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Giunsi a me stesso dalla notte
Linguaggio, soggetto e storia in Clemente Rèbora
di Giuseppe Crivella

2 luglio 2015





In Rèbora la parola affiora dal silenzio attraverso una gestazione lenta, riottosa, sfrangiata, posta nella curvatura di uno sguardo che si fa palude d’occhi, epidermide ustoria, purpurea effusione da una ferita, la quale ingorga la sofferta cantabilità del mondo lasciandolo emergere come da un orizzonte brumoso e talmente prossimo a chi scrive da strangolarne la voce per un eccesso di immagini. La realtà è una massa greve di forme in espansione fino al collasso:

Tutto in grave volume è corpulenza:
La carne floscia sul cuore lordato,
Lo spazio cionno nel sole velato;
E sonno terribile abbioscia.
Dovunque è specchio senza
immagine, fondiglio non deposto,
Un che di non nato e già vecchio,
E un fortor di carname riverso,
Un guardare senz’occhi,
Un traudir di respiro
Che s’empie e nel fischio s’allenta,
In gocce quasi di acre mosto,
Rigurgitano dagli sbocchi
L’aria e lo spirito. [1]

La lirica si spalanca scalena nell’impasto torbido di una lingua — da intendersi qui rigorosamente come langue saussuriana — dagli orli sanguinanti per una lacerazione violenta, cieca, profonda, ove vivide e al contempo agoniche rovine verbali in stridori e furori sventrano la sonnolenta semantica delle parole per reinventarla avvolta in vastità di voci e gemiti, vibrazioni e spasmi, che si rifrangono nell’asciutto corpo dei singoli componimenti. Tra il pus e la polvere, la parola non è mai semplice sosta del senso, ma trapasso, schiuma, lama, carne prossima alla cremazione della propria materia sonora, in vista di una liberazione delle proprie energie foniche dalla logora coltre dei significanti.

Per Rèbora la pausa, lo stacco che ritorna a scandire e a ritmare i componimenti non cade mai tra i termini, ma all’interno stesso di questi tramite un’interruzione repentina e nervosa che ne disgrega la tenuta rendendoli strumenti palpitanti di un dire infinitamente turbato e perturbante, modellato non tanto sui suoni propri della parola, ma lungo lo sprofondare degli echi occulti che essa forse inconsapevolmente cova, indistinti e vigorosi, scomposti o nodosi come le dure granulosità di una pelle non conciata a dovere.

Un viluppo di viscere strappate al silenzio e al buio del corpo e mostrate nel loro totale spettacolo di succhi e muchi, tessuti umidi e nervature scalpitanti alla cruda luce d’uno sguardo immondo e inconsapevole, anonimo e forse ebete, tale è la lingua per Rèbora, un relitto fumante, il portato impuro e reattivo di una macerazione inesorabile fatta subire al linguaggio, dal quale la parola, sottratta per attimi dalla propria bianca catatonia, si risveglia in rotta trasfigurazione d’abissi mentali, attraverso il corposo sabotaggio assestato al senso, riletto tramite quella vetrosa vita vegetale in cui è trasformata la sonorità dei termini:

Alghe di tènebra
Sull’umida terra
In romba di piena;
Scaglie di vetro
Dal ràpido cielo
Che stelle nel vento
Librato riassorbe;
Gesto falcato di forme
Uscite a capirsi nell’ombre;
Fissa follia dell’aria
Su nero abbaglio di lampo. [2]

La tenebra stessa, pur nella sua impalpabilità, appare con un aspetto viscido e filamentoso. Da profondità siderali tocca la pelle dell’uomo, lo avvolge in un viluppo osceno e innaturale, ne oscura la visione, diventa una sorta di muschiosa pellicola nel cui soffocato palpitare vengono a incidersi i segni di una natura tempestosamente stravolta: la folle fissità dell’aria, il vetro in frantumi che stria di innominabili piaghe il cielo, le ombre che fanno da luogo d’incontro in cui le forme — le poche forme rimaste — cercano di intendersi in un dialogo impossibile. Anche il lampo non porta nemmeno una bava di luce in questa oscurità psichica e metafisica, ma accompagna il buio in una commistione spaventosa di accecamenti, dai quali l’uomo appare come un profilo curvilineo — falcato, appunto — piegato in uno sforzo intollerabile di sopportazione.

La poesia sorge da questa situazione. Poetare diventa uno scrutare incessante e angosciato la clorosa pellicola del verbum attraverso l’intrico tragico di chiodi e rovi che lo travagliano, di grida appena trattenute là dove la semantica si esfolia nelle ceree sillabe insabbiate senza sosta tra il claudicare della versificazione e il sofferto arabesco lessicale, tramato quasi ad intrudere in essa la scheggiata presenza delle cose evocate. In forza di ciò la lingua di Rèbora è un ribollire organico di brandelli sonori liberatisi, svincolatisi forzosamente dai ogni frustrante imbrigliamento fonetico: il verso in esso si satura ed esplode per contraccolpi ora visionari ora concretamente denotativi, proprio perché la successione dei membri frastici è diretta dalla feroce volontà stilistica di indebolire il vettore determinante del senso per rendere più corposo ed evidente quello del suono.

In tale suono ad agitarsi è quella «insonnia di cose recise» che 1916 Rèbora appone come epigrafe ad una prosa intitolata Rintocco [3]. In questa insonnia vortica e urla tutto l’astratto furore di una vita mutilata, strappata alla propria origine e scagliata da una potenza oscura verso una esistenza ove è possibile penetrare solo varcando la infinita lacerazione che fende il vuoto stesso da cui emerge il pensiero chiamato ad interrogarsi su questa genesi muta e malata.

L’insonnia è quell’interrogazione stessa, inesorabile e ossessiva, iperbolica e strisciante. In Rèbora la corposa compagine dei fenomeni sembra essersi definitivamente distaccata dal rarefatto apparato di cause a cui le riportava ordinatamente l’intelletto. Da questa liberazione però discendono due conseguenze parallele e discordanti: le cose da una parte rivelano livelli di ragioni, di motivazioni estranee — e non riducibili — alle meccaniche intellettualizzazioni dell’uomo; dall’altra esse accusano fin nella più intima fibra i contraccolpi di una spinta convulsa a consumare la loro grama energia vitale nelle forme aberranti di una dissipazione attonita, di una consumazione delirante che sembra mirare unicamente ad un ritorno all’amorfo, all’indistinto, a ciò che non possiede e non ammette nome. Si legga ad esempio l’agghiacciante sequenza di immagini che si /susseguono nella quarta lassa della lirica intitolata Tregua e risalente addirittura al 1905:

Colava il tempo fuso
Per darsi una nicchia:
E chiuso bruciando stagnava;
Ma dentro un aroma stordito,
Nell’assiduo ingordo
Desiderio tutto
Ero teso di corpo sul letto.
Dalla gola, asfissia
Diàfana al petto;
Scie di vivide angoscie,
Polpastrelli di sonno,
Cenere d’occhi,
Svenimento nero. [4]

Obliosa e veggente, nottivaga e aurorale, la parola reboriana affanna l’essere legandolo a sé attraverso le linee di frattura dell’antinomico e del repulsivo, del non totalizzabile: l’incandescenza è un ardere freddo e fermo sulla cose in modo che il loro estremo battito si rapprenda in una forma espansa del loro scabro darsi all’uomo, ora vanenti sul confine del vuoto, ora dardeggiando inquiete un fioco fiore di tormenti senza nome. La notte qui non ha una figura unitaria; si manifesta, si fenomenizza nel corpo dell’uomo mediante un accumulo eterogeneo di dati scabramente sensibili, deflagrante in un allineamento alienante di stati e notazioni senza costrutto, privi di ogni divenire, di ogni sviluppo narrativo. Ciò si riflette inoltre sullo stile: innegabile è la prevalenza dell’asindeto, il quale fa in modo che le concordanze si propaghino per mero affiancamento, il quale, invece di assestare il discorso, lo dissestano in un accavallarsi densamente paratattico in cui tutto viene parificato, livellato, reso irrazionalmente equivalente. Le strutture sintattiche deputate a creare connessioni funzionano senza un criterio selettivo prestabilito, così che eventi distanti, difformi, inconciliabili si trovano accostati: ciò che dovrebbe associare e rendere coerente in tal modo invece disgrega, distrugge, dilania ogni cosa. Anche il tempo qui muta radicalmente fisionomia: è una colata livida, sordida e vischiosa; ottunde il pensiero e il suo scorrere — senza meta e senza direzione — è la parodia disperata di ogni successione cronologica.

Incomprension di cose vicine,
Gemito chiuso in aperti consensi,
Attesa che scocca
Verso un ben ch’è vicino e non tocca,
Speranza che pare saldezza
E a mano a mano si sgrètola;
Volere che s’amplia a misura
Del mondo e ritorna ad un tratto
Sfumatura del nulla. [5]

Il tempo stagna come una polla avvelenata nei precordi del mondo, ottenebra il presente bloccandolo in una ondata amara di inerzia e torpore. L’universo stesso sembra essere diventato un’urna vuota prossima a sgretolarsi, in cui si perdono gli indicibili moti fioriti sulla superficie delle cose come cerchi di sfinimento e di prostrazione. L’anima urla dal fondo di un barbaglio cieco dove lo sguardo del poeta si smarrisce come una lucciola. L’eterna vicenda degli evi, delle epoche, degli anni, dei mesi, dei giorni è un perpetuo suicidio a cui assiste l’occhio disseccato del sole, divenuto bituminoso corpo lanciato immoto nella lontananza velata di un cielo sepolcrale:

Stelle recise,
Bruciate a guardare,
Raggiando roteare:
Errare, alitare,
Terra su ’n fil di rasoio,
Nel nodo scorsoio
Dell’àvido universo:
Ripetèntesi flutti
Nel mare sommerso
Del cuore, indomabili fiamme
Da ognuno velate
E balenanti in tutti! [6]

Vi sono brani in cui l’universo ha un aspetto sontuosamente cloacale, inghiotte tutto, avido e riassorbe ciò che ha generato come i residui di una vita defunta, resti di passato a tal punto remoto da sembrare illusorio, irreale, estraneo a ogni dimensione mondana e sul quale galleggiano i corpi moribondi di uomini dimentichi del loro stesso decesso. La malinconia solitaria del poeta di fronte a questo spettacolo cesella versi che appaiono come una stupenda ghirlanda mortuaria. La Storia stessa si è irrigidita in una contrazione feroce e irreparabile; Rèbora descrive tale «vestigio immobilmente bigio» [7] in seno al quale egli decripta le forme murate di una opaca natura contesa tra uno straripamento alogico di visioni pure — le quali puntano unicamente ad arenarsi in una sorta di profetico oblio — e un vuoto turbinare d’echi sepolti in cui l’Ignoto respira e sfolgora tra l’estasi e il rimorso. Prendiamo il componimento LXV:

Dalla tua nicchia, alla mercé
Dell’aria, scrina l’inganno,
O ragnatela inerte,
E acquista l’inutile preda
Di moscherini e lisca:
Lontan morì, lontano
Il ragno creator che ti tessé,
Il generoso mio cuor che ti ordiva,
O nervatura c’hai parvenza viva. [8]

La potenza metaforica di questi versi è incontenibile e lampante: la poesia è la ragnatela, un arabesco di stremata fragilità teso in un angolo dimenticato del mondo, ove però la presenza delicata e riposta di quel disegno aereo trema ancora, memore di una parvenza di vita, mentre il ragno giace lontano già cadavere. Nel rapido giro di un’ottava dalla movimentatissima polimetria, Rèbora convoca e fa reagire l’una sull’altra due immagini poste in dialettica selvaggia e insanabile: da un lato abbiamo la bianca orditura cristallina della tela, la quale vibra e cattura ancora esili prede destinate a morire ormai senza alcun motivo, inutilmente; la ragnatela, presenza tenue, minuta, discreta, occupa qui tutta la scena, attraversa da parte a parte il campo di visione del poeta — e quindi del lettore — con un reticolo traslucido in seno al quale noi stessi ci sentiamo intrappolati. Dall’altro lato invece svetta nebulosamente il corpo senza vita del ragno, nero, irrigidito, con le zampe contratte sull’addome, preda egli stesso di altri insetti, carcassa inutile a cui sopravvive assurdamente la sua stessa creazione, monito di un astratto affannarsi i cui effetti ancora perdurano senza che alcuno possa goderne.

Ma in questo stato di cose che ne è della ragione? È questa la domanda che Rèbora pone alla fine di Senza fanfara, una prosa risalente probabilmente al periodo della Prima Guerra Mondiale: «ancor si ragiona nel mondo che vive?» [9]. Nel componimento XLII dei Frammenti lirici forse è possibile trovare una risposta. Evocata poco prima dei versi posti in chiusura, la ragione viene raffigurata nell’attimo del suo deforme incarnarsi nelle membra del poeta, membra sottoposte a torsioni, strazi, torture che si riverberano integralmente nella pasta sonora e linguistica della poesia:

Tanto, o ragion, sei saggia:
ma sotto si ridesta e giù trabocca
La forsennata amarezza:
E la pupilla storco sino al bianco
E morsico la bocca
E un non so che nel cuor torvo accoltello
E nella gola mi gorgoglia e brucia
Tutto un impeto rosso
Che vien sulla parola e accieca il suono. [10]

Si noti qui la successione incalzante del polisindeto che raccorda eventi disparati ma localizzati tutti nel campo del corpo del poeta: la pupilla, la bocca, il cuore, la gola mappano una anatomia del versificare alienata da un’espressione che non riesce a trovare forme adeguate per il suo contenuto. Il bianco dell’occhio ottenebra lo sguardo, mentre la bocca non è più il luogo della parola ma lo spazio di una indicibile deformità, di una smorfia che deturpa le fattezze non solo del volto ma del dire stesso. Domina improvviso e ottenebrante il gorgogliare di quell’impeto rosso che sale dal profondità fisiologiche invadendo le già devastate plaghe psichiche. Nel giro di pochi versi Rèbora riesce a racchiudere il martirio infinito dell’espressione vista non più quale effetto di un’entusiastica ispirazione, ma piuttosto tagliente groviglio di silenzi che scindono la parola dal suono, la voce — che, non a caso, apre questo componimento — da ciò che essa dovrebbe proferire. Questa lirica abita con udito finissimo quella che Hugo una volta chiamò Bouche d’ombre, titolo del penultimo componimento di Les Contemplations; eccone un passaggio emblematico:

Car le mot, qu’on le sache, est un être vivant.
La main du songeur vibre et tremble en l’écrivant;
La plume, qui d’une aile allongeait l’envergure,
Frémit s\ur le papier quand sort cette figure,
Le mot, le terme, type on ne sait d’où venu,
Face de l’invisible, aspect de l’inconnu;
Crée par qui? Forgé, par qui? jailli del’ombre;
Montant et descendant dans notre tête sombre,
Trouvant toujours le sens comme l’eau le niveau;
Formule des lueurs flottantes du cerveau. [11]

Pubblicati nel 1913, i Frammenti Lirici insieme ai Canti Orfici di Campana esprimono forse ancora oggi le personalità più inattuali — inattualità qui naturalmente nietzscheanamente intesa — della lirica primo novecentesca. A conferma di ciò basta ricordare un dato macroscopico: solo un anno prima Croce dava alle stampe il suo Breviario di Estetica, timida ritrattazione — ma in realtà sottile potenziamento — della sua più vasta estetica del 1902.

Insieme a Campana e probabilmente a Lucini, non vi è forse autore più dichiaratamente anticrociano di Rèbora; non è dunque un caso che intorno alla sua figura e alla ricezione della sua opera d’esordio incroceranno polemicamente i ferri due critici di diversissima estrazione culturale e di opposti orientamenti estetici: da una parte Emilio Cecchi [12], esponente di una critica istituzionale, in una recensione del 1913 attacca frontalmente Rèbora in nome di una ipostatizzazione dell’Idea crociana, la quale nella produzione del poeta milanese non ha diritto d’esistenza, facendo derivare pertanto da questa nota un giudizio complessivo piuttosto sferzante, ma anche miope e impreciso.

Dall’altra parte invece troviamo un acutissimo Giovanni Boine — autore forse solitario, isolato, irregolare e marginale, ma dalla sconfinata artiglieria stilistica — il quale coglie appieno la peculiarità profonda del verseggiare reboriano parlando di un «indicibile e smarrito soffrire che è in codesto dissidio che non si compone e non conclude». [13]

Siamo di fronte ad un nereggiare intenso dello sguardo per eccesso di luminescenze inquiete e trascoloranti tra il crepuscolo e il meriggio, portate qui a collidere in una sospensione attonita del giorno che a volte sembra non procedere, calcificarsi quasi in una atemporalità inconsapevole, in uno stato di ebetudine cosmica, ove a procedere, ad aver sviluppo sono solo i processi di decadimento dei corpi e degli oggetti. La realtà è un dolersi afono di forme trascorrenti verso un decesso impercettibile, un turbinio grumoso di forze esplose oltre la resistenza dei corpi, condotti così al loro tracollo e al loro improvviso ma indolente trapasso. Si legga l’incipit di una prosa intitolata Coro a bocca chiusa risalente al periodo posteriore alla pubblicazione della prima raccolta:
Afonia infusa d’occhio nemico che punta a due passi. La cosa cade recisa dal tempo: così tutto accade. Ma inseparabile male è dal vischio del corpo la sofferenza precisa. Non arde, e calcina le gambe: non fonde, ma cola alle bracci e demenza alla faccia rimane – infusa d’occhio nemico che punta a due passi. [14]
Si noti come qui al trapassare inquieto e irrazionale di un elemento nell’altro corrisponda quasi per mostruosa antifrasi una struttura circolare, con la ripresa in chiusura della formula che apre la prosa. In un contesto di estrema caoticità dominato da quella immagine così efficace rappresentata dal vischio del corpo l’unico dato che conserva precisione è la sofferenza, un dolore strisciante e capillare che assume forme diverse, si incarna in un pulviscolo variegato di aspetti che infettano l’uomo colpendolo senza possibilità di difesa. E si noti ancora come il poeta faccia stridere mediante una deliberata messa in contatto — contatto che produce un attrito insanabile — i sostantivi concreti con gli astratti, quasi a cercare la conciliazione unicamente là dove questa è esclusa a priori.

Alla luce di ciò, possiamo dire che in Rèbora l’Idea crociana è uno sfilacciarsi isterico e continuo delle sostanze che invece dovrebbero compaginarla; al tempo stesso l’insetto e l’astro, i filo d’erba e l’uomo, il pensiero e il fango sembrano convergere in una assurda assimilazione conflagrante non tanto nella sintesi del Concetto, ma in uno scontro di puri realia che non ammettono di essere riassorbiti in una ricomposizione superiore del tutto, trasformando così la realtà stessa in un ondeggiamento disarmonico di smagliature e grovigli materiali, i quali travolgono il delicato profilo dei concetti — per dirla con Kant [15] — disperdendolo nel forsennato stellarsi di incrostazioni analogiche da cui non è dato uscire, ma in cui è fisiologico smarrirsi.

Non sbaglia allora Bandini quando, in un saggio del 1966, intercetta una dimensione seccamente fenomenista nella lirica reboriana [16]: contro ogni assunto crociano, la natura di Rèbora prevarica non solo il soggetto, ma anche ogni concettualizzazione da questo messa in atto e ribaltata sul mondo come una matrice di contenzione. In Rèbora in sostanza è come se la assimilazione del particolare e del soggettivo nell’astratta mole di una totalità compiuta non riuscisse mai a coincidere col culmine del riassorbimento nel concettuale del reale, ma piuttosto finisse col degenerare nella degradazione di quest’ultimo nel monologante solipsismo di energie voracemente disgregatrici.

La sua lingua interviene allora proprio in questo momento a sagomarsi capillarmente sulle fratture, sulle lesioni, sulle aspre increspature delle superfici che il mondo ostenta come il travagliato mantello di un mostruoso animale il cui corpo sia composto di membra e parti di altri animali, frantumi minerali, fibre vegetali, organi umani. Il verbum di questo primo Rèbora dunque non è assolutamente affine al quello dell’ultima produzione; non è una sommessa confessione prossima al silenzio o il dialogo intimo con una Fede delicatamente trascinante. Nel 1913 il suo verbum è eversione pura e strappo, rivolta metafisica del particolare anomalo, grido lacerante e al tempo stesso lacerato della carne e nella carne, straziato palpitare delle cose fattesi sangue e cristallo, fango e nuvola, cenere e acciaio, polvere e voce incrostata di terra, grumosa e bagnata degli stessi umori vitali che intridono una zolla.

Probabilmente nei Frammenti Lirici il pensiero non è e non può essere altro che il sentore acre rilasciato dalle viscere, un effluvio materico espresso dallo stridore continuo che l’epitelio delle parole emette ogni volta che queste affrontano la spigolosa ritrosia del reale ad essere detto. La natura — impetuosa e scoordinata, rapace e tenebrosa, scandita tramite una soffocata trascrizione fonica che oscilla tra il metallico e il gutturale — la natura, forclusa dalla possente sistematica crociana, sopravanza la Storia: questa è una memoria sclerotizzata, un palcoscenico scheletrico nei cui anfratti però d’improvviso si riversa la gonfia colluvie di una forza senza nome e identità razionale, una specie di inconscio asoggettivo e biologicamente carico di tutta la ferale irruenza d’ogni dicibilità mondana. Pensare e poetare sono due ferite aperte che si fronteggiano, ingoiando la pastosa densità di un reale smembrato, corroso e corrotto, da cui non c’è scampo. Rèbora, verso la fine dei Canti anonimi, in limine alla conversione ha scritto una delle liriche in cui meglio è illustrato questo grado zero dell’esistenza, colta sia secondo il versante prettamente umano, sia secondo quello naturale-universale:

Apro finestre e porte —
Ma nulla non esce,
Non entra nessuno:
Inerte dentro,
Fuori l’aria è la pioggia.
Gocciole da un filo teso
Cadono tutte, a una scossa.

Apro l’anima e gli occhi —
Ma sguardo non esce,
Non entra pensiero:
Inerte dentro,
Fuori la vita è la morte.
Lacrime da un nervo teso
Cadono tutte, a una scossa. [17]

Il primo dato macroscopico è la simmetria serrata tra le due strofe: medesime scansioni metriche, medesima distribuzione degli elementi grammaticali, esatta corrispondenza di figure e accenti, perfetta omogeneità di Stimmungen tra il mondo umano e il mondo naturale. Tutto s’arresta in una raggelata sensazione di precarietà senza riparo, mentre una contemplazione afona s’espande dall’uomo al mondo. La parola poetica tratteggia la propria voce inudibile sull’orlo tagliante delle cose, confusa con quelle gocciole e quelle lacrime le quali diventano la grama cifra di una verità che forse è possibile proferire solo a costo di penetrarvi con la smarrita violenza di un silenzio volontario e tenace. Tale lirica segna in modo irrefutabile il momento di transizione verso la scelta della vita monastica, verso quella spoliazione del dire [18] che da ora in poi per il poeta milanese diverrà il sigillo di una ricerca poetica, esistenziale e metafisica.


1. C. Rèbora, Le poesie, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1994, p. 122. È il componimento LXVII dei Frammenti lirici.
2. Ivi, p. 183.
3. Ivi, p. 229.
4. Ivi, p. 472.
5. Ivi, p. 85.
6. Ivi, p. 179.
7. Ivi, p. 115.
8. Ivi, p. 119.
9. Ivi, p. 218.
10. Ivi, p. 80.
11. V. Hugo, Les contemplations, Flammarion, Paris 2008, p. 45.
12. Cfr. E. Cecchi, La Tribuna, 12 novembre 1913, ora in C. Rèbora, cit., pp. 569-574.
13. Cfr. G. Boine, La riviera ligure, XX, settembre 1914, ora in C. Rèbora, cit., 575-581.
14. Ivi, p. 225.
15. I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari 2005, p. 479.
16. Cfr, AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Liviana Editrice, Padova 1966, ora in C. Rèbora, cit., pp. 598-604.
17. Ivi, p. 231.
18. È stato l’acutissimo Carlo Bo a parlare per primo di spoliazione per quanto riguarda il linguaggio di Rèbora, in un articolo apparso sul Corriere della sera del 13 maggio 1988, intitolato Dentro il silenzio insieme a Rèbora. Ma già tre anni prima Raboni aveva sottolineato come l’iter stilistico di Rèbora andasse risolutamente verso la rarefazione: cfr. C. Rèbora, cit., pp. 605-608.

Clemente Rebora


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