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2012


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Mappare le altezze, per non sprofondare nella terra
di Claudio Risè

30 marzo 2013


Gli “spiriti malvagi” e i coboldi che da dietro rami, cespugli e alberi osservano e poi assalgono Ellen West nella sua poesia ‘I cattivi pensieri’ del 1909 (ricordata più volte da Ludwig Binswanger nel suo lavoro sulla ex paziente come prova della sua inguaribilità), non erano sempre stati così orrendi, e cattivi. Anzi nella stessa poesia tengono a ricordarle: “non sai chi siamo stati? Non sempre spiriti malvagi, non sempre prole dell’inferno. Un tempo eravamo i tuoi pensieri, le tue speranze orgogliose e pure! Ma adesso dove sono i tuoi progetti, i tuoi sogni ? Sono scomparsi tutti, avvizziti in vento e tempesta, tu stessa diventata un niente, un miserabile verme. Per questo dobbiamo svanire via nella notte nera, tanto cupi ci ha resi la maledizione che ti ha colpito”. Ellen scrive questa poesia a 21 anni. Un anno prima ha rotto, come chiedeva il padre, il fidanzamento con un “romantico straniero” (secondo l’espressione usata dal marito nella relazione sulla vita di Ellen da lui fornita a Ludwig Binswanger).

Nel diario, riporta Binswanger nell’«Esposizione del caso», (1) subito dopo aver riprodotto la poesia, nota della sua vita in famiglia: “come sa di marcio questo buco... Non stupisce che vi ritroviate con quelle sordide anime gialle.... alle vostre anime hanno dato polmoni di nanerottoli... tutto in voi è a misura di nanerottolo: pensieri, sentimenti, sogni. Voi volete piegarmi... Voglio andarmene via da qui... Ho paura di voi...”.

A volte ci riesce, Ellen a fuggire dai coboldi personali e familiari, ad andarsene da lì, per lo meno con l’immaginazione e la poesia. Questo però è già moltissimo. Un’immagine poetica, infatti, è una potenzialità, un desiderio che comincia a prender forma mobilitando (“costellando” nel linguaggio junghiano), tutto il relativo mondo archetipico e immaginale atto a smuovere energie di cambiamento e trasformazione. Così, un mese dopo la poesia sui “cattivi pensieri” Ellen (che era un’amazzone appassionata) compone una Canzone cavalleresca nella quale fugge a cavallo dagli spiriti della notte, pallide ombre che riesce a lasciare dietro di sé col suo galoppo sfrenato. “E ancora una volta ha vinto la vita”, conclude la poesia. Ben sapendo che era quella, in gioco in questa partita.

Non sembrerebbe però almeno a leggere la ricostruzione del caso fatta da Binswanger, che a questi materiali, movimenti creativi e potenzialità sia stato dato molto spazio nelle cure ricevute da Ellen. Egli infatti nota rapidamente qualche riga più sotto alla “canzone cavalleresca, che “tuttavia un mese più tardi Ellen “torna a levar lamenti sulla «solitudine della sua anima», se ne sta «solitaria come su vette glaciali», solo i venti sanno comprendere la sua brama e la sua angoscia.” Tanta irritata severità spinge a chiedersi cosa ne comprendessero gli altri, lo stuolo di clinici anche illustri che osservavano Ellen fornendo del caso diagnosi spesso contrastanti, come fatalmente succede ( e non potrebbe essere altrimenti, dato il limite intrinseco all’operazione diagnostica, che riassume in una formula convenzionale un’esperienza esistenziale ben più complessa, e dinamica). Nessuna osservazione, qui, sulla possibile relazione tra il gelo delle vette e quello affettivo già più volte denunciato da Ellen nei suoi rapporti familiari e sentimentali. O sulla funzione del vento come immagine dello Spirito, indispensabile in ogni trasformazione in una storia come questa, di una donna che era stata bimba e adolescente con grandi slanci spirituali e religiosi, con un padre ateo, materialista e depresso che oltre ad essere contrario ad ogni esperienza religiosa, vietava ogni relazione con figure maschili di qualche spiritualità e poesia.


Il conflitto tra “alto” e “basso”

Certo Binswanger è molto suggestivo nel cogliere e delineare il conflitto in cui Ellen si trovava tra i due mondi, quello “sepolcrale” del basso, e quello dell’alto, che lui chiama “etereo”, facendo propria un’espressione di Ellen. Tuttavia osserva questo mondo alto, opposto al sepolcro, con grande e persistente diffidenza. Da una parte diffida fortemente del fatto che la giovane Ellen “vorrebbe essere anch’ella tenera ed eterea come lo sono le amiche che si è venuta scegliendo”. Binswanger dà grande importanza a questo desiderio della ragazza verso i 20 anni, di essere snella e flessuosa, e nota preoccupato come attraverso questo desiderio “il mondo etereo.. assoggetta al suo dominio non soltanto la sfera del mondo circostante e del mondo in comune con gli altri, ma anche quella del mondo proprio che deve opporsi all’eterizzazione con ogni energia, appunto attraverso la pesantezza terrestre, la solidità, il compatto riempimento dello spazio, dunque attraverso un’attitudine massicciamente corporea a resisterle, ossia la sfera del corpo proprio”. Questa appassionata difesa della pesantezza, del compatto riempimento dello spazio, della resistenza massiccia del “corpo proprio”, a me (forse arbitrariamente, ma è su questi materiali che stiamo ragionando) fa risuonare una sintonia di Binswanger con la ferma opposizione del padre, oltre che all’esperienza religiosa, al “romantico straniero“ cui avrebbe dovuto rinunciare. Troppo romantico, imprendibile, “straniero” quindi non “proprio”, e forse non abbastanza massiccio e corpo.

Assente, nell’osservazione del clinico, sembra l’interrogarsi sul perché a Ellen piacesse un uomo di questo tipo (poi replicato in un altro, studente, ugualmente ostacolato dalla famiglia), così come le amiche eteree. Forse di questo alleggerimento Ellen aveva bisogno, come moltissime ragazze in condizioni biografiche simili alla sua. Le figlie di famiglie “pesanti” hanno spesso bisogno di leggerezza e lievità, da una parte per depotenziare il peso del lato massiccio, a volte tombale, della famiglia e stile di vita familiare, e dall’altra per addomesticare e umanizzare uno Spirito — Vento troppo ancora forte e travolgente, nell’alto dei cieli. Non compare qui però una particolare empatia con Ellen su questi aspetti...

La spinta “eterica” di Ellen è messa fin dall’inizio totalmente in conto alla sua patologia, senza apparentemente vederne la funzione potenzialmente dinamica ed evolutiva della personalità, rispetto all’ impaurito immobilismo della famiglia. (Che concluderà più tardi la sua opera di cattura della vita sentimentale, ed anche pratica, di Ellen lasciando passare, tra i vari innamorati e pretendenti, solo un cugino, giurista. Così neppure il matrimonio potrà più consentirle di uscire dall’ambito famigliare e dal potere del padre, depresso).

Con questo desiderio di “eterizzazione” — continua al contrario Binswanger — “la presenza è nuovamente fiaccata dal peso della sua terrestrità. Un tale desiderio, che fiacca la presenza, è chiamato a ragione dal linguaggio comune: desiderio esaltato”. (p. 65) Inoltre, lamenta Binswanger “nel mondo etereo la presenza non può crearsi un solido sostegno, di fronte al putrido mondo sotterraneo, il mondo della tomba, si ritrae piena di angoscia e di terrore. Ha bisogno di un’ancora di salvezza ed essa è il legame col padre e la brama erotico mistica del ritorno a lui. Ma questa riunione, come già detto, è possibile solo con la morte”. In questa argomentazione Binswanger svela, mi pare, la sua fatica a riconoscere i diversi passaggi che potevano tenere distante Ellen dalla tomba.

Innanzitutto colpisce la liquidazione (certo assai “comune”, ma difficile considerarla una giustificazione) come “esaltata” della reticenza che la psicologia adolescente soprattutto femminile dell’epoca (ed anche di oggi, più di quanto appaia), presenta dinanzi all’entrare nel corpo. Ci sono mille ragioni a giustificarla, oltre al profondo cambiamento fisico e psichico nel quale la giovane è immersa, che per essere integrato richiede appunto una “presa di distanza” dalla corporeità. Aspetto importante della “pesanteur” che spingeva (per esempio) Simone Weil alla disperata ricerca della “grãce”.

E’ proprio quando il mondo “aereo” viene ridotto a pretesa e fantasia estetica e non lasciato respirare nella sua ricchezza di luogo di nutrimenti spirituali e affettivi che diventa una pericolosa infatuazione. Così come il Padre della creatura, che lo ri/cerca nell’alto, naturalmente è figura diversa e per certi versi, opposta a quella del padre biologico, qui ateo e depresso custode dello spazio della vita. Il Padre, in particolare nella tradizione ebraica, cui Ellen apparteneva, è invece la figura che costantemente ripristina la comunicazione e l’unità tra mondo alto e mondo basso, tra orizzontalità della materia e aspirazioni verticali di elevazione (con la loro ombra dell’abisso, dinamica perfettamente mostrata da Gaston Bachelard nei suoi lavori sulla dinamica delle immagini dell’aria e del movimento, pubblicati per la prima volta nel 1943, giusto un anno prima della prima pubblicazione del saggio di Binswanger su Ellen West). Il Padre, tra l’altro, rende sacra la terra (il corpo), facendone appunto quel solido sostegno di cui secondo Binswanger il mondo etereo mancherebbe spalancando sotto di sé l’unica prospettiva della tomba. Il cavallo della canzone cavalleresca di Ellen (come moltissimi altri destrieri “di salvezza” delle saghe germaniche e nordiche) corre appunto sulla terra, ma la cavallerizza è al di sopra di essa, mentre i nani e i coboldi che la inseguono pallidi e aggressivi sono molto più in basso. I riti di elevazione dove i padri alzano i bimbi verso il cielo si svolgono appunto a partire dalla terra.

Per credere e seguire le proprie speranze “orgogliose” e pure, infatti, ed evitare che cadano nel fango e diventino maligni, persecutòri, spiriti elementari occorre un esodo, un’uscita liberatoria dalla prigione nella quale la malattia si è originata. Perché ciò avvenga è necessario un Padre cui lanciare il “grido d’aiuto”, che lo raccolga chiamando all’Esodo, alla liberazione. La sua chiamata non è quella del “sentimento oceanico”, di ritorno all’indistinzione e alla fusione con la madre (per Freud volto alla “restaurazione di un illimitato narcisismo”). La direzione dinamica della chiamata del Padre, che la persona sofferente attende è, all’opposto, quella di una liberazione dai vincoli di ogni coazione e di un percorso verso la libertà, impegnativo e ricco di prove di responsabilità: appunto l’Esodo. Il cui scopo è un nuovo rapporto, appunto, con la terra; che però deve essere la propria terra, non quella di un padre che nega il Padre (aspetto particolarmente sentito per gli Ebrei, come era Ellen, e per i Cristiani).

Perché questo Padre prenda gradualmente forma nella vita e nella psiche delle persone l’accompagnamento terapeutico deve rispondere a due condizioni.


L’ascolto dell’archetipo

Il primo è l’ascolto e il rispetto per l’ambiente divino, gli archetipi dell’alto: il Padre, la Montagna, l’Armonia Celeste, i corpi e i fenomeni celesti, come la pioggia, le immagini dello Spirito, il vento. Quando questi aspetti compaiono nella psiche delle persone chiedono di essere presi assolutamente sul serio dalla terapia. Sono gli Dei che ogni paziente-viandante porta con sé, e che presenta per poter guarire, come dice Tobie Nathan. Se invece questo mondo celeste del Padre (che è anche il “sovramondo” di cui parla Corbin a proposito dell’antropologia e psicologia islamica), viene ridotto a “castello in aria” (“ qui la presenza si costruisce un castello in aria nel mondo etereo” dice Binswanger di Ellen), si sviluppa poi lo scenario che lo stesso Binswanger constata nella storia di Ellen. Notiamo per inciso che la pagina in cui Binswanger descrive e stigmatizza i “castelli in aria di Ellen (p.79 nell’edizione italiana), è la stessa nella quale viene presentato il “futuro marito” finalmente accettato dalla famiglia per essere “persona con i piedi saldamente per terra, e che esercita una professione piena di responsabilità”, (l’avvocato, ma era anche il cugino della ricca Ellen). Questo avere i “piedi per terra” rappresentava un aspetto di quella cultura familiare vissuta da Ellen come il “campo di prigionia”, riservato al prigionieri di guerra quale lei si sentiva, e di cui discuterà appunto a lungo col marito.

Binswanger descrive così la graduale caduta di quello che definisce castello in aria: “Questa aerea costruzione viene sempre più abbassata... sulla terra anzi nella terra, ossia trasformata in una fossa o in una tomba; le ampie sale del castello in aria si trasformano in un angusto carcere, le sue sottili, mobili pareti divengono mura spesse, impenetrabili”. E “il muro più impenetrabile è però pur sempre il corpo proprio grasso, rimpinzato dall’avido appetire)”.

È esattamente ciò che è accaduto in questo scenario gradualmente imprigionato nella materia. È però difficile non pensare al ruolo che può aver giocato in questa trasformazione dello spirito in tomba, il mancato riconoscimento della dignità e forza dinamica dei contenuti spirituali della psiche, e l’aver scambiato l’aspirazione verso l’alto e la luce per castelli in aria. Senza poi approfondire la particolare rilevanza che il problema della relazione con l’alto e col Padre transpersonale ha nella storia della donna, che si trova a vivere e gestire un corpo di particolare intensità e ricchezza di attività biologica, intessuta di materia e trasformazione di materia in modo ignoto al corpo maschile.

In ogni caso, la storia dell’esperienza analitica successiva a Freud e Binswanger mi sembra aver ormai ampiamente dimostrato (e negli ultimi decenni in questo si è rivelato molto importante la conferma fornita dall’etnopsichiatria alle evidenze già fornite dalla storia delle religioni e dalla psicologia analitica junghiana), che le persone sofferenti — come ricorda appunto Tobie Nathan (2) “portano con sé i loro dei”, esseri e forze, spesso espressi da immagini prodotte dall’inconscio, con le quali occorre sviluppare un dialogo arricchito e illustrato dai materiali profondi, e venire a patti. Non pare proprio che nella storia di Ellen questi patti siano mai stati seriamente cercati. I suoi pensieri, le sue speranze orgogliose i suoi progetti, i suoi sogni sono stati visti come castelli in aria e sono così diventati spiriti elementari del basso, cattivi. Che la aggredivano con la stessa violenza che lei trasferiva sul cibo.


Topografia dell’Esodo

Perché l’archetipo paterno possa dispiegare i suoi effetti liberatori nel percorso di trasformazione psicologica è anche necessaria una precisa mappatura dei movimenti possibili tra le diverse zone e forze della psiche. In questo percorso, come anche l’Esodo racconta, è meglio non sbagliare, anche se è molto umano farlo. Rigidità e disattenzioni sono in questo percorso ugualmente rovinosi, e prestar orecchio agli idoli, alle idee correnti in quel momento (il sospetto per i modelli estetico-corporei troppo eterei, o per l’emancipazione femminile che li accompagna), rischia naturalmente di condurre in territori ben più pericolosi. Non puoi discutere il dio dell’altro, anche se non è il tuo. Come abbiamo visto tra il Padre celeste e il mondo sotterraneo c’è la terra, che il Padre rende sacra. Se la terapia non ne tiene conto è lei a sprofondare, prima del paziente.

Di ciò fa parte anche l’eventuale character assassination degli archetipi di riferimento del paziente.

“L’ideale etereo di Artemide” — in Ellen — secondo Binswanger “non vuole affatto adeguarsi alle guance rosse e tonde e alla struttura muliebre robusta”. Ma se scambi la vergine leggera, forse anche cacciatrice, per un idolo dei tempi per far diventare Ellen la robusta moglie dell’avvocato-cugino, forse rischi di imprigionarla nella materia-cibo, dove soffocherà e da dove uscirà uccidendosi dopo che tutti gli altri percorsi, amori, ideali femminili sono stati derisi e bruciati.

Non da Binswanger, naturalmente, che incontra Ellen alla fine di questa storia di distruzione. Però è pur strano che, avendo in mano tutta la documentazione dove è descritto il progressivo annientamento realizzato dal contesto familiare e da medici (a volta famosissimi a volte strampalati), manovrati come sempre accade dalla famiglia (già ampiamente patologica, come egli sa e racconta) per tenerci dentro un’anima che aveva assoluto bisogno di uscirne, Binswanger non veda gli aspetti reali della prigionia di Ellen, e metta la conclusione “fatale” in conto alla sua patologia personale. Attribuendo così al Fato e alla diagnosi un’oggettività che sembra piuttosto arduo riconoscere. Oggettivamente dimostrata appare invece la tenace opposizione del contesto agli aspetti dissonanti da sé (dunque temuti) di questa energica figlia di Artemide. Una donna potenzialmente “una con sé stessa”, e quindi assolutamente insopportabile per la famiglia e buona parte della società in cui era nata.


(1) L. Binswanger, Il caso Ellen West, a cura di Stefano Mistura, Einaudi Torino 2011, p.14

(2) T. Nathan, Ethno-Roman, Grasset, Paris 2102.


Jannis Kounellis, Opere su carta (courtesy Off Gallgery, Sv)


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