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Andrej Tarkovskij: Il tempo scolpito e l’eredità perduta | Kasparhauser 15
A cura di Guidfo Cavalli e Lorenzo Lasagna




Nichilismo e fede nell’estetica di Andrej Tarkovskij
di Guido Cavalli

Luglio 2017


…sul filo sottile che passa tra religione e nichilismo.
Gershom Scholem*


1.
Il cinema è giovane, e forse questo spiega perché non ci sono antenati del cinema di Andrej Tarkovskij, ma non spiega perché non ci sono eredi. Il punto è che l’unicità di Tarkovskij consiste, prima che nella sua idea di cinema, nella sua idea di arte, del tutto estranea e centrifuga a quella contemporanea.

Il pensiero poetico di Tarkovskij non è teoretico né sistematico, nasce da una formazione sostanzialmente individuale, e, oltre all’influenza paterna, nella Russia sovietica non ha potuto alimentarsi di grandi confronti. A prima vista, dunque, appare come una riproposizione — a tratti anche ingenua — di assunti che egli ritenne cruciali per distanziarsi e liberarsi da quel contesto, ma che sembrano, nel nostro contesto post novecentesco, banali se non anacronistici: bellezza, verità, fede. Oggi l’arte, come la filosofia del resto, non intende questo linguaggio, non procede su queste direttrici. Un discorso artistico basato su queste categorie non può che essere di pura testimonianza… e infatti quella di Tarkovskij è una poetica ormai completamente estranea all’orizzonte dell’attuale. Il suo cinema, di cui nessuno può negare la forza evocativa, la densità espressiva, la maestria tecnica, è tuttavia considerato un cinema mistico — e in questa parola è detto tutto: qualcosa di paradossale di cui ammiriamo la superficie e che ci solletica con la sua assurdità. Ad esso guardiamo come si guarda una pala di Simone Martini: l’idea di uomo, di mondo e di storia che in esso è contenuto, è sostanzialmente inattingibile.

C’è qualcosa che manca, in quest’arte, e c’è qualcosa che eccede. Da una parte manca la condivisione dell’assunto fondamentale dell’arte contemporanea: la rottura delle forme del linguaggio — poetico, figurativo o musicale — lo spezzarsi del loro legame con il significato, ovvero la riduzione del significato dell’arte entro i limiti del formalismo. Dall’altra appare invece la pretesa, sproporzionata alle nostre forze, di traguardare un altro senso all’esistenza e alla storia degli uomini. Tutto al contrario si comporta l’arte contemporanea, l’arte che manifesta la temperie del nostro tempo: tracotante con i piccoli segni che al suo gusto è dato maneggiare, e inerme alla debole curvatura che scivola verso il meridiano zero. Così a noi, presi in questo doppio gioco, l’arte appare come uno strano e indeciso sismografo, che ripete, trasposte in sistemi arbitrari di segni e metafore, le oscillazioni impazzite della storia — perché, platonicamente, ne è la riscrittura. Quindi: se la storia del novecento è una progressiva demitizzazione e desacralizzazione del mondo, l’arte la deve seguire in questo processo. E quando invece l’arte cerca ingenuamente di riproporre ciò che la storia ha superato — come nel cinema “mistico” di Andrej Tarkovskij — allora il nostro buon senso non può che separarne le forme dai contenuti, per permetterci di fruire di queste senza ingaggiare quelli. Così, a pochi anni dalla sua morte — ma già negli anni stessi in cui il regista era in vita! — il nostro sguardo verso le opere di Tarkovskij è divenuto piattamente estetico oppure puramente storiografico.

Per quel che può valere: sono in disaccordo con questa rappresentazione sia dell’arte in generale, sia dell’arte contemporanea. Innanzitutto, ritengo che storia e arte non siano affatto percorsi simmetrici. Penso siano percorsi lontani, e non convergenti. E al tempo stesso, penso che la frattura operata sulla parola (poetica, figurativa o musicale) sia stato il contraccolpo della configurazione nichilista della nostra epoca nell’ambito dell’arte. Sia stato un evento che, dal di fuori, ha agito sull’arte. E al quale l’arte, invero, ha risposto con un suo lento ma costante gesto di ritorno, di risalita. Per riparare quella frattura, per ricomporla. Per riappropriarsi della sua dimensione e della sua direzione. Ed è questo gesto, di ritorno, di ripresa — ancorché quasi inapparente e per lo più ignorato — la direzione viva e feconda dell’arte, anche nel novecento. Il momento in cui l’arte ha ripreso a parlare, e dove dovremmo cercarne e ascoltarne la voce, per riannodare il nostro legame con il suo linguaggio. Per ricominciare a seguirla dove non ripete il corso della storia, anzi dove l’arte riprende la parola – nonostante e al di fuori del discorso della storia.


2.
Nella sua ultima intervista, densissima, concessa a Le Figaro nell’ottobre del 1986, due mesi prima della sua morte, Tarkovskij dice:
Mi sembra che l’essere umano sia stato creato per vivere. Vivere nel cammino verso la verità. Ecco perché l’uomo crea. In una certa misura l’uomo crea nel cammino verso la verità. Questo è il suo modo di esistere, e l’interrogativo sulla creazione: “Per chi gli uomini creano? Perché essi creano?”, è senza risposta.
In questa frase, con la forza dell’intuizione poetica, Tarkovskij riesce a legare assieme e intrecciare in maniera quasi inestricabile, senza soluzione di continuità, una dimensione teologica, una dimensione filosofica e una dimensione artistica. Viene da domandarsi se sia consapevole oppure non si accorga di volare, da una parola all’altra, dal senso della creaturalità dell’uomo al senso della creaturalità dell’opera d’arte, dalla creaturalità dell’opera d’arte all’apertura della destinazione umana verso quell’increato che è la verità, per poi tornare in un balzo da questa al senso inattingibile di quel creato dentro al quale l’uomo vive ed ex-siste, crea e interroga. Come tirando fili invisibili che nascostamente legano i vertici più distanti di una figura immensa, e l’ultima domanda, il baricentro di tutto è: “perché l’arte?”. Ma questa domanda, che attraversa e raccoglie tutto, per Tarkovskij, è una domanda che rimane senza risposta.

La figura dell’uomo, nella poetica di Tarkovskij, si delinea così: orientato e teso a una verità, egli avanza attraverso un domandare che però non avrà risposta. Questo stallo, in cui tutto si concentra e tutto si interrompe, è l’esperienza dell’opera d’arte, cruciale per Tarkovskij, perché riesce a oltrepassare tutte le risposte, laddove le altre forme di conoscenza falliscono, ovvero non rimangono senza risposta.

Così scrive nel settembre del 1970:
La vita certamente non ha alcun senso. Se ne avesse uno l’uomo non sarebbe libero, diventerebbe piuttosto schiavo di quel senso, e la sua vita si edificherebbe a partire da criteri completamente diversi. Da criteri di schiavitù. Come gli animali, il cui senso della vita consiste nella vita stessa, nella continuazione della specie. L’animale svolge il suo lavoro di schiavo, perché sente istintivamente il senso della vita. Per questo la sua sfera è chiusa. La pretesa dell’uomo sta invece nel voler raggiungere l’assoluto. [1]
L’uomo vuole raggiungere l’assoluto, ma deve farlo a partire da una condizione di vuoto di senso. La sua libertà è il nulla, il vuoto di senso e la disperazione di questo vuoto di senso. E quando egli non è consapevole di questa condizione di vuoto di senso, allora deve guadagnarla liberandosi, allontanandosi da ogni pretesa di senso positivo e mondano, come uno schiavo si libera dai suoi lacci.
La conoscenza stessa del mondo non ha niente a che vedere con la successiva scoperta di leggi vere, in senso oggettivo. In effetti le catene di questa pseudoconoscenza trattengono la nostra aspirazione alla verità, poiché ci conducono verso una direzione che ci allontana dalla verità verso la periferia. […] Ci viene suggerita una conoscenza illusoria, giacché in effetti noi non abbiamo alcuna possibilità di avvicinarci all’assoluto, cioè al mistero… perché qualsiasi forma di “avvicinamento” significa in effetti un allontanamento. L’uomo ha l’impressione di acquisire conoscenza. Ma questo processo, stabilito dall’uomo, non ha in effetti alcuna possibilità di stabilire un contatto con la verità. […] Sono agnostico e per di più mi sembra funesta l’aspirazione alla conoscenza (ad ampliare la sua nicchia ecologica) poiché la conoscenza è entropia spirituale, fuga dalla realtà verso il mondo dell’illusione. […] Se mi chiedessero quali sono le mie convinzioni (se si possono avere delle convinzioni quando si tratta del modo di considerare la vita), direi che in primo luogo credo che il mondo sia inconoscibile e che di conseguenza, in secondo luogo, in questo nostro mondo illusorio tutto è possibile. [2]
La condizione umana è la condizione nichilista — nicciana — dell’assenza di valori, del vuoto di senso. La libertà umana è il vuoto di senso, ma questo vuoto è aperto all’assoluto. Il mondo dell’uomo è un mondo vuoto, ovvero aperto all’assoluto che sta al di là del mondo. La condizione nichilista è la condizione, divenuta ormai necessaria, per vivere il paradosso della libertà umana. L’esperienza di questo paradosso è la fede.

La fede è un salto, ma solo dal ciglio di un abisso. La fede accade solo difronte al vuoto di senso. Solo chi è rimasto senza risposte, per Tarkovskij, sarà uomo di fede. Nel marzo del 1982, sul suo diario trascrive quest’episodio, tratto dalle Vite dei Padri di Abba Isaac:
I santi padri eremiti hanno fatto questa profezia sugli ultimi uomini. Essi hanno posto una domanda: “Cos’abbiamo fatto noi?”. Uno di essi dalla vita esemplare, abba Iskerion, disse: “Abbiamo osservato i comandamenti di Dio”. I padri domandarono: “Cosa faranno quelli che verranno subito dopo di noi?”. Egli rispose: “Raggiungeranno risultati spirituali due volte meno di noi”. I padri domandarono allora: “E coloro che verranno dopo di loro?”. “Quelli”, disse abba Iskerion, “non raggiungeranno alcun risultato monastico, ma affronteranno tali sventure che, subendole e subendo quelle tentazioni, diverranno più grandi di noi e dei nostri padri”. [3]
Il fallimento è il ciglio, l’esito estremo a cui conducono tutte le vie di questo mondo, la fede è il salto verso la verità. La forma di questa fede è naturalmente il cristianesimo. Infatti, non è questo il messaggio cristiano? Non è questo il racconto apocalittico degli ultimi giorni? Proprio questo è, per Tarkovskij, il contenuto dell’annuncio cristiano. Il tempo del vuoto di senso è il tempo del compimento cristiano, che altro non è che la storia dei giorni vuoti di senso che ci separano dalla fine dei giorni. L’arte di Tarkovskij parla degli ultimi uomini e degli ultimi giorni. Al di fuori di questa cornice, è solo metafora. Ma all’interno di questa cornice imprime alle cose e alle figure tutta la forza che subiscono cose e uomini quando sono vicino alla fine.
Ci fu allora un forte terremoto. Il sole diventò scuro, come panno da lutto, e la luna diventò color sangue. Le stelle del cielo caddero sulla terra, come i fichi acerbi cadono dall’albero quando è colpito da vento impetuoso. La volta celeste si squarciò e si arrotolò, come un foglio di pergamena; tutte le montagne e le isole furono strappate via dal loro posto. I re di tutta la terra, i governanti, i comandanti di eserciti, le persone più ricche e potenti andarono a rifugiarsi nelle caverne e fra le rocce dei monti insieme a tutti gli altri, schiavi e liberi; e dicevano ai monti e alle rocce: “Cadeteci addosso e nascondeteci, che non ci veda Dio che siede sul trono e non ci colpisca il castigo dell’Agnello, perché questo è ormai il grande giorno della resa dei conti! Chi potrà mai sopravvivere?” [4]
Così l’arte di Tarkovskij mostra il legame profondo che lega l’essenza nichilista dei nostri — ultimi — giorni alla rivelazione cristiana, che ci ha liberato dal mondo attraversando la morte, attraverso il nulla, e ha inaugurato questa storia che è storia della fine del mondo, ovvero la storia dell’annullamento del mondo.

Solaris è, in questo, il film più teologico di Tarkovskij. La persona al di qua e al di là della morte — Harey — è ciò che qui Tarkovskij rappresenta: e questa persona nella sua drammatica e impossibile duplicità è l’uomo creduto dalla fede cristiana, non il credente ma il creduto. Harey è il cristiano, il simbolo spezzato e ricomposto — incomprensibilmente. Così Tarkovskij ci dice che c’è una doppia parola nell’evento cristiano. Una al di qua e una al di là del morire. Quella parola che il cristianesimo vorrebbe tornare a dire dopo il fallimento della creazione — un’altra natura, la natura consacrata, consacrata a stare presso di noi, la grazia, il dono. Harey è simbolo ovvero insieme indistinguibile di entrambe queste dimensioni, persona e natura, dove ciascuna delle due parti si tiene all’altra. Quasi cosa — eppure a se stessa non basta per essere — e quasi persona — eppure a se stessa non basta per esistere. Harey è ciò che viene incontro. L’avvenimento. Ciò che si riceve a prezzo di tutto.

La libertà — cristiana — è un mezzo, ovvero la condizione necessaria per arrivare al senso del sacrificio. Così la libertà si compie come rivelazione del dover essere nulla del mondo, del suo dover trapassare. C’è una logica mondana che non lo vuole, e oltre il mondo c’è la verità che lo rende necessario. L’uomo di fede non appartiene al mondo, anzi lo annulla con la sua libertà.
Quanto più a lungo vivo in Occidente tanto più la libertà mi sembra una cosa strana e ambigua. Pochissime persone hanno bisogno della vera libertà: il nostro compito consiste nel far sì che il loro numero aumenti. Per essere liberi è necessario semplicemente esserlo senza chiedere il permesso a nessuno. Bisogna avere un’ipotesi sul proprio destino […]. Ma, ahimè, il dramma consiste nel fatto che noi non siamo capaci di essere liberi, che esigiamo la libertà per noi stessi a scapito degli altri e non desideriamo rinunciare a nulla in favore degli altri, ritenendo che ciò sarebbe una lesione dei nostri diritti e della nostra libertà. […] Ma non è in questo che consiste la libertà: essa consiste nell’imparare a non esigere niente dalla vita e dagli altri, a esigere innanzitutto da se stessi e a dare senza sforzo. La libertà consiste nel sacrificio in nome dell’amore! [5]
La libertà per Tarkovskij, impoverisce, insegna a togliere a se stessi, a fare a meno, a sacrificarsi — e questo venire meno è l’uscire, l’andare oltre quel tempo senza destino che è il nostro tempo. Non è difficile vedere la forma cristiana di questa verità, ma più interessante ancora è vedere come collima con la forma vuota del tempo post cristiano e come le tiene insieme, come ne rivela il legame, il legein. Domandiamoci infatti: il tempo post cristiano è davvero il nostro, tempo senza fede, oppure è da sempre il tempo vuoto che rimane quando tutto è compiuto, ovvero propriamente il tempo dopo Cristo? No, per Tarkovskij, nichilista è il tempo del cristianesimo in quanto tale, ovvero un tempo in cui la mancanza di fede e l’assenza della verità sono sostanza, e la libertà è scegliere il nulla — sacrificio.
Per me attraverso la “crisi spirituale” si fa sempre strada la salute. La “crisi spirituale” è il tentativo di trovare se stessi, di acquisire una nuova fede. La condizione di crisi spirituale è la sorte di tutti coloro che si pongono dei problemi spirituali. L’anima è assetata di armonia, mentre la vita, invece, è disarmonica. In questa non rispondenza è racchiuso lo stimolo del movimento, la sorgente della nostra sofferenza e, a un tempo, della nostra speranza, la conferma della nostra profondità e delle nostre facoltà spirituali. [6]
Ma il sacrificio, il salto fuori dalla logica del mondo come può essere detto? Con quali parole e quali argomenti se di tutte le conoscenze e di tutte le convenienze si deve liberare? L’arte, per Tarkovskij, è la risposta, l’arte è il linguaggio che non segue la logica del mondo.


3.
Il senso della verità religiosa è racchiuso nella speranza. La filosofia cerca la verità definendo il significato dell’attività umana, i confini della ragione dell’uomo, il significato dell’esistenza. Anche quando il filosofo perviene all’idea dell’assurdità dell’esistenza e della vanità degli sforzi umani. La destinazione funzionale dell’arte non consiste affatto, come talvolta ritengono gli artisti stessi, nell’instillare pensieri, nel contagiare con delle idee, nel servire da esempio. Lo scopo dell’arte consiste nel preparare l’uomo alla morte, nell’arare e rendere soffice la sua anima in modo che sia atta a rivolgersi al bene. [7]
Il bene che, per Tarkovskij, però è sempre al di là della vita. Ne è lo scopo. E dunque l’arte stessa non è per la vita, ma per il suo annullamento, per il suo oltrepassamento. Oltre la vita, c’è la vita eterna. Senza questa dimensione, l’arte di Tarkovskij è insignificante.
La nozione di bene e male (e il loro conflitto) è altrettanto indispensabile alla vita eterna della differenza di potenziali per far scaturire l’energia o della differenza di pressioni atmosferiche per far nascere il vento. Perciò la lotta tra il bene e il male esisterà finché esisteranno l’uomo e la sua vita su questa terra. L’uomo deve arrivare, navigando sul mare, fino alla riva opposta, se non vuole annegare. L’acqua del mare è il Male, barca e remi sono il Bene. Rema con tutte le forze e arriverai a destinazione. Lascia andare i remi e perirai. L’uomo esiste da talmente tanto tempo, eppure continua a dubitare della cosa più importante, cioè che la sua esistenza abbia un senso e questa è davvero la cosa più strana! [8]
Ora iniziamo a vedere con chiarezza il significato della relazione tra arte e fede nella poetica di Tarkovskij: l’arte è l’immagine anticipata del mondo, come sarà e come è stato oltre il vuoto del tempo. L’atto della creazione e l’opera d’arte vedono la stessa cosa. L’uomo che crea riguarda ciò che il creatore ha contemplato in quel giorno. La sua creaturalità è il suo linguaggio, ciò che egli dice con la sua creatività è la sua stessa creaturalità. C’è un’immediatezza, è il dire — chi la revoca cade fuori dal linguaggio.
Nell’arte, come nella religione, l’intuizione è equivalente alla convinzione, alla fede […]. Si tratta di una specie di illuminazione improvvisa, come se un velo cadesse dagli occhi! Ma non riguardo ai particolari, bensì all’insieme, all’infinito, a ciò che la coscienza non può afferrare […]. Ed è per questo che l’immagine artistica può essere accettata soltanto per fede […]. L’artista ci rivela un mondo costringendoci o a credere in esso, o a rifiutarlo come qualcosa per noi irrilevante e non convincente. Creando l’immagine artistica egli supera sempre il proprio pensiero che risulta insignificante di fronte all’immagine di fronte all’immagine percepita sensibilmente del mondo che gli è apparso come una rivelazione. Il pensiero infatti è breve, laddove l’immagine è assoluta. Si può dunque affermare che l’impressione prodotta dall’opera d’arte sull’uomo spiritualmente preparato e l’impressione puramente religiosa sono affini. L’arte agisce innanzitutto sull’anima dell’uomo, improntando la sua struttura spirituale […]. Il bello è celato agli occhi di coloro che non cercano la verità. [9]
Ecco come creatività e creaturalità si intrecciano e si rispecchiano. Nell’immagine artistica come espressione figurativa, si rispecchia l’essere a immagine e somiglianza di Dio. È l’uomo, figura di Dio, la parola dell’arte. Il suo essere creatura è la vocazione, la possibilità artistica, che lo spinge a immaginare oltre il sensibile quale sia il volto delle cose, la ferita delle cose come stigma della loro creaturalità.

Cosa significa, allora, che il Dio biblico, che è invisibile e inconoscibile, crea l’uomo a sua immagine e somiglianza? Significa che questa somiglianza è l’essenza della creazione.
Secondo me quando si parla di Dio che ha fatto l’uomo a Sua immagine e somiglianza, si deve intendere che la somiglianza riguarda l’essenza, e questa è la creazione. Di qui nasce la possibilità di valutazione di un’opera, della sua figuratività. In poche parole il significato dell’arte è la ricerca di Dio nell’uomo.
Chi non crede a quella somiglianza, chi la rifiuta, a sua volta non potrà partecipare dell’essenza del creare, dell’essere artista a somiglianza del Dio creatore. Questo rifiuto ha un significato storico, e filosofico, e certamente anche umano. Tuttavia non ha nessun significato artistico. Perché al di fuori della somiglianza tra uomo e Dio — che è la bellezza — non c’è creazione, e non c’è arte. Riprendo il passo precedente, procedendo ora fino alla fine.
In poche parole il significato dell’arte è la ricerca di Dio nell’uomo. La ricerca del cammino per l’uomo. Io non approvo assolutamente l’arte contemporanea. Proprio l’arte, o qualcosa che pretende di esserlo. Perché manca di spiritualità. Si è trasformata da ricerca di un’essenza divina in dimostrazione di un metodo. Su questo ha già scritto Valery, ma è strano che non abbia espresso il suo punto di vista riguardo a questo fenomeno. L’analisi, la scomposizione e la conseguente idea di disarmonicità (se è possibile che esista l’idea di disarmonicità), tutto questo si contrappone all’essenza dell’opera, all’essenza del demiurgo, sebbene esprima anche il dramma di un tempo di passaggio, drammatico.
Ieri sono stato da Angela. [10] Abbiamo parlato. Le ho detto che già da una settimana (dall’ultimo incontro con lei) non ho più paura, non ho dubbi, non mi sento debole. Dovrò verificarlo ancora per una settimana. Per quanto la mia fede si sia fortificata.
Ieri io e Tonino abbiamo lavorato molto bene.
Ho telefonato a casa. Lara dice che solo ora le hanno concesso il diritto di partire. Fino a ora non la lasciavano andare via. Adesso si dà da fare per Andrjuska. [11] Soldi non ce ne sono, neanche un copeco. Lara chiede il videoregistratore, ma io non so chi lo possa trasportare. Sì, Tolia Solonicyn sta meglio. Non prende antidolorifici e il tumore alla colonna vertebrale è quasi sparito. Ha iniziato nuovamente a sentire le gambe. È un miracolo. [12]
4.
Il miracolo ovvero il confine di questo mondo, visibile ma irraggiungibile, come l’immagine di uno specchio dove tutto appare, ma è superficie e riflesso, e nulla si mostra di quella verità che stiamo cercando. E tutto diventa possibile — passando oltre. Il miracolo ovvero il luogo in cui Tarkovskij concentra il senso del mondo, come in un cristallo, dove tutto il senso del mondo si pesa, ed è nulla. E per questo svuotarsi le cose e le persone, nel miracolo di Tarkovskij, volano. Il miracolo ovvero il luogo aperto dal credere dove il credere si manifesta come sola speranza di salvezza e nulla più. Il miracolo che non è nulla, solo uno sguardo. Che si posa sulle cose, e le potrà cambiare — è lo sguardo della figlia dello stalker, che spinge via le cose, le smuove, e per questo Stalker è il film meno didascalico, più maturo di Tarkovskij, perché i suoi personaggi falliscono e solo a quella creatura muta è lasciato ribaltare tutto, indicare un’altra possibilità, per altri che non siamo noi.

Il miracolo è quel tempo, altro dal tempo inconsapevole del mondo, di cui per Tarkovskij è fatto il cinema, ovvero il linguaggio delle immagini — il tempo che tiene insieme le cose e le rivela allo sguardo che crede e vede le cose andare verso, attendere la salvezza. Il miracolo è il fulcro della poetica di Tarkovskij perché se l’arte non porta alla soglia del mondo, non conduce dove questo mondo si annulla, in quel luogo dove l’essenza creaturale dell’uomo svela che l’uomo non è dell’uomo ma di Dio, non sarebbe arte ma chiacchiera vuota, discorso sul metodo. L’uomo portato davanti alla propria immagine, per riconoscersi in qualcosa che non ha più nulla dell’uomo, più nulla per l’uomo, davanti alla figura dell’uomo — davanti all’icona di Rublev, alla parola poetica dello Specchio, all’oceano di Solaris, davanti alla stanza di Stalker, davanti all’apocalisse di Sacrificio… — per vedere che tutto deve trasfigurare, annichilire e poi rimanere pieno di grazia ovvero gratuitamente, solamente una cosa da credere.
So già che vi arrabbierete, ma devo dirvelo lo stesso. Siamo arrivati alla soglia. È il momento più importante della vostra vita. Come già vi ho detto, qui si compirà il vostro desiderio più segreto, quello più sincero, quello più sofferto. Non bisogna dire niente. Basterà concentrarsi e cercare di ricordare tutta la vita. Quando l’uomo pensa al passato diventa più buono. Ma l’importante è solo credere. Ora potete andare.
Queste le parole dello stalker sulla soglia della stanza in cui nessuno entrerà, perché è la stanza che può avverare ogni desiderio, compiere ogni miracolo, salvare — ovvero la fede di Tarkovskij, tanto inaccessibile da diventare essa stessa un’immagine, una cosa da guardare.


* Lettera a Salman Schoken, citata in “Una revisione critica delle tesi di Scholem sul messianesimo”, in Jacob Taubes, Il prezzo del messianesimo, Quodlibet, Macerata, 2017, p. 47.

[1] Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, 2014, p. 31.
[2] Ivi, pp. 378-379.
[3] Ivi, p. 403.
[4] Ap 6, 12-17. Cit. in Stalker, Andrej Tarkovskij, 1979.
[5] “La responsabilità dell’artista”, in Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p. 165.
[6] Ivi, p. 175.
[7] “L’arte come aspirazione all’ideale”, cit., p. 44.
[8] Martirologio. Diari, cit., p. 196.
[9] Ivi, pp. 41-43.
[10] Pranoterapeuta che curò Tarkovskij dal 1982. La “strega”, cfr. ivi p. 420. [11] Tarkovskij era in Italia dal 1980. Alla moglie Lara fu concesso raggiungerlo nel 1982. Al figlio Andrej solo nel 1986, a pochi mesi dalla morte del regista.
[12] Martirologio. Diari, cit., p. 445. Questa nota è del 11 giugno 1982. Anatolij Alekseevic Solonicyn, l’attore preferito da Tarkovskij, morì quello stesso giorno.


Guido Cavalli (Parma, 1974). Scrittore e poeta. È coautore dei romanzi e racconti di Errico Malò. Del 2005 la raccolta di versi Piccolo canzoniere selvatico, (Manni Editori). Di recente pubblicazione la raccolta Nel castagneto, Diabasis, Parma 2015. Collabora con la rivista di cultura filosofica Kasparhauser.


Credit: Rob Torrans, http://robtorrans.tumblr.com/post/144554095277/film-poster-for-stalker-i-started-a-few-years-ago.


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