, rispetto alla incapacità di dominare l’atmosfericità impalpabile e sfuggente di un mondo liquido privo di confini.

La cosiddetta rigidità anoressica e la sua fragilità/conflittualità conseguente, sembrano essere diventati la concrezione segnica “corporea” del mondo contemporaneo. Un mondo sostenuto da un sistema sostanzialmente autosufficiente e autorigenerantesi, in cui i bisogni dell’uomo vengono continuamente soddisfatti e ricreati, da quello stesso sistema che ne stimola l’incolmabilità, e al tempo stesso offre l’illusione della loro soddisfazione perpetua, e anzi della loro omeostasi interna, rispetto all’insoddisfazione/frustrazione degli impulsi. Un mondo, soprattutto (quello occidentale, ovviamente), sovralimentato oltre ogni misura, come mai lo è stato in tutte le epoche passate dell’umanità. Mondo iper-tecnologico e iper-reale: proteso da una parte verso una perfettibilità estetica indefinita e vorace — che non tollera imperfezione alcuna — e, dall’altra parte, connotato dalla violenza implosiva proteiforme e ipertrofica di una realtà virtuale globale, che ridefinisce annichilendole le leggi dello spazio e del tempo vissuti. In-differenza, de-spazializzazione, trasparenza integrale dell’apparenza e non rinvio dei segni ai significati.

In sostanza, se da una parte abbiamo un sistema essenzialmente autosufficiente, che richiede la nostra presenza solamente in quanto spettatori, o, al più, in quanto consumatori, dall’altra l’epoca globale viene a definirsi in virtù del suo carattere reificante, ma soprattutto omologante, in cui l’iper-produttività va di pari passo con l’assenza del limite, e, ovviamente, del fuori discorso (in senso lacaniano).

Impigliato in queste dinamiche fondamentali della società contemporanea, l’individuo perde la sua capacità critica, il “potere del negativo”: questo perché non si ha più bisogno di andare alla ricerca di un orizzonte di senso che sostenga la nostra visione dell’universo e della nostra vita: ci sarà sempre qualcuno che ce ne potrà offrire una migliore, di quella che potremmo mai produrre noi (e comunque una vale l’altra). Abbiamo bisogno invece di non avere più bisogni: di funzionare bene, di essere competenti ed efficienti in senso forte.

A partire da questo discorso e da queste polarità, l’individuo si trova a vivere dunque una dimensione paradossale, all’interno di un mondo che misconosce continuamente se stesso e i propri artifizi. Un sistema-mondo totalmente automatizzato, penetrato ad ogni livello psicosociale e impenetrabile al tempo stesso — in virtù dei suoi automatismi e della sua autoreferenzialità —, che “nutre” i soggetti attraverso prodotti umani omologati, secondo schemi decisionali precostituiti e obbliga(n)ti. Al di là quindi di ogni possibilità di scelta creativa, spegnendo in tal modo ogni articolazione dialettica della volontà e instaurando, al tempo stesso, uno stato di dipendenza (con)fusionale, in cui la libertà formale si articola a una impossibilità sostanziale. Fondamentalmente, si è soggetti da una parte a una passività integrale rispetto all’efficienza autotrofica del sistema, immersi in una condizione di dipendenza sostanziale, ma dall’altra la sovrabbondanza della profusione delle merci e la reversibilità dei codici richiede comunque una gestione — seppure passivizzante e alienante rispetto a quanto detto sopra.

Dipendenza e sovrabbondanza creano nell’uomo — a partire dal loro alimentarsi reciproco – un’ambivalenza interiore lacerante, all’interno della quale le fobie abbandoniche e l’insostenibilità rispetto alla solitudine e all’isolamento emotivo, confliggono con i fantasmi di invasione e il terrore cannibalico dell’Altro da sé.

In questo contesto paradossale la dialettica controllo-discontrollo diventa quasi una drammatica necessità. Sulla scena del mondo contemporaneo dilaga dunque l’anoressia come simbolo umano estremo della patologia del desiderio, del limite, dell’alterità. La volontà deve controllare l’incontrollabile appunto, l’irriducibile, l’imperfetto: il corpo, l’Altro, i desideri, i bisogni, le emozioni, la morte, per poter controllare tutto il resto — e viceversa. La volontà a questo punto si sgancia da qualsivoglia dialettica identitaria che non faccia riferimento al dominio e al controllo: si verticalizza, a partire dall’ideale della purezza, della perfezione e, in sostanza, da una idilliaca omeostaticità ideale assoluta e impossibile. Cortocircuitazioni emotive e relazionali queste che si impongono come un destino necessario, rispetto all’assenza del limite, alla positività assoluta (“denegazione”, direbbe Baudrillard): alla scomparsa della legge.

La patologia anoressica sembra effettivamente diventare da questo punto di vista espressione privilegiata ed estremizzata sia del disagio sociale in cui siamo immersi, sia dei tentativi contrastanti e contraddittori che vengono messi in atto per uscire da questo stesso disagio. E gli aspetti narcisistici della patologia emergono, come è possibile intuire, in tutta la loro più alta espressività e radicalizzazione.

Entrando nel merito del disturbo rispetto a quanto detto sopra, si potrebbe dire che il discorso anoressico risulta essere da una parte una ricerca disperata di identità assoluta, integra, che teme e respinge con determinazione incrollabile qualsivoglia separazione e/o limite identitario rispetto all’Altro, al desiderio, al corpo pulsionale e al corpo inteso come Leib — rispetto, sostanzialmente, al mondo inteso come “orizzonte di ogni esperienza possibile”, direbbe Husserl. Ma dall’altra, l’esclusione dell’Altro da sé e di sé dal mondo — in una presunta e falsificante autonomia essenzialista — non può che radicalizzarsi in una spinta alla morte, che, paradossalmente, mistifica il senso più “umano” della morte, intesa cioè come limite “mobile” che retrospettivamente — ma anche coessenzialmente — “significa” l’irreversibilità del divenire temporale, l’irriducibilità e la specificità di tutte le “piccole morti” che compongono e scompongono il flusso della vita (1).

L’anoressica infatti lascia emergere dalla sua stessa carne l’assurdità circolare di una negazione simbolica della morte — che però, paradossalmente, porta alla morte reale del soggetto.

L’individuo etereo, despazializzato e detemporalizzato — eterno —, che sottopone a un controllo spietato e a un dominio integrale il proprio corpo si trova — in una sorta di crudele legge del contrappasso — ad asservire il suo stesso corpo, reso ancora più mortale e precario da una oggettivazione radicale e incurante, mortifera, e a subirne lo scacco (2). La fame ritorna, le imperfezioni diventano fobie, il corpo dell’altro e le sue stesse richieste diventano invadenti, minacciose, inquietanti. Sembra che la separazione e l’isolamento non si siano realizzate correttamente, autenticamente – sono solo una finzione dell’Ideale del corpo magro che cerca in tutti i modi di sostenere la sua logica impossibile attraverso il controllo della privazione (3). Mineralizzazione, glaciazione, pietrificazione (4): l’anoressica pietrifica – come una testa di medusa rovesciata che misconosce il suo stesso potere — sia l’altro che se stessa. L’annodarsi conflittuale e fecondo di Eros e Thanatos — come il mito di Dioniso stesso ci ricorda – cede all’autodistruzione iper-realistica dell’autonomia del soggetto anoressico.

Rapporto obiettivante e pietrificante dunque quello che stabilisce l’anoressica con l’altro da sé, in cui emerge una dinamica tipica del narcisismo estremo: per controllare le emozioni dell’altro, per ottenere dall’altro ciò che voglio, devo io stesso pietrificarmi, devo diventare io stesso l’immagine ossea della morte, congelare le mie emozioni, reificare la mia esistenza in un corpo-oggetto assoluto, attivando solamente una volontà plasmatrice e misconoscitrice rispetto alle sue intenzioni, ma anche — come sempre nella dialettica a doppio taglio distruzione-autodistruzione — rispetto alle capacità di autorealizzazione che questa possiede, relativamente alla mia soggettività autentica.

In questo tipo di dinamiche relazionali, il desiderio, in virtù dell’aporetica costitutiva fondamentale che lo contraddistingue (secondo la definizione che ne ha dato Lacan) rappresenta il “fuori controllo” in senso assoluto del soggetto. Da una parte infatti il soggetto risulta essere “dipendente” dal desiderio dell’Altro, all’interno della dialettica del riconoscimento simbolico di sé a partire dall’Altro del desiderio (io desidero che l’altro desideri il mio desiderio per lui); ma dall’altra il soggetto sente che il desiderio “deve” essere ricondotto a sé, secondo una “istanza etica” interna al desiderio stesso, che si rivela in questo caso essere una spinta alla propria realizzazione che non “dipende” dall’Altro (5).

Lo “spossessamento” del soggetto – che si crede non-diviso e unico nella sua dimensione autistico-narcisistica, atrofizzato nella sua follia “uniana” – è infatti la dinamica fondamentale del desiderio (6). Ora, sottolineando il collegamento del discorso della mancanza del limite nell’epoca contemporanea, con la relativa espressione/risposta patologica di questo fenomeno rispetto all’anoressia, si può dire che sia proprio la dimensione della mancanza costitutiva dell’uomo e dell’angoscia che se ne prova — specialmente nel momento in cui questa si riannoda patologicamente al desiderio dell’altro (7) — che l’anoressica misconosce, e che la rende schiava di un godimento pulsionale hic et nunc, come nell’assunzione delle droghe (ricordando la categoria di “dipendenza” usata in precedenza), in cui è proprio la dimensione dell’alterità che viene a mancare. Per contrasto, il discorso vale anche per la forma “apparentemente” opposta alla patologia anoressica — il nucleo psicopatologico è lo stesso infatti: la bulimica infatti mangia in solitudine il proprio cibo-roba, l’anoressica gode in solitudine del suo vuoto-roba (8). Ed proprio la dimensione del desiderio quindi, che assume una valenza patologica emblematica all’interno del discorso anoressico (9).

Nella anoressia “isterica” (o nervosa), l’anoressica non gode propriamente — come nella anoressia psicotica — del vuoto nientificante (e non alienante) del nulla autistico e nirvanico del proprio deserto del desiderio: c’è ancora una parvenza di soggettivazione del sintoma, che, in questo caso, si articola ancora all’Altro del desiderio. L’anoressica stessa cioè si fa “segno”, non-cosa: si fa mancanza per aprire una mancanza nell’altro (10). Il “niente”, il NO anoressico, diventa “l’oggetto” che permette di separare il bisogno dal desiderio, e il desiderio dalla sua soddisfazione e dalla sua alterità in-aggirabile — dalla sua aporetica di fondo. Rifiutando di mangiare ciò che l’altro asfissiante “ha” e può dargli, l’anoressica non mette semplicemente in moto una dinamica di negazione di una attività: ma, come si dice, “mangia niente” (11), mangia ciò che non esiste materialmente, ciò che l’altro “non ha” cioè, nel tentativo di colmare una mancanza che nemmeno “tutto il pane del mondo” potrebbe colmare. Perché, paradossalmente, non si è verificata quella mancanza costitutiva del desiderio che avrebbe dovuto verificarsi.

L’istanza fusionale con l’Imago materna, regressiva, mortifera, sta a indicare esattamente l’angoscia per la “mancanza di mancanza”, e si ricollega al tentativo di separazione di cui sopra.

Ecco allora emergere a questo proposito una dicotomia fondamentale segnalata dalla psicoanalisi — ma evidentemente anche di dicotomia esistenziale si tratta —, che si incarna a titolo esemplare nella manovra anoressica. Da una parte il soggetto anoressico ricerca il godimento primordiale e fusionale con la madre, nel tentativo di evitare la separazione e di ritrovare la totalità perduta (12) (rappresentata dal vuoto aperto dalla rottura dello svezzamento), esplicandosi dunque come la parte “melanconica” dell’anoressia, quella che ricerca la totalità integrale (la melanconia intesa come rifiuto del lutto in Freud); ma dall’altra, la presenza asfissiante, ingombrante, dilagante della madre (dell’Altro fondamentalmente), che sfama questo desiderio d’amore attraverso il cibo e non attraverso il niente d’amore, “deve”, secondo la manovra anoressica, desiderare altro da lei e in lei, oltre al suo essere un “tubo digerente” (13). Ma all’angoscia della “mancanza della mancanza” segue l’angoscia per il “più di godimento”, per l’eccesso di godimento. Ecco allora che se il soggetto bulimico “mangia il niente” in quanto, nella sua spinta alla divorazione dell’oggetto-Cosa, ciò che importa è proprio ciò che non ha ancora mangiato (14), l’anoressica “mangia il niente” nel senso che è proprio a partire dal suo rifiuto del “qualcosa” che si fa presente la sua fame di niente, cioè d’amore.

Riassumendo: il sintoma anoressico si presenta da una parte come una manovra di separazione, di allontanamento dalla dimensione meramente cosale, misconoscente e invasiva del rapporto con l’altro (l’altro che offre soltanto cibo, riducendo il soggetto desiderante a corpo-oggetto, tubo digerente da riempire); dall’altra, lo stesso sintoma si presenta come richiesta di un “segno d’amore” — anzi, è l’anoressica stessa che incarna, nel sottoporre il suo corpo alla privazione del cibo, l’essenza del puro desiderio d’amore (15). Sintetizzando al massimo, si potrebbe dire infatti che l’amore non è una “cosa”, ma è “segno” d’amore, è simbolo (16): essendo mancanza infatti, esso si definisce, in quanto assenza, non attraverso una sua figura realizzata, ma a partire dal suo darsi mediante segni (17).

Scarnificando la sua esistenza fino a farsi segno, allora,il soggetto anoressico si presenta come puro desiderio — ma il puro desiderio, è ancora desiderio di morte. L’anoressica in sostanza rifiuta di godere (del cibo) schermando in questo modo il proprio desiderio d’amore, la purezza insoddisfatta del desiderio. Questa è dunque la tesi classica sull'anoressia di Lacan: il soggetto anoressico rifiuta l’appiattimento della dimensione del desiderio su quella del bisogno, a partire però dalla con-fusione tra desiderio e rifiuto (18). Oltre a ciò, l’anoressica non solo scambia il rifiuto con l’autentico dono d’amore — che è arricchimento, trascendenza e fede —, ma il dono d’amore e l’elevazione dell’Io nel rapporto d’amore, con lo “scambio” d’amore: e cioè, nel tentativo di mantenimento della purezza del desiderio infinito e senza incrinature, pensa al rapporto con l’altro del desiderio come a un “rapporto amoroso” nel senso “deviato” definito Binswanger (19) (o di Sartre), come a un rapporto di Do ut des, di scambio, di utilizzabilità, in cui il soggetto ricopre un ruolo e non esprime tutto se stesso.

Rapporto obiettivante e pietrificante dunque, in cui emerge una dinamica tipica del narcisismo estremo: per controllare le emozioni dell’altro, per ottenere dall’altro ciò che voglio, devo io stesso pietrificarmi, devo diventare l’immagine ossea della morte, congelare le mie emozioni, reificare la mia esistenza in un corpo-oggetto assoluto, attivando solamente una volontà plasmatrice e misconoscitrice rispetto alle sue intenzioni, ma anche – come sempre nella dialettica a doppio taglio distruzione-autodistruzione — rispetto alle capacità di autorealizzazione che questa possiede (relativamente alla mia soggettività autentica). L’anoressica, non riuscendo a sostenere la finitezza del desiderio rispetto all’Altro del desiderio (ma in fondo all’alterità tutta e al mondo) cerca ossessivamente, attraverso il controllo esterno del cibo, di arginare il discontrollo interno del desiderio — in una circolarità infinita in cui la ripetizione mortale di Thanatos cerca in fondo un “godimento senza desiderio”. Un godimento nella inazione, in una compulsività costante che deve alzare continuamente il tiro per eliminare l’ineliminabilità del desiderio — o meglio, il suo possibile fallimento e la sua ineliminabile aporetica interna.

«Il cibo è un’ossessione, diviene compulsione, proprio perché il pensiero non riesce a fare a meno di questa ideazione. È questa una dialettica che ruota intorno al desiderio, ci si percepisce desideranti, non si riesce a controllare la frustrazione disillusa, la si argina, così, nel suo fallimento» (20).

Possiamo ulteriormente dire allora, che questa richiesta d’amore è — al tempo stesso — una difesa assoluta e disperata “del” desiderio proprio dall’altro schiacciante e dilagante, e che si aggancia perfettamente alla classica logica anoressica del “tutto o niente” (21).

In questa manovra tragica e vitale al tempo stesso, il soggetto anoressico “sfida” l’Altro attraverso la morte, pur di costringerlo a cedergli quella mancanza d’amore perduta, e sostituitasi a quel vuoto da riempire attraverso il cibo. L’anoressica si “fa niente” flirtando letteralmente con la morte, per scomparire rispetto all’altro che vuole solo “riempirla” o divorarla (il matriarcato super-egoico) (22); e dall’altra parte il ricatto del rifiuto diventa la forma estrema per diventare visibile agli occhi dell’altro, che “deve” amarla, deve “desiderarla”, ma in quanto soggetto, e in quanto soggetto di desiderio.

Paradossalmente, di nuovo, appare la circolarità mortale e mortifera. L’anoressica rischia la vita per vivere: muore per vivere cioè — per esserci (23).

In questa antinomia distruttiva tra istanza fusionale e istanza separatrice, emergono nuovamente i tratti narcisistici fondamentali del soggetto anoressico. Vi è infatti, come abbiamo detto, una negazione del mondo e del corpo, inteso quest’ultimo non solo come catalizzatore di bisogni e desideri, ma anche come “corpo vivente”, come centro nevralgico intenzionale e impegnato, a partire dal quale può “dispiegarsi” un mondo (24), da una parte; dall’altra, la negazione del corpo inteso come centro espressivo “mobile” a partire dal quale le e-mozioni (come dinamica energetica e istintuale che si dirige dall’interno verso l’esterno) e i sentimenti, si esplicano nei confronti del mondo esterno (25). L’identificazione-assorbimento e con-fusione tra la propria immagine idealizzata, monolitica, e il proprio sé autentico, o corporeo, sta a indicare propriamente l’istanza fusionale anoressica rispetto all’altro del godimento perduto, e il tentativo di restaurazione di un ordine di realtà totale e integrale — senza incrinature. Ma anche il tentativo di autonomizzazione onnipotente e delirante (il proprio mondo diventa il mondo intero) rispetto alla realtà dei rapporti interpersonali, ai sentimenti e alle emozioni (26) che a questi si collegano, e alla contingenza quindi propria di quelli (27). Ma la negazione del sé corporeo provoca uno spegnimento interiore in cui l’irrigidimento del corpo indica l’identificazione all’immagine falsata di se, l’impotenza rispetto al proprio sentire pre-razionale, rispetto al cambiamento e alle emozioni, ai desideri, e quindi anche rispetto ad una libertà autenticante, che tenga conto della datità biologica corporea (28) e della fatticità dell’esistere (29): l’onnipotenza attraverso l’immagine del corpo magro diventa allora il termine estremo per controllare l’incontrollabile, per esistere in un corpo ineliminabile nella sua imperfezione e nei suoi cambiamenti. Il corpo diventa il teatro di una battaglia in nome di una perfezione dell’immagine, che per sua natura è impossibile da raggiungere — perché è sempre copia, sempre rappresentazione della realtà (30).

Tornando all’ambito del desiderio d’amore in senso stretto, possiamo notare quanto segue. Se il rifiuto, il “NO”, si ripete diventando compulsivo, il desiderio che viene protetto così accanitamente si procrastina all’infinito senza possibilità di essere né soddisfatto né soggettivizzato: per questo dicevo che il puro desiderio è pur sempre desiderio di morte. Se l’anoressica nevrotica infatti per preservare la sua fame d’amore assoluta deve porsi immaginariamente come causa del desiderio altrui, senza che l’altro possa accedere alla dimensione di godimento del desiderio stesso — deve cioè continuamente sottrarsi allo sguardo desiderante dell’altro per mantenere in esso quella mancanza-a-essere causa del desiderio (31) —, dall’altra parte assistiamo al fenomeno estremo del sintoma anoressico in rapporto al desiderio e all’alterità. L’altro del desiderio del soggetto anoressico cioè, si presenta come una minaccia, come invasivo, travisante, ma in modo assoluto. Ecco allora che il desiderio stesso non deve essere protetto, ma negato tout court. Nell’anoressia a base “psicotica” possiamo dire infatti che si realizza non la sublimazione delle pulsioni a partire dal contrasto tra l’Es e l’Io e tra l’Io e la realtà, ma una con-fusione tra l’Es e la realtà: se infatti, come dice Freud, nel rapporto di dipendenza dalla realtà l’Io nevrotico deve sacrificare una parte dell’Es per sostenere il principio di realtà, nella psicosi l’Es stesso invade la coscienza del soggetto che si è ritirato completamente dalla realtà, in un delirio allucinatorio identitario rigido, che tenta di sorreggere il soggetto che si è completamente sganciato dalla simbolica del reale (32).

È qui che ritroviamo il soggetto anoressico radicato totalmente nella dimensione autoconservativa e omeostatica della pulsione di morte. Al sintoma come metafora, come “significante di un significato rimosso” (33) direbbe Lacan — che già di per se indica una frattura interna all’ordine psichico del soggetto anoressico, e quindi una possibile interpretazione della verità del soggetto inconscio del desiderio — subentra l’identificazione idealizzante all’immagine del corpo magro, che riflette il movimento antidialettico per eccellenza della pulsione di morte:

«La funzione enigmatica del sintomo metaforico viene sostituita da una dominazione identitaria assicurata dal sintomo stesso. Il soggetto non si pone come diviso, come spiazzato dal ritorno del rimosso nelle formazioni dell’inconscio, come incalzato da un desiderio indistruttibile che non governa, quanto piuttosto come identificato monoliticamente (olofrasticamente) alla propria pseudoidentità di tossicomane, di anoressica o di depresso» (34).

Qui non c’è alcuna strategia ricattatoria, alcuna Alterità verso cui rivolgersi, alcun Altro cui chiedere un segno d’amore: c’è solo una volontà incrollabile che plasma un corpo mummificato, ossificato, autotrofico, autistico, che si nutre del proprio nulla, che si pone al di qua della sessualità, al di qua del desiderio e dei bisogni della corporeità.

Qui il corpo desiderante non abbraccia, non cerca nulla al di là dello spegnimento di sé: qui è il corpo stesso che si fa, nell’esperienza limite della disperazione della negazione di senso rispetto alla propria intenzionalità mondana — e rispetto a un orizzonte relazionale non-patologico — “metafora straziante della morte” (35).

In conclusione, rovesciando i termini del discorso, si potrebbe dire che la stessa tensione anoressica alla a-carnalità non essere morte, anzi, è anti-morte: è il tentativo assurdo e disperato cioè di giungere all’immortalità, negando la dimensione di finitezza umana in cui si iscrive la mortalità stessa, ma che — circolarmente — porta alla morte (36). In apparenza dunque la negazione della vita si realizza come tendenza all’omeostasi assoluta, allo spegnimento della vita; ma in senso forte, in senso eracliteo potremmo dire, essendo la vita stessa legata alla morte, essendo cioè la “contropartita” interna di questa — ed essendo la morte “l’organo-ostacolo” della vita stessa direbbe Jankélévitch — non è la negazione della vita a realizzare la morte, ma è la negazione stessa della morte che rappresenta un’azione mortifera rispetto alla vita. È la negazione della morte a essere la negazione della vita, e non viceversa.

Per concludere, l’amore fusionale (e tutti i suoi "derivati" strategici e modali) (37) — che è uno dei tratti specifici del discorso anoressico —, al fondo del quale vi è una paura abbandonica radicale, è l’espressione emblematica dell’anti vita: è la negazione del lutto cioè come — appunto — negazione della morte. Secondo questo discorso, sintetizzando, il contrario della vita non è la morte, ma la negazione della morte — è l'anti-morte.

È a partire da questa negazione fondamentale che si fa strada la metafisica rovesciata dell’anoressia: ed è da questa stessa negazione che si riflettono in essa molte delle cortocircuitazioni fondamentali dell’occidente.


(1) V. Jankélévitch, La morte, tr. di V. Zini, Einaudi, Torino, 2011, p. 124.

(2) All’interno della identità autotrofica immaginifica specificamente narcisistica, vi è la necessità di un continuo rinforzo, di un continuo rinsaldarsi impossibile e assurdo, in una identificazione idealizzante che se da una parte si appercepisce come granitica e immortale, dall’altra subisce lo scacco della frantumazione imminente, della dimensione panica, che fa dell’alterità non una risorsa arricchente, ma una minaccia incombente. Nella identificazione narcisistica all’oggetto infatti, dice Freud, l’Io è sottoposto a una possibile frantumazione, poiché le singole identificazioni sono suscettibili di escludersi vicendevolmente mediante resistenze, accaparrandosi a turno la coscienza dell’individuo. S. Freud, L’Io e l’Es, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, Vol. IX, pp. 492-493.

(3) M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2010, pp. 66-67; e M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina, Milano, 2010, pp. 73-74.

(4) Ivi, p. 97.

(5) M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Cortina, Milano, 2012, pp. 63-64.

(6) Ivi, pp. 28-31.

(7) Ivi, p. 71.

(8) F. Turoldo, Le malattie del desiderio. Storie di tossicodipendenza e anoressia, Cittadella, Assisi, 2011.

(9) F. De Clercq, Fame d’amore, Rizzoli, Milano, 2010, p. 25.

(10) J. Lacan, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale 1956-1957, tr. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2007, pp. 178-195.

(11) Ivi, p. 199.

(12) M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, cit, p. 64. (13) Ivi, pp. 67-72.

(14) Ivi, p. 73.

(15) Aa. Vv., Il rifiuto dell’altro nell’anoressia, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 23 e 64.

(16) «Il dono d’amore è dono della propria mancanza, è dono all’amato della mancanza che l’amato sa aprire nell’amante. È dono del segno che l’Altro mi manca, che la sua esistenza sa scavare in me la mancanza». M. Recalcati, Ritratti del desiderio, cit., pp. 140-141.

(17) S. Natoli, Soggetto e fondamento, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 106-107.

(18) « […] ma il bambino non si addormenta sempre così nel seno dell’essere, soprattutto se l’Altro, che pure ha le sue idee sui suoi bisogni, se ne impiccia, e al posto di ciò che non ha lo rimpinza della pappa asfissiante di ciò che ha, cioè confonde le cure con il dono d’amore. È il bambino nutrito con più amore a rifiutare il nutrimento e orchestrare il suo rifiuto come un desiderio (anoressia mentale)». J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, tr. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 1974, pp. 623-624.

(19) D. Cargnello, Alterità e alienità, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010, pp. 27-29.

(20) A.a. V.v, Il vaso di Pandora, a cura di Laura Dalla Ragione e Paola Bianchini, Censvol, Perugia, 2008, p. 11.

(21) F. De Clercq, Fame d’amore, Rizzoli, Milano, 2010, p. 34.

(22) M. Selvini Palazzoli, L’anoressia mentale. Dalla terapia individuale alla terapia familiare, Cortina, Milano, 2006, pp. 61.

(23) F. De Clercq, Fame d’amore, cit., p. 38.

(24) «Il corpo è il veicolo dell’essere al mondo, e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente»; « […] se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo; io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo». M. M.-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 2005, p. 130.

(25) A. Lowen, Il narcisismo, tr. di S. Magagnoli, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 56-71.

(26) D. Goleman, Intelligenza emotiva, tr. di I. Blum e B. Lotti, Rizzoli, Milano, 2008, pp. 288-290.

(27) A. Lowen, Il narcisismo, cit., pp, p. 49-56.

(28) K. Jaspers, Psicopatologia generale, tr. di R. Priori, Il pensiero scientifico editore, Roma, 2008, pp. 8-9.

(29) M. Heidegger, Essere e tempo, tr. di P. Chiodi e F. Volpi, Longanesi, Milano, 2006, § 29.

(30) A. Lowen, Il narcisismo, cit., p. 55.

(31) Aa.Vv., Il rifiuto dell’altro nell’anoressia, cit., p. 50.

(32) S. Freud, La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, in Opere, tr. di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, Vol. IX, pp. 39-43.

(33) J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, tr. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 1976, p. 274.

(34) M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina, Milano, 2010, p. 152.

(35) E. Borgna, Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 149-150.

(36) M. Selvini Palazzoli, L’anoressia mentale. Dalla terapia individuale alla terapia familiare, cit., pp. 89-92.

(37) C. Odier, L’angoscia e il pensiero magico: analisi psicogenetica della fobia e della nevrosi d'abbandono, Giunti-Barbèra, Firenze, 1975.


Odilon Redon, Ritratto di Arï Redon, 1897 circa.


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