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Cosa siamo, cosa possiamo essere

di Marco Nicastro

16 dicembre 2019


L’uomo è fatto innanzitutto di istinti. Lo diceva Freud (e altri prima di lui), che vi aveva individuato l’essenza più profonda del nostro essere, con cui spesso, crescendo e adattandoci alla società, fatichiamo a venire a patti. Ma questo aspetto della nostra natura non ci distingue affatto dagli altri animali, da cui, per altri versi, ci separa una notevole distanza. Tutti gli animali infatti vivono guidati dall’istinto, sono programmati fin dalla nascita a fare certe cose che gli consentono di sopravvivere e riprodursi. E non si tratta solo di cose semplici: avete presente il modo meticoloso in cui molti volatili, alcuni mammiferi, alcuni gli insetti realizzano spettacolari e complesse architetture che diventeranno poi la loro casa o le loro trappole?

Se noi però siamo istinto, come gli altri animali, certamente non siamo riducibili ad esso. Il nostro cervello si è evoluto in modo tale da poter dar vita a qualcosa che non è dato ai nostri sensi. Noi siamo capaci di immaginare, di astrarre dal dato sensibile qualcosa di inesistente, di creare nella mente, a partire da un oggetto, oggetti simili o diversi ma del tutto ipotetici. Noi siamo gli unici animali capaci di astrarre e generalizzare, di ragionare per ipotesi, di immaginare, ma anche, aspetto altrettanto importante e unico, di pensare e agire intenzionalmente, di avere coscienza di noi stessi, cosa che ci permette ad esempio di pensare al nostro passato e al nostro futuro. Gli animali non soffrono di malinconia perché non rimuginano sul passato, non soffrono di ansia perché sono incapaci di perdersi con la mente nel futuro. Vivono nel presente, gioiscono e soffrono per ciò che vivono ad un dato momento, per le sensazioni del loro corpo, per le loro percezioni. Affrontano la realtà per come concretamente gli si presenta. In questa loro salvifica impossibilità sono innocenti, meravigliosi, invidiabili [1]. Grazie a questa loro condotta meramente istintiva, gli animali riescono a vivere in perfetto equilibrio col loro ambiente, cercando solo ciò che serve loro per sopravvivere e soddisfare un bisogno contingente che emerge, e nulla di più. Sono quindi in perfetto equilibrio anche interiore.

L’uomo invece è capace di andare oltre la realtà con cui si confronta attraverso i sensi. È un essere metafisico. Ad esempio elabora teorie, concetti, valori astratti che non hanno un corrispettivo diretto nella realtà che sperimenta. E lo fa intenzionalmente, ossia in modo autocosciente, riflettendo su se stesso relativamente a ciò che ha creato. È questa capacità, che ha poi un corrispettivo nel complesso linguaggio verbale che ci caratterizza, a distinguerci veramente come specie. È un aspetto molto specifico della nostra intelligenza e non l’intelligenza tout court a distinguerci dal resto dei viventi [2].

Prendiamo, a mo’ di esempio, i valori. Cosa sono? Sono delle idee relativamente a ciò che può essere positivo o negativo, buono o cattivo per un individuo o per un gruppo di individui. Sono quindi elementi cognitivi, non esistono nella realtà, non sono percepibili coi nostri sensi, non sono oggettivi, infatti non si mantengono stabili nel tempo. Ogni persona poi per certi versi ha i propri. I valori però pur non essendo oggettivi sono utili, perché permettono all’individuo di avere una guida per il suo comportamento, ma anche di sentirsi appartenente all’ambiente sociale in cui vive, di rendere il proprio comportamento prevedibile e dotato di senso per gli altri, di essere riconosciuto dagli altri membri del proprio ambiente. In generale però, nonostante la loro diversificazione, possiamo dire che i valori si sono orientati nel corso dei secoli a garantire una certa giustizia ed equità sociale, alla protezione dei più deboli e a limitare il prevalere del più forte sul più debole: in sostanza all’aiuto del prossimo, alla solidarietà sociale. Solo così la società umana ha potuto più facilmente e con meno difficoltà continuare ad esistere, evitando quella che Hobbes definiva «la guerra di tutti contro tutti» [3]. Grazie alla sua intelligenza l’uomo è riuscito a inventare qualcosa di astratto che travalica i dati sensibili e che ha facilitato la sua sopravvivenza e la sua prosperità su questa terra, elevandolo al di sopra degli istinti (e dell’istinto a cercare unicamente la propria sopravvivenza) e rendendolo un essere solidale. Ha inventato in fondo qualcosa che non esiste, ci ha creduto consapevolmente e ha avuto un grande successo adattivo. La stessa idea di Dio rientra in questa categoria. Dio non è un dato empirico, è un’idea astratta, un’idea che ha in sé i caratteri della perfezione e dell’infinito come tutte le idee astratte e in cui l’uomo ha riversato ciò che di meglio (e a volte di peggio) aveva in sé [4]. Lo sviluppo cognitivo dell’uomo, la sua specifica qualità dell’intelligenza, gli ha consentito di creare un Dio al di fuori di lui, un’entità invisibile totalmente altra rispetto alla realtà sensibile. Cosa c’è infatti di più distante dall’istintività e l’automatismo comportamentale di un animale come l’idea di Dio? Eppure l’idea di Dio, per quanto frutto di immaginazione, è stata necessaria per l’uomo perché gli ha permesso di superare la sua angoscia più grande, ossia l’idea della morte. L’uomo, come detto, proprio per questa sua speciale intelligenza è capace di autocoscienza, di percepirsi in una continuità temporale che va da un passato a un futuro, e quindi di capire di essere destinato a perire in un momento più o meno distante dal suo presente. A causa di questa consapevolezza egli vive nell’angoscia ma se ne difende rendendo sopportabile la sua vita attraverso la cancellazione dell’idea della morte come cessazione materiale di esistenza. Da un lato l’idea della morte viene rimossa, dissociata dalla coscienza (la nostra mente complessa ha questa capacità di essere al contempo consapevole di se stessa e inconsapevole); dall’altro viene inventato un mondo altro da quello materiale e un essere perfetto capace di salvare e di proteggere. La religione coi suoi riti diventa un modo per sentirsi più vicini a questa entità, per sentirsi protetti e immuni dal pericolo più grande.

È quindi creando determinati valori e andando oltre l’interesse personale momentaneo e il piacere corporeo-istintivo che l’essere umano trascende se stesso e il proprio egoismo e si apre all’altro, immaginando una dimensione di benessere diffuso e non solo individuale; è immaginando una dimensione altra rispetto alla realtà empirica che l’uomo può aprire alla speranza il proprio futuro, non fermandosi al dato certo della propria morte materiale. Così come, del resto, è grazie a questa stessa capacità immaginativa che un individuo può immaginare un paradiso fatto solo per chi difende la sua religione e causare la morte di decine di persone senza provare nessun senso di colpa. È grazie a questa capacità metafisica che l’uomo rompe l’equilibrio coi propri simili e con l’ambiente in cui vive tipico dell’animale.

Le cose più belle ma anche quelle più turpi dell’essere umano sono possibili proprio grazie alla sua speciale intelligenza capace di astrazione, alla sua ineliminabile inclinazione metafisica. Non potendo negarla come capacità perché è insita nella sua natura, l’uomo può salvarsi come specie solo coltivando valori solidali, solo immaginando e propendendo consapevolmente verso obiettivi positivi per tutti che vadano al di là del proprio interesse personale o di quello del proprio gruppo sociale più ristretto, così come nel corso dei millenni la natura lo ha orientato a fare per poter sopravvivere più facilmente. L’essere umano non può sottrarsi alla croce della sua capacità intellettiva e dell’autocoscienza che, permettendogli di soffermarsi sul passato e di anticipare il futuro, lo rende vulnerabile all’ansia, alla depressione e soprattutto alla paura della morte, una paura che accomuna tutti gli esseri umani e li include in un’unica tragica condizione. A questa condizione di esseri finiti si può reagire in vari modi, non ultimo quello di negarla a vari livelli aggrappandosi alla materialità della propria esistenza, all’individualismo, all’egoismo. In alternativa è possibile guardarla lucidamente, provare a convivere con l’angoscia che essa crea, alleviandola riempiendo la propria vita di significato, aprendosi alla progettualità e all’impegno in un destino comune.

Ma, credo, è solo nel valore solidale e nella rinuncia all’individualismo, e in ogni sistema economico, politico e sociale che si fondi su questi, che l’uomo può, come specie, garantirsi un futuro e riavvicinarsi, seppur in forme diverse, a quell’equilibrio con sé stesso e col mondo che la sua evoluzione cerebrale-intellettiva gli ha strutturalmente negato [5].


NOTE

[1] Come scrisse un anonimo poeta su un muro mezzo diroccato in Sicilia: «Morire con la dignità di un animale / che non fa sfoggio del dolore / ma lo racchiude invece / in un prezioso dettaglio».
[2] L’arte, nelle sue diverse forme, è una delle più notevoli manifestazioni di questa capacità di astrazione e simbolizzazione tipicamente umana.
[3] T. Hobbes, Leviatano, 1651.
[4] Infatti, questa specifica qualità dell’intelligenza umana consente ad ogni individuo di creare anche idee negative o pericolose per gli altri, non solo quindi valori o obiettivi utili socialmente, elevando anche in senso negativo l’uomo rispetto al mondo animale. Basti pensare alle crudeltà contro i propri simili di cui l’uomo è stato capace nel corso della storia, non di rado assolutamente gratuite, di cui non c’è traccia nel regno animale.
[5] Tematiche analoghe sono state da me affrontate in altri due saggi: «Il destino dell’uomo tra evoluzione e illusione» e «Individuo, società, violenza. Ipotesi per una continuità nel cambiamento», inclusi in: M. Nicastro, La resistenza della scrittura. Letteratura, psicoanalisi, società, Ladolfi Editore, Borgomanero 2019.



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