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La freccia del progresso tra ragione e potenza
di Roberto Fai

25 giugno 2020




Promossa e suggerita il più delle volte da strategie editoriali, è frequente da tempo la tendenza a dar vita a pubblicazioni finalizzate a riflettere sul destino di alcune “parole-chiave”, affidandone la stesura e la cura a prestigiosi studiosi ed intellettuali i quali su tali “parole-chiave” o hanno già offerto in precedenza un contributo speculativo, oppure, per la loro competenza specifica, sono in grado di misurarsi sulla persistenza o sul mutamento di senso che tali parole-chiave sono in grado di estrinsecare — oppure verificarne l’eventuale l’ineffettualità o l’usura determinata per il corso del tempo —, offrendone pertanto la loro inedita significazione all’interno di una costellazione concettuale più corrispondente alle domande ed alle istanze conoscitive del presente. In altri termini, la finalità culturale di tali brevi saggi consiste innanzitutto in una sorta di verifica del valore euristico di queste categorie di pensiero che, ricorsivamente e carsicamente, riemergono nei diversi frangenti storici o nel quadro di “svolte” epocali. Comprensibile, pertanto, che l’esame di alcune di queste «parole controtempo» possa esprimere il sovraccarico della loro densità storico-concettuale, esplicitando uno spettro di analisi all’altezza della contemporaneità. È dentro questo vettore che le edizioni del “Mulino”, in questi ultimi anni, hanno promosso proprio la collana Parole controtempo, all’interno della quale sono già usciti alcuni volumi, curati da studiosi diversi: Salvatore Natoli, su Perseveranza — che ho avuto il piacere di presentare a Carpi, insieme all’autore, qualche anno fa, in un’edizione del FestivalFilosofia di Modena —, Gabriella Caramore, su Pazienza, Stefano Zamagni su Prudenza, il compianto Remo Bodei, su Limite, Franco Cardini, su Onore, Manlio Graziano su Frontiere, Franco Garelli, su Educazione, Carlo Galli, su Sovranità, Marco Aime, su Comunità, solo per citarne alcuni.

Su Limite, di Remo Bodei, ne abbiamo già scritto, qualche anno fa, sempre su questa Rivista, e a tale recensione rimandiamo il lettore, eventualmente incuriosito. Qui, il nostro interesse è rivolto al ‘lavoro’ di recente pubblicazione (aprile 2020) sulla ‘parola’ Progresso, attorno a cui Aldo Schiavone riesce a condensare, in un libricino di appena 136 pagine, oltre che la sua intensa e brillante competenza di studioso, anche la suggestione di uno “sguardo ottimistico” — benché l’ottimismo costituisca solo una Stimmung, non sufficiente per connotare sul piano della riflessione speculativa la produttività della ‘parola’ in questione — che lo porta a scrivere che ancora oggi «l’idea di progresso» è davanti a noi e alle sfide che il tempo a venire pone all’umano, stagliato inevitabilmente e destinalmente su quella ‘soglia’ che congiunge, nella loro ontologica relazione, natura (umana) ed artificialità (frutto della cultura), physis e tecnica. Sia chiaro, le intenzioni e le finalità del pur breve e intenso libro dell’autore sono totalmente altre da quelle che avevano mosso, nel 1984, Gennaro Sasso nel dare alle stampe un saggio memorabile — Tramonto di un mito. L’idea di “progresso” fra Ottocento e Novecento (il Mulino) —, in cui l’intera costellazione di pensiero filosofico e letterario (da Flaubert a Nietzsche, da Comte a Darwin, da Freud ad Heidegger — con la singolare assenza di Walter Benjamin) era passata in rassegna. Aldo Schiavone è un raffinato storico del diritto, autore, nel 2005, di un corposo e notevole saggio, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Einaudi). Testo che, dopo aver consacrato la fama internazionale dello studioso, è tornato, arricchito, in una nuova edizione nel 2017. Più recentemente, l’autore ha dato prova della sua straordinaria competenza di storico e di studioso pubblicando un altro ampio e denso saggio, dal titolo Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, sempre con Einaudi (2019). Anche quest’altra categoria, o “idea-forza” — che se non è certamente una “parola controtempo”, costituisce semmai un tema attualissimo di studio, stretto nella morsa delle contraddizioni del tempo globale —, così fondamentale per il pensiero politico, è riproposta dallo studioso lungo la suggestiva scansione delle sue vicissitudini storiche: dalle aporie che hanno connotato l’Eguaglianza nel pensiero e nell’esperienza della grecità, per giungere poi al periodo della “romanità” — luogo di invenzione dello Ius —, così segnata dalla novitas dell’evo cristiano, sino al medioevo e poi all’interno della “svolta” impressa dalla stagione del Moderno.

Anche la profonda suggestione di questo lavoro di Schiavone sull’Eguaglianza consiste, a mio parere, sia nella straordinaria ricostruzione concettuale che questa categoria sperimenta nell’esperienza greca e nella filosofia dei grandi pensatori — e qui Schiavone offre con acume le 'ragioni’ della giustificazione aristotelica della schiavitù per natura —, che nel controcanto differente dell’eguaglianza espressa dalla cultura giuridica romana, per riflettere sulle istanze del paradigma 'espansivo’ dell’eguaglianza nel tempo moderno, giungendo infine alle attuali contraddizioni dell’epoca globale. Qui, le importanti riflessioni dell’autore sono rivolte sull’urgenza di slargare il raggio di una presenza sostanziale dell’eguaglianza — il cui senso è prosciugato dalle profonde disparità, ingiustizie e diseguaglianze delle “nuove forme del capitale” che minano la condizione presente —, sino al punto da incrociare, sul piano della proposta teorica, i temi di quel pensiero dell’impersonale, su cui in questo decennio s’è misurata l’intensa ricerca di Roberto Esposito, ma approfondendone le differenze rispetto a quest’ultimo. In Esposito, come noto, l’accento posto sulla “produttività” politica di un “pensiero dell’impersonale” è teso a cogliere il vettore in grado di inscrivere l’individuo o i soggetti — declinati col timbro etico della “terza persona”: cogliendo qui il 'cuore’ del pensiero di Simone Weil —, lungo la trama di una biopolitica affermativa. In altri termini, non nell’affermazione progressiva di una 'normatività’ che si imponga sulla vita, bensì di una normatività che scorga dalla vita stessa: vale a dire, dall’istanza affermativa di una 'politica della vita’, anziché una 'politica sulla vita’. Le finalità di Schiavone tendono piuttosto ad approfondire un pensiero dell’impersonale, scandito lungo l’asse di una piena affermazione dell’idea di uguaglianza. Come scrive lo stesso autore, a «costruire una teoria dell’eguaglianza come proiezione primaria dell’impersonalità dell’umano sul piano sociale, etico, giuridico» (A.S. Eguaglianza, p. 285). Nel senso che, per l’autore, la soglia di giuntura che può tenere insieme entrambi i corni della questione — impersonalità ed eguaglianza — risiede in «un processo che ha il suo centro non nei soggetti — le persone, gli individui — ma negli oggetti: non dall’interno, per così dire, ma all’esterno di ciascuno di noi; nella struttura della realtà — sia naturale, sia artificiale; o almeno, in quella sua parte condivisa dall’umano nel suo insieme. Una sfera, quest’ultima, in continua espansione, grazie ai meccanismi di controllo e di trasformazione che la tecnica introduce con forza sempre maggiore non solo nell’ambiente che ci circonda, ma nella nostra stessa configurazione anatomica e biologica: sulla materialità dei nostri corpi, determinandone il destino» (Eguaglianza, p. 293, corsivo nostro).

Tuttavia, non potendo più proseguire qui in una riflessione che scandagli ulteriormente le differenze teoretiche tra i due studiosi, possiamo cogliere semmai, già nel passo citato, il punto di vista di Schiavone che anticipa i suoi vettori di pensiero che ci conducono all’idea di progresso. Aggiungiamo, peraltro, come è già affiorato sopra, che se appare certo che i temi e lo 'sfondo’ concettuale di questa sua importante ricerca storico-politica sull’idea di Eguaglianza rimandano un’eco che ci conduce alle pagine — in particolare in quelle finali — del suo più recente e breve saggio Progresso, non possiamo sorvolare su un altro antecedente teorico che, come un fil rouge, esplicita ed informa il senso del recente libricino di Schiavone che qui proviamo ad esaminare. Di più, diremo piuttosto che è proprio quest’altro, breve saggio, ancora precedente a Eguaglianza, che consente di poter individuare nella ricerca di Schiavone una sorta di “trittico” che lega l’ultimo Progresso, sia a Eguaglianza che a quel “Manifesto per un nuovo umanesimo”, che l’autore ha elaborato nel 2007, condensandolo nelle pagine del suo Storia e destino, pubblicato sempre con Einaudi. Ma prima di addentrarmi lungo le trame di questo suo ultimo Progresso, mi corre l’obbligo di riprendere alcuni rilievi critici, su Storia e destino, che formulavo, nel 2012, nelle pagine introduttive del mio saggio Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità, che Mimesis avrebbe pubblicato l’anno successivo.

Dando al mio saggio quel titolo, attraverso la ‘coppia’ Frammento e Sistema, intendevo esplicitare il dilemma del nostro tempo, nella doppia aporia che legava i due termini della relazione nel compimento pieno dell’epoca globale. In altri termini — così nel mio testo —, registravo il paradosso di una unità del mondo, raggiunta nella sua “compiutezza” reticolare (il “sistema”) — attestata dalla Global Age, pur nella visibile e sconcertante dissimmetria di poteri e nell’accentuarsi insopportabile delle diseguaglianze sociali, ecc. —, che lasciava i soggetti, divenuti così sparsi “frammenti”, disorientati e spaesati nel mondo. Proprio quando il mondo sembrava essere “risolto” nella totale trasparenza delle sue immagini e “telerappresentazioni” — stante che la globalizzazione ci dava già allora il mondo interamente “in presa diretta” con se stesso — si fosse spenta ogni immagine di futuro, sì che al posto della dimensione del tempo e della temporalità, fosse già allora lo spazio, la spazialità, a dominare la scena, così da delineare quale dispositivo di espressione e “rappresentazione” del reale la mera puntualità del ‘presente’ immobilizzante. In altri termini, come nell’epoca della raggiunta e “compiuta” circolarità sistemica del mondo, anziché una veduta panoramica e una trasparenza delle immagini del mondo, venuto meno il classico e tradizionale lessico ermeneutico di comprensione della realtà, tutte le nostre immagini si fossero scolorite, facendo tutti noi fatica ad afferrare quella che Jean-Luc Nancy definiva il senso del mondo. Quasi che una condizione di vuoto — una sorta di “pagina bianca” — si fosse installata dentro il nostro vocabolario filosofico, aprendo uno scarto irreversibile tra il linguaggio e le cose, le parole e il mondo, i concetti e gli eventi, l’accadere e il ‘senso’, il nostro agire comune e la possibilità di dare ad esso una inedita, rinnovata configurazione politica e conoscitiva. Al punto che la perdita di significazione di una serie di categorie concettuali che avevano scandito la vita pratica e le varie voci del vocabolario filosofico-politico — rappresentanza, sovranità, popolo, cittadinanza, democrazia, progresso, ecc. —, si riflettesse non nella semplicistica immagine di un sistema ridotto in frammenti, bensì nelle trame opache di un sistema in grado di “funzionare” proprio attraverso l’a-dialettica presenza di tanti sparsi frammenti (soggettivi). In altri termini, Sistema e frammenti, tenuti insieme nella loro paradossale ed aporetica “connessione” irrelata.

Da qui — proseguivo nel mio saggio —, la presa d’atto della nostra estrema difficoltà conoscitiva ed esistenziale, segnata dalla consistente fatica a far emergere forme di pensiero in grado di poter corrispondere alla comprensione della contemporaneità. Paradossalmente, proprio mentre la mente umana, forse per la prima volta, di fronte ad un’epoca divenuta “reticolare” era in grado di osservare-conoscere il mondo in presa diretta, non riuscisse, tuttavia, a diagnosticare i suoi caratteri inediti dispiegantesi nella loro trasparenza sistemica. Ed attorno a questo nodo dilemmatico, chiamavo in causa proprio il ‘cuore’ del saggio di Aldo Schiavone, Storia e destino. Lo assumevo come riferimento critico ed esprimevo qualche rilievo, scrivendo in questi termini: «pur riconoscendo effetti di verità ad alcuni campi disciplinari che appaiono molto fecondi grazie anche alle scoperte scientifiche di questi ultimi anni — in particolare, lungo il vettore che lega in un 'trittico’ il cosmo, la vita e la specie —, al punto da spingere qualche studioso a delineare il “manifesto di un nuovo umanesimo”, prefigurato dagli esiti della “totalizzazione tecnica della natura” ed effetto di quella bioconvergenza che sembra stringere in modo irreversibile natura e cultura, forme biologiche ed artificialità tecniche, Inizio e destino, tuttavia a noi pare che questo “sguardo ottimistico”, piuttosto che lasciar trasparire positive “immagini di futuro”, lasci scoperta (e conviva con) quella percezione di incertezza e di estrema contingenza che blocca tutte le soggettività sul bordo estremo di una soglia in cui il tempo è interamente schiacciato e contratto su un “presente” imponderabile e privo di prospettive» (Frammento e sistema, p. 10). Senza neppure nominarlo, il termine progresso appariva, dalle mie riflessioni, oltremodo problematico, in contrappunto alla tesi di Schiavone che, proprio attraverso il titolo del suo saggio — Storia e destino —, sembrava conferire proprio al “progresso” il timbro di una freccia 'destinale’, scaturente dalla plurimillenaria storia umana, vista nel suo passaggio da una relazione incerta con una natura, originariamente potente, alle tante forme e dispositivi di dominio tecnico sulla stessa, a partire dall’accelerazione moderna. Sicché, potevo scrivere in nota — chiudendo con la citazione di un passo di Storia e destino — che «l’autore, a partire dagli studi sul big bang della cosmologia contemporanea, sino alle opportunità aperte dalle scoperte sul genoma umano, affaccia alcune ipotesi positive per l’umanità presente, secondo cui, “quanto più il decentramento della nostra posizione nello spazio e nel tempo appare schiacciante e definitivo, tanto più la forza del nostro sguardo risulta rivelatrice e riscattante”», (nota n. 5 Frammento e sistema, cit., p. 10).

M’è parso giusto e corretto riportare qui quei miei giudizi 'critici’ di allora — che avevano al centro Storia e destino del 2007 —, perché quest’ultimo, breve saggio di Schiavone, Progresso, a me pare offra, con maggiore chiarezza e lucidità, il senso della posizione teoretica dell’autore, intento a ‘salvare’ l’idea di progresso, attraversandola nella sua genealogia e giocandola proprio sul bordo di quella ‘soglia’ in cui il plesso tra natura e artificialità colloca e vede l’umano nel dispiegamento pieno della sua “potenza tecnica”. Sta di fatto che, quasi per una sorta di contrappasso ‘diabolico’, pur finito di scrivere negli ultimi mesi del 2019 — poco prima che la diffusione del virus Covid19 stringesse il mondo intero sotto il prevalere del giogo inesorabile della legge di natura —, l’editore e l’autore hanno opportunamente deciso di dare alle stampe il saggio Progresso nell’aprile di quest’anno, offrendo a Schiavone l’opportunità di aggiungere una postfazione, in cui l’autore ha modo di cogliere e rinvigorire il senso delle sue tesi, al punto da scrivere che «la risposta ai problemi del presente [vale a dire la neutralizzazione delle minacce pandemiche del Covid19, ndr] è dunque davanti a noi, non alle nostre spalle» (Progresso, p. 145), lasciando così intendere — come abbiamo provato a scrivere poco sopra — che per l’autore, pur consapevole della persistenza di uno scarto tra ‘ragione’ e ‘potenza artificiale’, la bilancia non penda a favore di una natura fuori controllo — che rischi così di far deflagrare irreversibilmente la vicenda umana —, bensì sulle straordinarie conoscenze/applicazioni tecnico-scientifiche, attorno a cui l’umano può ancora riuscire a coniugare la sfera dell’intelligenza umana e la dimensione della vita a venire. Pertanto, la stessa minacciosa comparsa di questo ospite inatteso — il Virus —, di là dallo scenario drammatico con cui ha segnato, tra fine dicembre e gennaio 2020, la sua presenza al mondo, mettendo rapidamente in questione le nostre forme-di-vita, offre a Schiavone, in questa postfazione, l’opportunità di rafforzare il senso del suo ragionamento di fondo. Ne riportiamo un passo significativo: «...quella del Covid-19 è stata la prima epidemia al mondo fin dall’inizio (o quasi) sottoposta ad una medicalizzazione totale, planetaria che si è accompagnata ad un’onda di informazioni (sia pure con alcune vistose falle), che non ha smesso mai di avvolgerla. Un abisso la separa da questo punto di vista rispetto all’influenza cosiddetta “spagnola” di un secolo fa, consumatasi quasi in silenzio, nonostante il numero spaventoso di vittime (decine di milioni) [...] Nella congiuntura, la scienza e la tecnica sono apparse nitidamente per quello che effettivamente sono: le custodi dell’umano, le garanti della sua esistenza. I loro protocolli, le loro procedure, le loro prescrizioni sono diventate per la prima volta la misura di una globalità universalmente accettata. Non più ridotta, come finora, alla sola dimensione del mercato e delle merci, ma in grado di incidere sulla stessa nuda vita e di metterla in gioco. Chi ancora avesse dubitato sulla funzione progressiva di quei saperi e di quelle pratiche, della loro capacità di proiettarsi persino oltre il guscio capitalistico che pur sempre le contiene [...] è rimasto clamorosamente smentito. La scienza e la tecnica non sono una potenza estranea a noi, che ci determina da fuori. Sono nostre figlie. Siamo noi. Sono la nostra ragione al lavoro: il prodotto decisivo della nostra storia» (ivi, pp. 139-141).

Sono il nostro destino, potremmo chiosare! Certo, la perentorietà con cui Schiavone motiva il proprio punto di vista sgombra il campo da ogni irenismo: l’autore, infatti, non nega affatto né sottovaluta che «l’economia capitalistica — questa, non la tecnica in quanto tale — possiede intrinseci tratti rapinosi e predatori, che tendono a moltiplicare, se non ben controllati, squilibri e ferite sociali e ambientali di vastità imprevedibili» (ivi, p. 142, c. n.), e tuttavia, proprio di fronte alla diffusione pandemica — di là delle défaillances o opacità informative, per “responsabilità umane” specifiche ed individuate, che hanno costretto a contrastare in ritardo la diffusione pandemica del virus —, è indubbio riconoscere che è grazie all’alta e diffusa capacità dei diversi saperi e specialismi (di carattere biologico, virologico, epidemiologico, infettivologo, sanitario, ecc.), resi possibili dal progresso tecnico-scientifico, che l’umanità nel suo insieme ha potuto in breve tempo sia contrastare il virus sia penetrare sin da subito dentro le “trame naturali” del suo originarsi, della sua composizione ed azione — compreso quel maledetto spillover —, al fine di neutralizzarlo definitivamente, con la quasi certezza di giungere presto ad un vaccino.

Ci rendiamo conto che l’idea del nostro esordio, segnato da pochi riferimenti del saggio che partono dalle pagine finali — i passi della postfazione che commisurano la pregnanza dell’idea di progresso di fronte alla sfida pandemica —, proprio perché lasciano affiorare ed intendere subito le chiare opzioni teoretiche di Schiavone, possano spingere alcuni a ritenere superflua la lettura del saggio Progresso, dal momento che, anziché una categoria usurata e totalmente ineffettuale, l’idea di “progresso” sembrerebbe confermare, per l’autore, la persistenza della sua freccia produttiva per il tempo a venire. Ed infatti si commetterebbe un errore imperdonabile nel rinunciare alla lettura di un libro colto e raffinato che, con una scrittura piena e densa e un ritmo intenso dal punto di vista concettuale, dischiude veri e propri fasci di luce sulla storia controversa di una categoria e di un concetto attorno a cui il pensiero filosofico, sociologico, antropologico, storico, e poi biologico, naturalistico e antropotecnico non ha smesso di misurarsi. Innanzitutto, per via dell’incipit dell’esordio che ripropone lo sfondo inesauribile di quell’icona, costantemente e ricorsivamente frequentata, che risponde al nome di Angelus Novus: vale a dire, il celebre dipinto di Paul Klee che aveva offerto a Walter Benjamin la possibilità di esplicare la sua visione messianica della storia, attraverso l’immagine di un angelo quasi sospeso, trattenuto con lo sguardo rivolto al passato, dove sono disposte e visibili, rovine su rovine, le macerie di un “mondo-tempo” andato in frantumi — che l’angelo contempla nel desiderio di volere ricomporre —, mentre la tempesta che spira dal paradiso lo spinge verso il futuro schiudendogli con forza e violenza le ali, allontanandolo così da quel passato irredimibile. «Questa tempesta — così chiudeva il passo Benjamin — è ciò che chiamiamo progresso».

Ecco, già la suggestione di tornare ad una rinnovata rivisitazione ermeneutica dello sguardo dell’angelo — inesauribile e ineguagliabile topos che ha scandito interamente il grande pensiero speculativo del '900 sul tema del tempo e della temporalità — costituisce un’occasione imperdibile per comprendere se e come l’idea di progresso possa continuare ad offrire, nel nostro tempo globale, una sua inedita produttività. Ma più che sul versante del “teologico-filosofico” o di una dimensione redentiva, legata alla possibilità di una “riserva escatologica”, le finalità e le argomentazioni perseguite con acume da Schiavone — come già detto —, a sostegno dell’idea di progresso, sono tutte finalizzate a commisurare, lungo l’asse di una freccia, i mutamenti che il plesso natura-cultura (artificialità), physis-tecnica è venuto esibendo lungo i secoli o i millenni della storia dell’evoluzione umana, sino a condurre l’autore a parlare di «una relazione intrinsecamente progressiva tra pensiero e mondo» (p. 110). Ed infatti, è pur vero che se osserviamo e ricollochiamo il nostro sguardo panoramico indietro nel tempo — sui millenni che precedono la sviluppo tecnico-scientifico —, la storia ci conferma che la natura ha espresso, ab origine e per lungo tempo, la propria intatta potenza, è altresì noto che la capacità di manipolazione della physis da parte dell’uomo ha una storia altrettanto lunga, fatta di incessanti e pervasivi processi di dominio e di artificialità tecnica, sì da rendere quasi indistinguibili natura ed artificio, consentendo a partire dalla Modernità quei processi di accelerazione tecnico-scientifica che hanno visto l’umano poter imprimere una svolta radicale all’esistenza, alle stesse forme-di-vita, e alla stessa natura, grazie all’espansione inaudita dei saperi scientifici — su tutti i versanti. Al punto che Schiavone può scrivere che «ciò che è “naturalmente divenuto” e ciò che è “tecnicamente prodotto” diventeranno sempre meno distinguibili, integrati l’uno nell’altro all’interno del nostro stesso corpo e, fuori, nell’ecosistema intorno a noi: il cui equilibrio dipenderà sempre meno da un nostro puro e semplice astenersi, da un passivo ritrarsi, e sempre più da un piano razionale di interventi e di scelte attivamente conservative. Naturale non sarà ciò che non abbiamo toccato, ma ciò che abbiamo saputo e voluto difendere e far durare come tale. E quel che sarà stato fino ad allora un presupposto inalterabile della presenza umana nella storia — la definizione della nostra forma biologica e del suo ambiente — sarà solo il risultato che avremo conquistato attraverso le nostre scelte» (ivi, pp. 86-7, c. n.).

Ragione e potenza tecnica, pertanto, si stagliano — potremmo dire, ontologicamente — sul piano di una relazione inesausta e permanente, con la differenza che se nell’antichità il piatto della bilancia pendeva di più verso condizioni (e conoscenze limitate) che schiacciavano l’umano sotto il peso di quei “vincoli naturali” che lo rendevano subalterno, il nostro tempo, pur nel permanere di uno scarto tra ragione e dominio, colloca la tecnica su un livello altissimo e sofisticato di determinazione e di estrinsecazione di fini, sino al punto — oggi non ancora possibile da delineare — di un compimento postnaturale dell’umano, dal momento che da sempre, la condizione dell’umano «non si identifica con la specie che lo ha prodotto» (ivi, p. 90), lasciando immaginare il restringersi di quel filo sottile che ha distanziato l’invariante biologico dalla ‘presa’ sul corpo vivente per la potenza dell’artificialità tecnica. Senza escludere, per Schiavone, che il principio universale di condotta, per Stati, Imperi e Istituzioni di ricerca, «debba essere la norma per cui l’eguaglianza genetica che abbiamo ereditato dalla storia evolutiva della specie che stiamo oltrepassando vada considerata come un’acquisizione inviolabile [...], considerare sempre un obiettivo da difendere» (ivi, p. 131). Così come, tuttavia, di fronte a questa condizione di straordinari avanzamenti e gigantesche prospettive tecnico-scientifiche che il XX secolo ha saputo esprimere, non ci si può nascondere il fatto che la contemporaneità globale ci squaderni di fronte un abisso di tensioni, diseguaglianze, tendenze regressive e vite di scarto, tali da rendere più fessurato e incerto lo iato tra ragione e dominio. Vero è, pertanto, che se proiettiamo lo sguardo sul percorso evolutivo della specie umana l’immagine della freccia nella lunga durata è rintracciabile, pur se «storia della tecnica e storia della determinazione umana non sono la stessa cosa.e non procedono di pari passo» (p. 131). Ed allora, è in questa frattura, in questo scarto che si gioca la sfida decisiva del nostro tempo. La scommessa, pertanto, sta tutta qui: dentro quell’universalismo globale che unifica il mondo pur dentro un piano di insopportabili dissimmetrie — ingiustizie, disparità, diseguaglianze, ecc..., tutte segnate dal dominio della parola “Io” — «l’economia globale, che rimane più che mai un modo dell’organizzazione capitalistica del mondo, e dunque essa stessa una forma storica destinata prima o poi a esaurirsi, esige, per potersi riequilibrare, di essere messa confronto con una soggettività altrettanto globale che non può essere costituita se non dall’impersonalità dell’umano, nel suo complesso» (ivi, p. 129, c. n.).

Si, è vero conclude l’autore: «si sbagliava, dunque, l’angelo di Klee e di Benjamin: c’era qualcosa che resisteva e durava, oltre l’orrore e oltre le rovine, per cui valeva la pena di guardare» (ivi, p. 133). È un auspicio, quello di Schiavone, che coglie indubbiamente le sue fondate ragioni. È, il nostro, un tempo giunto allo stadio estremo di una saturazione piena — declinante sul bordo inquieto di “rovine” depositate alle nostre spalle e di straordinarie opportunità, compresse dalle attuali forme di dominio —, da cui è possibile uscire se la possibilità/necessità delle due frecce — ragione e potenza —, “scoccate da due archi gemelli”, di poter pervenire allo stesso bersaglio potrà tradursi in un successo auspicato. Vale a dire, condurci ad «un’immagine e un’etica dell’umano che sappiano andare oltre l’individuale» (ivi, 128). Come sempre, la libertà pencola sull’abisso. E naturalmente, non rinunceremmo a dedicare attenzione e la nostra lettura di un’altra eventuale “parolacontrotempo” — Speranza. Tuttavia, se è vero che il nostro è un tempo epimeteico — di quell’Epimeteo che è solo “colui che vede dopo” —, qui possiamo solo sospendere le nostre riflessioni, sostando sulla pur speranzosa soglia da cui guardare il mondo e i suoi accadimenti, tenendo a mente o stando all’ascolto di quella voce del distico iniziale del Coro dell’Antigone di Sofocle in cui si dice che: «Di molte specie è l’inquietante, ma nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo si aderge».

Paul Klee, Scheidung abends, 1922.


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