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Calvino e l’utopia capovolta.
Come il terzo millennio ha smentito le Lezioni americane
Parte quinta. Visibilità [Parte quarta]

di Lorenzo Lasagna

1 maggio 2020



Siamo così arrivati alla conclusione, che abbiamo riservato alla sezione più complessa del testo (e dunque anche alla parte più complessa dell’analisi testuale).

La quarta lezione di Calvino, dedicata alla visibilità, spicca infatti per essere la più confusa sul piano teorico — e questo già a cominciare dall’intitolazione. Come su di un percorso accidentato, non è possibile avanzare nella lettura senza essere costretti a continui salti logici. Alcuni passaggi risultano ermetici e difficilmente riconducibili a concetti chiari e distinti, altri sembrano seguire la spinta di mere fascinazioni stilistiche, altri infine sono contraddittori, opinabili, o comunque basati su affermazioni non argomentate. Nel complesso, si ricava la sensazione di essere davanti ad un testo dall’impianto assolutamente erratico.

La prima cosa che balza all’occhio del lettore (se non si è lasciato fuorviare dagli ammiccamenti e dalle seduzioni della pagina) è che, sulla base di un’interpretazione rigorosa del testo, il vero argomento della lezione non è la visibilità (parola che indica la proprietà di un sistema di oggetti, o di un dato oggetto)[1], bensì una categoria molto più vischiosa, che ricomprende due distinti processi (entrambi invece relativi all’attività di un soggetto). Tali processi sono la visione (cioè l’atto di avere o di farsi un’immagine, cioè un contenuto mentale) e la capacità di rendere visibile qualcosa attraverso il linguaggio (cioè l’atto di suscitare un’immagine mediante segni). Com’è evidente, si tratta di due attività che appartengono ad ambiti concettualmente non sovrapponibili: un ambito cognitivo (o gnoseologico) la prima; un ambito linguistico la seconda. Noi le chiameremo rispettivamente processo A (il vedere) e processo B (il rendere visibile mediante il linguaggio). Come cercheremo di spiegare, nella conferenza dedicata alla visibilità Calvino rimbalzerà continuamente tra i processi A e B, ponendoli qualche volta in alternativa, altre volte equiparandoli, oppure considerandoli momenti diversi (cioè fasi) di un processo unico, ma ricavando ogni volta dal loro esame conclusioni tutto sommato incoerenti[2].

Tornando all’impianto della lezione: ci perdonerà il lettore se proveremo a ricostruirlo passo passo, e la cosa potrà risultare pedante. Tuttavia, ci sembra che questo sia l’unico modo per venire a capo del testo.

La menzione d’apertura della lezione tocca a Dante, citando il quale Calvino suggerisce un’idea di immaginazione intesa come atto mentale non mediato dai sensi[3]: secondo tale idea, dentro di noi pullulano oggetti mentali che sono ‘piovuti’ (o che sono stati attinti) da qualche luogo remoto. Calvino però abbandona quasi subito il problema della genesi delle immagini (che riprenderà solo molte pagine più avanti), per occuparsi di una questione più circoscritta: viene prima l’immagine (mentale) oppure la parola che la designa? Si danno, secondo lui, entrambi i casi: c’è un percorso che va dalle parole alle immagini (come quando leggiamo), e c’è un percorso inverso che va dalle immagini alle parole (“come al cinema”, dice Calvino, ma poi spiega che si tratta di una metafora: il cinema di cui parla è dentro la nostra mente)[4]. La fantasia del lettore tornerà forse a Dante e alle sue immagini ‘piovute da fuori’, ma il richiamo è solo apparente, perché quello che sembrava essere il cuore del ragionamento iniziale (cioè la domanda circa la provenienza delle immagini) si è perso. Adesso il tema è il legame logico tra immagine mentale e parola: quale delle due viene prima e regola il funzionamento della seconda?

Comunque la si pensi al riguardo, basta un esame superficiale degli argomenti per accorgersi che la bipartizione stabilita da Calvino è arbitraria. Ci sono infatti processi creativi, immaginativi e di significazione che non seguono necessariamente uno dei due percorsi da lui tracciati. Uno psicanalista, ad esempio, obietterebbe che a monte della produzione tanto di immagini quanto di parole, stanno forze nascoste di provenienza inconscia[5], e sono loro a menare le danze. Un empirista radicale direbbe che all’origine di tutto (parole e immagini) stanno i sensi. Qualche neuroscienziato o linguista ci direbbe che siamo predisposti a generare entrambe (immagini mentali e parole) in modo indipendente da ciò che concretamente ci accade[6]. Insomma: l’alternativa secca posta da Calvino non dà ragione della complessità di un qualsiasi processo psichico o linguistico. Anche in questo caso, tuttavia, l’argomento viene lasciato in sospeso senza spiegazioni, per aprire una digressione su Ignazio di Loyola. Solo al termine della digressione Calvino prova a rimettere un po’ d’ordine nel ragionamento. Richiama per un attimo il dilemma parola-immagine (quale delle due viene prima?), ma anziché rispondere in modo chiaro alla domanda[7], salta indietro al problema originario: da dove provengono le immagini?[8] Prendendo spunto dalle tesi dello psichiatra Jean Starobinski, esamina quindi in dettaglio le due fattispecie di cui dicevamo: l’immagine come prodotto del linguaggio e dell’attività conoscitiva e razionale di un soggetto, e l’immagine come visione (epifania di una qualche verità trascendente o comunque sovraindividuale). Dal canto suo, però, non si risolve tra le due opzioni:

“È giunto il momento di rispondere alla domanda che m’ero posto riguardo alle due correnti secondo Starobinski [...]. A chi va la mia opzione? Stando a quanto dicevo, dovrei essere un deciso fautore della prima tendenza [quella razionalista], perché il racconto è per me unificazione d’una logica spontanea delle immagini e di un disegno condotto secondo un’intenzione razionale. Ma nello stesso tempo ho sempre cercato nell’immaginazione un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva; dunque sarebbe stato giusto che mi dichiarassi più vicino alla seconda posizione, quella dell’identificazione con l’anima del mondo”[9]. Il dilemma sembra irresolubile.

Ma ecco che quando il lettore inizia a rassegnarsi, Calvino propone finalmente di sciogliere lo stallo, e lo fa integrando i due passaggi. Ipotizza che l’atto creativo avvenga in due tempi: il primo è la visione, il momento in cui l’immagine appare come dal nulla; il secondo è quello più propriamente tecnico e razionale della combinazione, dell’interazione meccanica tra i segni. Scrive Calvino: “Dunque nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato [...]. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite”[10]. Si noti la contraddizione in termini: l’immagine viene sviluppata da me, anzi no, si sviluppa da sé medesima secondo le proprie potenzialità. A valle di questo ennesimo aggiustamento di tiro, l’opzione dell’intenzionalità linguistica dell’autore prende comunque il sopravvento: “Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro”[11]. Ecco dunque che processo A (il vedere) e processo B (il far vedere usando il linguaggio) non sono più i corni di un dilemma, ma i due momenti (consequenziali) di un atto unitario.

Verso la fine della lezione, tuttavia, Calvino sembra però esprimere una preferenza netta, e lo fa in favore del processo B: “La fantasia è una specie di macchina elettronica [sic] che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che corrispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli, divertenti”[12].

Dunque, dopo innumerevoli giravolte logiche e rovesciamenti di fronte, siamo forse giunti ad una conclusione: l’intenzionalità dell’autore (il far vedere con mezzi linguistici) prevale sulla trascendenza (il vedere qualcosa che mi si impone dal di fuori).

Concludendo questa complicata ricostruzione — e se non ci siamo irrimediabilmente persi nel labirinto della quarta lezione — possiamo mettere un punto fermo sulla questione definitoria: la visibilità di cui Calvino sta parlando è in senso eminente una forma di produzione efficace del senso, ottenuta mediante una relazione tra segni: il processo A detiene dunque questa sorta di precedenza o primato.

Bene. Se abbiamo dedicato tanto tempo a ricostruire la linea degli argomenti non è per un eccesso di zelo filologico, ma perché davvero la conferenza intitolata Visibilità presenta enormi difficoltà di comprensione.

Tuttavia, nemmeno tali difficoltà sono bastate a raffreddare l’entusiasmo degli interpreti di Calvino, i quali, secondo copione, si sono accontentati di un paio di dichiarazioni ad effetto (prive però di legami logici con l’impianto generale) per sentenziare che anche alla quarta lezione americana spetta lo status di ‘profezia’.

Ci riferiamo al passo più citato del capitolo, dove si legge: “Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni ad occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini”[13].

Proprio come era accaduto a proposito della rapidità, la correttezza della previsione (anche in questo caso, va detto, piuttosto scontata) ha distolto l’attenzione dei commentatori dal problema della sua coerenza. Cioè: il fatto che sia accaduto più o meno quanto Calvino paventava (e cioè che stiamo assistendo ad un generalizzato scadimento della forza evocativa del linguaggio), non significa di per sé che la previsione sia coerente con gli argomenti forniti. Vediamo perché.

Se davvero la visibilità auspicata consiste (processo B) in uno speciale impiego dei segni allo scopo di fabbricare immagini, allora non risulta ben chiara la natura della preoccupazione manifestata Calvino. Il presente tardomoderno segna infatti il trionfo di questa attività (che predilige l’associazione e il legame dinamico tra i segni e le immagini): viviamo, per così dire, un’epoca di apoteosi della connettività tra segni. Abbiamo quindi realizzato e portato alle estreme conseguenze il meccanismo che Calvino teorizzava (“un procedimento d’associazioni d’immagini che è il sistema più veloce di collegare e scegliere tra le infinite forme del possibile e dell’impossibile”[14]). Dove sarebbe il problema dal suo punto di vista?

Se, al contrario, la visibilità fosse qualcosa che ci pone in relazione con un sorgimento di senso trascendente ed extraindividuale (processo A), beh, allora Calvino avrebbe indubbiamente ragione nel dire che siamo di fronte ad un problema. Potremmo persino spingerci a sostenere con lui che il parossismo della produzione d’immagini dalle immagini ha quasi soppiantato la capacità di attingere ad un senso[15]. Ma allora bisogna anzitutto chiarire che esiste una netta divergenza tra i due processi inizialmente considerati (processo A e processo B), e non cullarsi ambiguamente nell’idea di una loro complementarietà — tanto più che la preferenza di Calvino viene accordata in ultima analisi al secondo corno del dilemma e non al primo.

Ma non è tutto. Se optassimo per l’idea di visione come attingimento di senso, andrebbe posto in evidenza un fatto che invece Calvino tralascia: la visione (intesa qui come processo A) non si riduce a ciò che viene effettivamente visto (l’immagine), ma richiede di essere colta rispetto a qualcos’altro che non sia la semplice percezione fenomenica da parte di un soggetto. Dunque, l’immagine si lega a qualcosa che nel processo di attingimento rimane nascosto. L’elogio della visibilità dovrebbe diventare allora un elogio del nascondimento, o della relazione tra presenza e assenza. Questo secondo noi è il nucleo teorico (rimosso) dell’intera lezione[16].

Come l’idea di accelerazione, anche la metafora della visione ha accompagnato sin dal suo nascere l’epoca illuminista (e dunque la fase della modernità precedente a quella che viviamo): del resto, è lampante il fatto che non possa darsi visione senza luce. In questo caso però le attenuanti di Calvino nel non sottoporre tale metafora a indagine, sono deboli: negli anni in cui andava preparando le Norton Lectures, la fiducia generale nel paradigma della visione era già stata oggetto di pesanti critiche sia sul piano teoretico che su quello della desiderabilità sociale. Da un lato stavano i cosiddetti pensatori francofortesi (su tutti Horkheimer e Adorno), e certa filosofia post-heideggeriana (si pensi a Emmanuel Lévinas), dall’altro era ben nota la contestazione avanzata contro le scienze sociali (Deleuze, Guattari) e le istituzioni repressive (Foucault): a prescindere dalle forti differenze che intercorrevano tra gli uni e gli altri, tutti avevano in qualche modo denunciato l’avvenuto rovesciamento dell’utopia visiva da apparato di conoscenza razionale (e di liberazione morale) a dispositivo di totalizzazione e controllo. Di queste analisi, nella quarta lezione americana, non vi è traccia.

Dicevamo poi che Calvino non sembra aver ponderato sino in fondo il valore del suo riferimento iniziale a Dante: se l’immagine non è qualcosa di autosufficiente, al paradigma della visione come presenza piena deve subentrare un paradigma del differimento e della relazione. Del rimando a qualcos’altro (anche a questo proposito sarebbe utile tornare a Lacan, e alla sua insistenza sul valore del registro simbolico inteso come apertura all’assenza). Concludendo, ciò che rischia di farci difetto al tempo della comunicazione digitale, non è dunque la facoltà di “pensare per immagini”. Verrebbe da dire esattamente l’opposto: che oggi si pensa quasi esclusivamente per immagini: sintetiche, puntiformi, infinitamente riproducibili. Come Calvino stesso temeva, la quantità di immagini che ci circondano è divenuta incalcolabile. Ad essere andato perso, però, è tutt’altro: è la capacità di conferire un significato alle immagini disponibili.

Scriveva Barthes che l’immagine fotografica raggiunge la sua completezza solo quando si esprime nel punctum. “Il punctum interrompe il continuum di informazioni. Si manifesta come una crepa, come una rottura. È un luogo di altissima intensità e condensazione abitato da qualcosa di indefinibile. Gli manca ogni trasparenza, ogni evidenza”[17].

Parimenti, la malattia del presente non affligge la nostra capacità di vedere, ma semmai quella di collocarci in una trama di significazione oltre il continuum: vediamo tutto, ma ci sfugge il senso delle (troppe) immagini che abbiamo davanti. Pensiamo per immagini (esattamente come Calvino voleva che facessimo) e non per differenze, assenze e relazioni.

Effetti simili si misurano soprattutto sulla parola poetica, che è significatrice e simbolica per eccellenza, come ci fa notare un recente saggio di Guido Cavalli contenuto nella monografia Contro la poesia:

“La poesia (anche la poesia) si allontana dal luogo della differenza tra parola e linguaggio per abitare sempre più inconsapevolmente solo l’immagine della parola [.,] l’interiorizzazione della parola nella tecnica”[18]. “Il senso della parola, la direzione di provenienza della parola si è invertita, non più dalla voce verso il segno, ma dalla totalità al codice”[19]. “La totalità inscrive tutto in sé e cancella ogni riferimento al fuori di sé”[20]. “È [invece] l’opacità della pagina che mi permette di immaginare, di pensare, e permette alle parole di radunare il mondo qui, presso di me, ed essere presente nello spazio invisibile del linguaggio”[21].

Se esaminiamo sotto questa luce la conclusione del celebrato paragrafo sul “pericolo che stiamo correndo”, notiamo una cosa interessante, e cioè che secondo Calvino il rimedio al deterioramento della nostra capacità immaginativa consisterebbe in “una pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore (.) permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, ‘icastica’”[22].

Soffermiamoci sulla terna di aggettivi che Calvino mette in fila. ‘Memorabile’ è un termine lessicalmente abbastanza opaco, dal quale non è facile ricavare informazioni precise. ‘Icastico’ è un aggettivo che Calvino usa almeno in un altro passaggio delle Lezioni, fornendoci in quel caso una definizione d’uso: icastica è per lui un’immagine visuale “nitida”, “incisiva” e (di nuovo) “memorabile”[23]. Possiamo dunque affermare in buona approssimazione che la parola ‘icastico’ viene impiegata con un significato non troppo diverso da ‘efficace’.

L’unico aggettivo che non richieda congetture interpretative è invece ‘autosufficiente’. Qui c’è davvero poco da arrovellarsi: la scelta di questo vocabolo sta a significare che l’immagine perfetta, secondo Calvino, non rinvia ad altro da sé.

Ancora una volta, appare chiaro come la contemporaneità abbia spinto alle estreme conseguenze il suo auspicio: cosa sono le immagini da cui siamo continuamente aggrediti, se non segni nitidi e autosufficienti?

Come dicevamo, “far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri neri su una pagina bianca” non è facoltà che attenga al vedere (e nemmeno al far vedere), quanto piuttosto al significare: un’attività che richiede tra le altre cose il mantenimento di un distacco, l’accettazione del differimento e dell’assenza, e persino l’inevitabile opacità che deriva dal nascondimento. Nel suo argomentare di visibilità, Calvino sembra essere prigioniero di una persistente fallacia: concepire la creazione letteraria come produzione di immagini anziché come produzione di senso. Di nuovo: è una posizione molto in linea col sentire contemporaneo, ma di certo non rappresenta una buona critica del sentire contemporaneo.

Cosa ha aggiunto, la nostra esperienza di uomini del ventunesimo secolo, in termini di saggezza sull’utilità e il danno della piena visione? Byung-Chul Han è tra i filosofi contemporanei che hanno dedicato maggiore attenzione al punto. In La società della trasparenza [24], spiega che “il sistema sociale espone oggi tutti i suoi processi ad un obbligo di trasparenza, al fine di standardizzarli e accelerarli” (ancora un rimando alla rapidità)[25]. Citando Baudrillard, scrive: “Le cose visibili non trovano fine nell’oscurità e nel silenzio — svaniscono nel più visibile del visibile: l’oscenità”[26]. L’invisibile è bandito: “Tutto deve diventare visibile. L’imperativo della trasparenza sospetta di tutto ciò che non si sottomette alla visibilità. In ciò consiste la sua violenza”[27]. Ma “trasparenza e verità non sono identiche”: alla prima infatti manca “la direzione, vale a dire il senso”[28].

La conclusione è amara, e avrebbe forse colto Calvino di sorpresa: “L’iper-nitidezza (...) e l’iper-chiarezza delle immagini mediali paralizzano e soffocano la fantasia”. La quale non soccombe per un difetto, ma anzi per un eccesso di visibilità. La visibilità in quanto tale ha creato in noi l’illusione dell’oggettività, e l’oggettività ci conduce all’autoreferenzialità, cioè alla distruzione della trama di senso che lega le cose al loro sfondo non-visibile.

C’è addirittura un approdo estremo cui perviene il pensiero contemporaneo in netta opposizione alla poetica (o all’ontologia) della chiarezza. Mi riferisco all’ambito di studi e teorizzazioni che, sulla spinta di un superamento dell’umanesimo implicito al tutta la modernità, considera quella che viviamo come un’epoca caratterizzata piuttosto dalla centralità di ciò che è oscuro. Anzi, occulto.

Scrive ad esempio Eugene Thacker in Tra le ceneri di questo pianeta: “All’opposto del mondo-per-noi, un mondo umanocentrico fatto a nostra immagine, vi è la nozione di un mondo occulto non in senso relativo, ma assoluto”[29]. “[I]l mondo nascosto è semplicemente il mondo che rifiuta di piegarsi alla nostra volontà o ai nostri desideri”[30]. “[C]iò che è rivelato è il nascondimento del mondo in se stesso”[31].

Senza volerci spingere sino a questo punto, è evidente che ad onta delle presunte intuizioni di Calvino, la tarda modernità ha posto radicalmente in discussione la visione di cose e segni nella piena luce, per orientarsi in tutt’altra prospettiva: quella dello sfuocamento crepuscolare, del rimando ad altro che si nasconde, del differimento ad un senso non immediatamente dato. Tale orientamento, sebbene non sia del tutto estraneo ad alcuni passaggi della lezione sulla visibilità, non viene mai chiaramente affermato da Calvino, che anzi preferisce restare nell’ambiguità terminologica e concettuale di cui si è detto, e tessere generiche lodi della visione alternate ad altrettanto generiche professioni di inquietudine per l’inaridirsi delle facoltà immaginative del linguaggio. Senza mai accorgersi dello stretto nesso causale che intercorre tra i due processi.


Conclusione

A trentacinque anni dalla loro uscita, le Lezioni americane sono un testo dal fascino intatto, di cui è prova la loro fortuna nel tempo. Alcuni fattori all’origine del loro successo sono come si è detto extra-testuali, e riguardano ad esempio il prestigio che circondava Calvino al momento della morte, oppure la sua collocazione allo snodo tra modernità e postmodernità, che ha dato al suo testamento un doppio status di classico del XX Secolo, e di precursore degli ipertesti della postmodernità infinitamente frazionabili, adattabili e re-interpretabili nei differenti contesti d’uso. A livello prettamente testuale, concordiamo con Claudio Giunta nell’affermare che il loro rigore critico e filologico è stato largamente sopravvalutato, mentre sul piano dell’argomentazione esse mostrano lacune e vuoti. Cosa le rende ancora oggi un libro di valore, che merita di essere letto e ricordato? Non spetta a noi dare una risposta, ma se dovessimo esprimere un parere diremmo che le Lezioni americane costituiscono un ottimo e per certi versi insuperato esempio di affabulazione letteraria. Un racconto sul racconto, una scrittura di scritture con mille pieghe e risvolti, tra i quali il lettore viene guidato (e qualche volta lasciato smarrire) con un’eleganza e una proprietà fuori del comune. Questo era principalmente il Calvino commentatore di testi letterari: un raffinato e intelligente affabulatore, e forse (chissà) di questo meritato riconoscimento egli si sarebbe accontentato. Il suo prestigio di autore, unito alla consacrazione della morte (e al fascino letterario dell’opera incompiuta) ha però spinto le Lezioni fuori dal loro alveo e dalla loro nicchia testuale, decontestualizzandole. Il resto è accaduto di conseguenza, e Calvino non ne ha certo la colpa.

(5- Fine)

Note

[1] Nel parlare comune, ad esempio, un luogo è caratterizzato da buona o da cattiva visibilità se è oggettivamente privo di ostacoli o altri elementi che costituiscano disturbo alla visione. Non diremo mai che in un certo luogo c’è ‘poca visibilità’, o che un certo oggetto risulta ‘poco visibile’, qualora il problema riguardi la mia personale (o l’altrui) capacità di vedere.
[2] Ho discusso gli aspetti linguistici delle tesi di Calvino (unitamente a quelli semiotici e ad altri di psicologia del linguaggio) con Fabio Montermini, che desidero ringraziare. Preciso che il testo del mio articolo non ha subito revisioni da parte di terzi, e che eventuali errori o imprecisioni vanno pertanto considerati una mia esclusiva responsabilità.
[3] LA, pp. 81-82.
[4] LA, p. 83.
[5] È una cosa che ammetterà poco oltre anche Calvino, parlando di Jung (LA, p. 88), ma che non sembra interessarlo a questo punto del ragionamento.
[6] Ad esempio, la linguistica del XX Secolo ha proposto varie ipotesi in merito alla questione del rapporto tra pensiero e linguaggio, generando teorie talvolta in antagonismo tra loro. Una parte rilevante dei linguisti, in accordo con le tesi formulate da Noam Chomsky, considera il pensiero (inteso come l’insieme delle attività cognitive) un livello a sé stante, distinto da quello linguistico. L’interazione tra i due livelli non sarebbe del tipo causale-lineare immaginato da Calvino, ma dipenderebbe da specifiche proprietà del cervello umano, che opera con modalità di interfaccia, e dalla sua predisposizione a stabilire interfacce tra di essi. Com’è evidente, tali proprietà prescindono dagli effetti concreti esercitati dalle immagini sulle parole, e viceversa.
[7] LA, p. 86.
[8] LA, p. 86.
[9] LA, p. 90.
[10] LA, pp. 88-89. Corsivi miei.
[11] LA, p.89. Corsivo mio.
[12] Ibidem.
[13] LA, p.92. Corsivo dell’autore.
[14] LA, p.91.
[15] Si veda il nostro Le montagne proibite. Appunti sull’arte e la produzione di senso nella società antisimbolica, Kasparhauser, 20 febbraio 2019.
[16] Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, anche in ambito strettamente linguistico la questione dell’assenza è un tema che si pone con forza sin dagli inizi della sua elaborazione come scienza. Possiamo considerare che tutta la linguistica moderna si basi sull’idea dell’articolazione tra relazioni in presenza e relazioni in assenza. È una distinzione che risale a Saussure, che distingue tra “rapporti sintagmatici” e “rapporti associativi”: “Il rapporto sintagmatico è in praesentia; esso si basa su due o più termini egualmente presenti in una serie effettiva. Al contrario il rapporto associativo unisce dei termini in absentia in una serie mnemonica virtuale.” (Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza (Bari) 1994, p. 150).
[17] Citato in B.-C. Han, La società della trasparenza, Nottetempo (Milano) 2014, p. 47. Corsivi dell’autore.
[18] G. Cavalli, La parola digitale e la poesia, prime questioni, in Contro la poesia (a cura di G. Cavalli), Kasparhauser Anno IX Numero 17, p. 84. Corsivo mio.
[19] Ivi, p. 86.
[20] Ivi, p. 85.
[21] Ivi, p. 89. I corsivi sono miei.
[22] G. Cavalli, La parola digitale e la poesia, prime questioni, cit., corsivo mio.
[23] Ivi, p. 57.
[24] B.-C. Han, Op. cit.
[25] Ivi, p. 10.
[26] Ivi, p.26.
[27] Ivi, p. 28.
[28] Ivi, p. 20. Corsivo dell’autore.
[29] E. Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta, Nero (Roma) 2018, p. 62.
[30] Ivi, p. 63.
[31] E. Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta, cit., p. 63.



Felice Casorati, Beethoven, 1928.

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