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Geofilosofia e Indigenismo
di Paulo Fernando Lévano


«La vita consiste solo nell’occupare il proprio posto,
tutti i propri posti, nel corteo di un “Si muore”...
Si tratta di concepire la morte, e sono pochi gli uomini che
come Foucault sono morti nel modo in cui la concepivano».
(Deleuze 1987, p. 97)


Il testo La vita degli uomini infami del 1977 (Foucault 1997a) offre l’occasione ideale per riflettere sulla convivenza di M. Foucault e G. Deleuze nel panorama filosofico contemporaneo: affrontare la collocazione deleuziana di questo breve scritto all’interno di una più larga considerazione sulla totalità del corpus foucaultiano è un compito che ammette due possibili punti di partenza, i quali comunque portano ad un medesimo traguardo, ovvero la valutazione complessiva del pensiero di Foucault da parte di Deleuze. Entrambi i modi di avvicinamento saranno presi in esame in questo scritto: l’uno parte da un campione di considerazioni deleuziane in merito allo specifico testo foucaultiano; l’altro parte invece dalla valutazione di alcuni concetti deleuziani — alla luce di questo avvicinamento al pensiero di Foucault — messi all’opera nell’analisi di un problema non strettamente filosofico: la letteratura post-coloniale, nella fattispecie dell’indigenismo latinoamericano.
«L’indigenismo moderno [è] il fattore connotativo delle società latinoamericane etnicamente caratterizzate dalla presenza di insediamenti complementari rispetto a quelli metropolitani... La connessione del mercato interno con il mercato internazionale non può prescindere dell’apporto delle comunità indigeniste, che sono in grado di affrontare le sfide della modernità». (Campa 2014, p. 479)
Un primo modo di avvicinarsi alla questione è quello di localizzare i rimandi specifici di Deleuze agli Uomini infami. Questa via presenta i maggiori vantaggi dal punto di vista del rigore filologico poiché, oltre a contribuire ad un’elaborazione dell’occasione filosofica di cui si parlava all’inizio, porta a vedere con chiarezza il significato della persistenza di tutti e due gli autori nel pensiero contemporaneo, al di fuori di una banale problematizzazione storico-filosofica che li accomuna facilmente in base alle semplici effemeridi del post-strutturalismo. Infatti, adottando questa prospettiva sulla questione, il fulcro delle considerazioni svolte in questo articolo consiste nel postulare quanto segue: Deleuze e Foucault possono venire chiamati “post-strutturalisti” non perché siano stati “strutturalisti più giovani” ma perché entrambi hanno pensato a ciò che in maniera radicale giace “dopo la struttura”, laddove “dopo” non è da interpretarsi in senso temporale [1] ma in senso spaziale, o meglio, geografico. Ciò che è “dopo”, in questo senso, è laterale e dunque è più ampio, poiché supera la semplice esteriorità dei concetti (sempre relativa ad un’interiorità degli stessi) e si costituisce come oggetto di un “pensiero del fuori” e dell’incontro; infatti, dell’affinità della filosofia deleuziana con il pensiero di Foucault in questo specifico aspetto dice abbastanza una dichiarazione ricavata da un’intervista dello stesso anno 1977, in cui proprio l’incontro viene definito come occasione filosofica per eccellenza.
«Non intendo i colloqui o i dibattiti, ma il fatto che chi lavora in un campo si incontra con chi lavora in un campo completamente diverso, come se la soluzione venisse sempre da fuori. Non si tratta di comparazioni o di analogie intellettuali, ma di intersezioni effettive, di incroci di linee... Ciò non vale soltanto per gli incroci tra campi diversi: ogni campo, ogni sua parte, per quanto piccola sia, è già di per sé fatta di tali incroci. I filosofi devono scaturire dappertutto: non perché la filosofia dipenda da una saggezza popolare diffusa, ma nel senso che si produce in ogni incontro, nel momento stesso in cui essa definisce un nuovo uso, una nuova posizione di concatenamenti». (Deleuze 2010, p. 112)
Ne segue che un’altra via esista, per concettualizzare l’incontro e la sua intensità come oggetto di riflessione condiviso da entrambi i filosofi francesi. Per capire se è possibile raffinare i criteri di applicazione dei concetti di Deleuze implementando gli aspetti più importanti emersi dalla sua ricezione degli Uomini infami, si propone di esaminare criticamente l’interessante tentativo di avvicinamento fra geofilosofia deleuzoguattariana e il panorama extra-filosofico degli studi post-coloniali in contesto latinoamericano, recentemente delineato da V. Montenegro Bralic (Montenegro Bralic 2016) attraverso l’origine del marxismo latinoamericano. Si cerca così un vantaggio analogo a quello filologico del primo modo, ma questa volta dal punto di vista antropologico.
«L’antropologia si converte in un movimento di liberazione da parte delle minoranze, costrette dalle condizioni oggettive a svolgere ruoli precari e secondari nell’ambito dell’economia nazionale. [Gli indigenismi] contrastano l’inserimento pervasivo delle popolazioni minoritarie nell’ordinamento giuridico nazionale, consentendo delle facilitazioni conoscitive che l’esorcismo egalitario potrebbe vanificare». (Campa 2014, p. 500)
Saperi nuovi sono stati introdotti nelle nazioni sudamericane etnicamente complesse ed emancipatesi dal giogo coloniale. Perciò, nell’includere nella discussione su Deleuze e gli Uomini infami la figura di J. C. Mariátegui, si persegue lo scopo ultimo di proiettare le affinità fra i due filosofi francesi su spazi più larghi, che eccedono la sottile linea etnocentrica che divide il filosofico dall’extra-filosofico e si aprono verso le pluralità intersezionali del sistema-mondo (cfr. Benvenuti e Ceserani 2012, pp. 61-97) [8] post-coloniale, pluralità non-binariamente codificate in cui il pensiero occidentale incontra l’umanità extra-europea. In questo senso, il dialogo fra il pensiero del di fuori dei due filosofi francesi e l’utopia politica del peruviano verrà ricondotto, dalla problematica della soggettività rivoluzionaria (che tende a evidenziare la vena marxista di Mariátegui) alla tematica ben più post-coloniale dell’indigenismo, effettivo retroterra dell’eterodossia mariateguiana. Questa operazione sembra auspicabile a partire dallo stesso testo di Foucault: «La vita degli uomini infami potrà estendersi ad altri tempi e altri luoghi». (Foucault 1997a, p. 252)

Il lettore di questo articolo dunque potrà forse avere conferma di qualcosa che appare intuitivo anche prescindendo dalla sua lettura, ovvero, che tanto Foucault qianto Deleuze forniscono i rudimenti di una riflessione filosofica che non si cristallizza nel puro processo o nel puro reificarsi della storia, ma piuttosto dispone come oggetto di studio, con gesto letterario e radicale, la minorità de Le vite degli uomini infami.


1. Visibilità ed enunciabilità dell’infamia

Un primo possibile approccio è quello di cercare i riferimenti agli Uomini infami nella monografia che Deleuze dedica a Foucault dopo la prematura morte di quest’ultimo (Deleuze, 1987). Va da sé che questa strategia concettuale richiede il confronto di questi riferimenti con i commenti che lateralmente compaiono nelle interviste in cui il nome di Foucault (e di conseguenza il suo pensiero) è al centro della discussione. [2] A partire da un siffatto confronto è lecito delineare la valutazione finale che Deleuze fa di questo testo: gli Uomini infami sono un punto di arrivo, uno sviluppo finale del lavoro ventennale di Foucault, «because although it's one of Foucault's minor pieces, it's inexhaustible, potent, and really works, giving you a feel for the way his [Foucault’s] thought works on you» (Deleuze 1995, p. 90). Per Deleuze il progetto de La vita degli uomini infami è da interpretarsi come un tentativo di restituire alla concretezza del linguaggio la configurazione astratta dei rapporti di forza che risultava dalla sua “ontologia dell’attualità”, con la finalità di segnalare esistenze alternative, al di fuori rispetto al potere.
«Se lo si considera astrattamente, il potere certamente non vede e non parla. È una talpa che si riconosce solo attraverso la sua rete di gallerie, le sue molteplici tane: esso si “esercita a partire da innumerevoli punti”, “viene dal basso”. Ma proprio in quanto il potere stesso non parla e non vede, fa vedere e parlare. Come si presenta il progetto sulla “vita degli uomini infami”? Non si tratta di uomini che disponevano già della parola e della luce e che poi si sono resi famosi nel male. Si tratta di esistenze criminali, oscure e mute che per un istante, grazie al loro incontro, al loro scontro con il potere, vengono portate alla luce e fatte parlare». (Deleuze 1987: 85-86)
Che gli Uomini infami rappresentino per Deleuze una fase innovativa della riflessione foucaultiana sul potere è facile da vedersi anche nelle interviste dello stesso periodo. [3] Per mezzo di queste, è possibile riscontrare lo stesso interesse per la suddetta proprietà del potere, ovvero, la capacità di far vedere e far parlare; infatti, la considerazione astratta del potere rimanda comunque a una rete di puntuali e concrete applicazioni del potere stesso, in cui alle Vite viene concessa la possibilità di venire alla luce e di comparire nel linguaggio per via di pieghe inavvertite nel potere. Questa rete comunica (e perciò significa) un regime di senso che a grandi linee viene chiamato “immagine” della conoscenza: tutto ciò che si può dire e mostrare è costitutivamente conoscenza ma prima ancora di venire detta o mostrata, la conoscenza deve potere dirsi o mostrarsi; così, mentre tutto ciò che si dice o si mostra è riconducibile a uno schematismo (quello che per Foucault è l’archivio), tutto ciò che in generale si può dire o mostrare è riconducibile a un diagramma: il potere interpella la vita nelle sue aree d’ombra, prima che essa possa venire alla luce o pronunciare parola (ma “prima” e “dopo”, come è già stato detto, sono da intendersi in senso spaziale). [4] Queste aree d’ombra costituiscono «l’impasse in cui ci pone il potere stesso, nella nostra vita così come nel nostro pensiero, proprio noi che ci scontriamo con il potere nelle nostre più piccole verità. Ci potrebbe essere via d’uscita solo se il fuori fosse preso in un movimento che lo staccasse dal vuoto, se fosse il luogo di un movimento che lo sviasse dalla morte». (Deleuze 1987: 98). Per Deleuze, Foucault ha il merito di concepire un pensiero del fuori in termini di trasformazioni spaziali, ovvero, in termini di topologia.

La vita degli uomini infami si pone appunto come un’alternativa a questa stasi in cui un a priori storico sovrasensibile si manifesta per via di eventi e determina la totalità del singolo episodio: «ogni formazione storica stratificata rinvia infatti a un diagramma di forze come al suo fuori» (ivi: 87). Inoltre, che ci sia un fuori non pensato rispetto a ogni strato è ciò che dà senso all’intero progetto dell’antologia. Mediante gli Uomini infami, è possibile trovare pieghe nel diagramma, vite costituite da operazioni che non rientrano nell’archivio ma entrano in rotta di collisione con il potere e nello scontro generano intensità estranee al regime di senso, vite che anche ridotte a brevi e lampanti descrizioni riescono a esondare da ciò che è comunemente ritenuto visibile ed enunciabile.
«Power delineates a second dimension that's irreducible to the dimension of Knowledge, even though they together produce concretely indivisible composites; but knowledge relates to forms, the Visible, the Utterable, in short to the archive, while power relates to forces, the play of forces, diagrams. You can say why [Foucault] passes from knowledge to power, as long as you see that he's not passing from one to the other as from some overall theme to some other theme, but moving from his novel conception of knowledge to an equally inventive new conception of power. This applies still more to the subject […]. If Foucault needs a third dimension, it's because he feels he's getting locked into the play of forces, that he's reached the end of the line or can't manage to "cross" it, there's no line of flight open to him». (Deleuze 1995: 92)
Questa terza dimensione è la dimora delle motivazioni che spingono Foucault a progettare un’antologia di esistenze alternative. Per Deleuze, la valutazione degli Uomini infami è dunque funzionale alla valutazione del rapporto tra sapere e potere nella modernità, nei termini in cui Foucault pone la questione: l’interesse per gli Uomini infami rappresenterebbe un terzo asso, diverso da quelli rappresentati dal sapere e dal potere. L’interesse che gli fu più canonicamente proprio, quello suscitato da sapere e potere, diventa significativo soltanto alla luce delle intersezioni dei rapporti di forza con le relazioni del sapere: ne esce invalidata (o quantomeno superflua) qualsiasi assolutizzazione esplicativa di uno dei due termini di questo dualismo: le vite degli uomini infami inducono a complicare la dicotomia potere/sapere, trasformandola nello schema dipolare enunciabile/visibile.

Questa trasformazione pone il diagramma, il potere, al di fuori dello schema. Deleuze interpreta questa nuova direzione intrapresa da Foucault come una linea di fuga che gli avrebbe permesso di smarcarsi dalla riduzione di ogni cosa a rapporto di potere, direzione in cui invece puntavano le conclusioni della sua ricerca archeologica sulla sessualità, a partire della trasformazione storica dell’ars erotica in scientia sexualis (cfr. Foucault, 1994). In quest’ottica, sarebbe lecito trovare un primo aspetto interessante del confronto fra i due autori, ovvero, le affini motivazioni di entrambi per interessarsi al momento del conflitto, inteso come punto singolare di resistenza in cui i due tipi di relazione si scontrano: la scienza del sesso genera il pervertito e attraverso la codificazione della vita di quest’ultimo è possibile costruire uno spazio pubblico a partire dalla semplice esteriorità delle cose. La scienza, si direbbe, apre al potere lo spazio del privato e lo colloca a disposizione del diagramma: su questo nuovo rapporto tra relazioni di sapere e rapporti di forza si concretizzerà la trasformazione moderna e secolare del pastorato. [5] Quando si esaurisce tutto ciò che si può dire di un soggetto a partire dalle conoscenze che lo riguardano, si passa alla sua collocazione nel diagramma, ma gli Uomini infami sono soggetti che si trovano ancora più in là lungo la linea di soggettivazione:
«che cosa resta, allora, se non queste vite anonime che si manifestano solo scontrandosi con il potere, dibattendosi contro di esso, scambiando con esso parole brevi e stridenti, prima di ritornare alla notte, che Foucault chiamava “la vita degli uomini infami” e che additava al nostro rispetto in ragione della loro infelicità, della loro rabbia e della loro incerta follia»? (Deleuze 1987: 97)
Le vite degli Uomini infami sono momenti di imbarazzo per il diagramma e per l’archivio poiché in un certo senso dimostrano che si può resistere alla collocazione diagrammatica in quanto esistenza alternativa, rispetto alle relazioni schematiche della conoscenza e rispetto al diagrammatismo dei rapporti di forza: «se il gusto che ho per essi da anni non si è affievolito e vi ritorno spesso ancora oggi, è perché vi sospetto un cominciamento; in ogni caso un avvenimento importante in cui si sono incrociati dei meccanismi politici e degli effetti di discorso». (Foucault 1997a: 252)

Nell’aver confessato la sua profonda ammirazione per gli Uomini infami (cfr. Deleuze 1987: 97), Deleuze fornisce un secondo aspetto rilevante della sua ricezione dell’opera di Foucault. Entrambi gli autori associano queste nuove intensità alla messa in opera di una maniera nuova della filosofia che si prefiggerebbe di non considerare più in maniera astratta i saperi e i poteri da una parte e la nuda vita (ciò su cui rapporti di forza e relazioni di sapere si applicano) da un’altra: «il potere non assume ad oggetto la vita senza rivelare, generare una vita che resiste al potere» (ivi: 96). Questa nuova maniera del pensiero si presenta come piega del diagramma, ovvero, come operazione topologica nello spazio del mondo: «il mondo è fatto di superfici sovrapposte, archivi o strati» (ivi: 121) e pensare al mondo significa pensare alla sovrapposizione, cioè si pensa al mondo quando si cattura un duplice movimento, un pensiero all’interno dello strato che allo stesso tempo si affaccia verso l’esterno dello strato. L’interno dello strato si presenta già sedimentato ma allo stesso tempo rimanda al sedimentarsi di qualcosa che in precedenza viveva, così come ora c’è vita al di sopra degli strati.

La vita degli uomini infami presenta una raccolta di interiorità soggettive colte nel momento del conflitto, e cioè definiti nei soli termini del loro essere esteriori. Il passaggio dovrebbe essere evidente se l’intero corpus foucaultiano viene interpretato sulla falsariga del suggerimento deleuziano: se l’archeologia foucaultiana ha messo in evidenza gli strati in cui si sono sedimentate le attuali politiche della verità (cfr. Foucault 1994: 112), progetti letterari come quello degli Uomini infami inaugurano una nuova direzione del suo interesse verso la creazione concettuale di una politica di noi stessi (cfr. Foucault, 2012) in cui la soggettività non verrà più irrigidita in tratti essenziali ma si penserà come risultato limitativo: non più sarà l’“io sono” del soggetto ma il “tutti possiamo” della soggettivazione: «this idea of subjectification in Foucault is no less original than those of power and knowledge: the three together constitute a way of living, a strange three-dimensional figure, as well as the greatest of modern philosophies». (Deleuze, 1995: 93)

Un estratto dall’ultimo intervento pubblico di Deleuze, del 1988, in occasione di un convegno a Parigi su Foucault, porta di nuovo l’attenzione su La vita degli uomini infami e l’importanza di questo progetto letterario all’interno del pensiero foucaultiano. Ancora una volta, Deleuze segnala l’archivio come disposizione di visibilità ed enunciabilità ad opera del diagramma, ma segnala anche la scoperta delle linee di soggettivazione come terza dimensione della disposizione, orientata verso l’intensità del conflitto e la piega del diagramma.
«Questa dimensione del Sé non è affatto una determinazione preesistente che si troverebbe bell’e fatta. Anche qui una linea di soggettivazione è un processo, una produzione di soggettività dentro un dispositivo: essa deve prodursi, nella misura in cui il dispositivo lo permetta o lo renda possibile. È una linea di fuga. Sfugge alle linee precedenti, se ne fugge. Il Sé non è né un sapere né un potere». (Deleuze 2010: 281)
L’esistenza di alcuni Sé può sfuggire ai rapporti di forza e alle relazioni di sapere, perciò l’«antologia di esistenze» che Foucault intendeva presentare con questo testo scardina lo schema secondo cui qualcosa è vero in virtù del «risplendere delle parole» oppure in virtù della «violenza dei fatti». La stessa selezione di testi — «vite di qualche riga o di qualche pagina, di innumerevoli avventure e sventure, riunite in un pugno di parole» (Foucault, 1997a: 245) — implicava una valutazione dei brevi scritti alla luce dei soli criteri di rapidità e realtà, fra luce del visibile e linguaggio dell’enunciabile: esporre il lettore allo shock dell’effettiva esistenza degli Uomini infami avrebbe avuto come scopo la condivisione di questa linea di fuga, la possibilità di pensare il fuori del diagramma, la restituzione dei nostri modi di problematizzazione (Foucault, 1997b: 318) a quei momenti di maggiore intensità vitale in cui il diagramma non va avanti ma si piega: il potere va contro se stesso e la parola letteraria che parla di questa istanza inaudita diventa esperienza del fuori, «né la verità né il tempo, né l’eternità né l’uomo, ma la forma disfatta del fuori» (Foucault, 1998: 59). L’entusiasmo di entrambi gli autori è motivato dall’opportunità di poter pensare ad una discorsività che eccede la visibilità e l’enunciabilità di uno strato, alla parola letteraria di un linguaggio nuovo.
«Come parola del fuori, che accoglie nelle sue parole il fuori a cui si rivolge, questo discorso avrà l’esordio d’un commento: ripetizione di ciò che al di fuori non cessa di mormorare. Ma come parola che dimora sempre al di fuori di ciò che essa dice, questo discorso sarà un cammino incessante verso il luogo in cui la luce, assolutamente fine, non ha mai ricevuto linguaggio». (Ivi: 27)
Se si considera l’analisi foucaultiana del discorso letterario e l’impatto positivo che questo ebbe negli ultimi dieci anni di vita di Deleuze, allora è pertinente seguire lo sviluppo del suo pensiero sulla falsariga di questa creativa linea di fuga, affinché si possa tracciare una linea di continuità fra le potenzialità del progetto letterario degli Uomini infami — quello di destabilizzare il repertorio occidentale di tecniche del Sé — e il progetto delineato invece nell’ultima collaborazione di Deleuze con F. Guattari, ovvero, l’avvento di una maniera geofilosofica del pensiero, su cui ora verrà dedicata attenzione attraverso una sua recente applicazione.


2. Riterritorializzazione impossibile

Nel suo articolo dedicato a Mariátegui et la géophilosophie (2017), V. Montenegro Bralic indica, attraverso la figura del c.d. “padre del marxismo latinoamericano”, «en quel sense la géophilosophie peut se révéler être une perspective pour comprendre le processus de réception, traduction et création de la pensée philosophique en Amérique latine, dans la mesure où elle offre une manière radicalment différente de penser l’autochtonie». (Montenegro Bralic, 2016: 48) In questo stesso senso, adottando la prospettiva post-coloniale, la geofilosofia è da considerarsi come riflessione filosofica sull’immanenza, qualora questa immanenza sia da interpretarsi come fedeltà alla terra, ovvero, come rifiuto di qualsiasi configurazione idealistica dell’oggetto su cui si riflette (cfr. la “filosofia della natura”, Ronchi, 2017). La posta in gioco dunque è quella di vedere in quale misura immanenza deleuzoguattariana e autoctonia mariateguiana corrispondono.

Aderire alla visione profetica di una geofilosofia significa dunque rivolgere tutta l’attenzione a «la liaison profonde de la pensée a la Terre» e ha come finalità «situer la dimension spatiale ou géographique au-dessous de la dimension temporelle ou historique qui a prévalu dans la philosophie» (Montenegro Bralic, 2016: 49). Montenegro Bralic accuratamente segnala che queste due caratteristiche della geofilosofia potrebbero condensarsi in un solo tratto distintivo, ovvero, che la geofilosofia abbia come oggetto della propria riflessione l’orizzonte degli eventi (per essere più esatti, il piano di immanenza): la geofilosofia è un’operazione topologica, delle pieghe e trasformazioni dell’esistenza quando si percorre questo orizzonte fino ai limiti. È possibile allora tracciare un’analogia fra il programma geofilosofico e la linea di fuga dall’assolutizzazione dei rapporti di forza che gli Uomini infami offrono a Foucault, in direzione di una concretizzazione di esistenze alternative fuori dal diagramma.

Pensare al mondo, si diceva nella prima parte di questo articolo, significa catturare un duplice movimento, il quale Montenegro Bralic suggerisce di proiettare sulla forma dinamica della (de)/(ri)territorializzazione, leitmotif della produzione deleuzoguattariana: «la déterritorialisation et la reterritorialisation se trouvent liées à ce que serait le travail caractéristique de la philosophie, qui consiste dans la création des concepts» (ivi: 51). Infine, la creazione di concetti non trascendenti e rivolti al piano di immanenza è la chiave di lettura offerta per rintracciare il collegamento fra la geofilosofia e l’opera intellettuale di Mariátegui. Prima di confrontarci con il peruviano però, bisogna esemplificare l’importanza degli Uomini infami dell’ultima collaborazione con Guattari, sospendendo a questo scopo la rilevanza di Nietzsche (che invece costituisce il fulcro delle argomentazioni di Montenegro Bralic). [6] È necessario dunque riportare i concetti nuovi della geofilosofia nel mezzo dello scontro fra rapporti di forza e relazioni di sapere per trovare le pieghe, ovvero, gli a priori storici del discorso di Mariátegui.
«Il diagramma sovrasensibile non si confonde con lo schema audio-visivo: esso è come l’a priori che la formazione storica presuppone. Tuttavia, al di sotto degli strati non c’è nulla, e nemmeno al di sopra o al di fuori di essi. I rapporti di forze, mobili, evanescenti, diffusi, non sono al di fuori, ne sono invece il fuori. Di conseguenza gli a priori della storia sono a loro volta storici». (Deleuze 1987: 87)
Il fuori topologico (da opporsi alla semplice esteriorità) dello strato è comunque dentro lo strato e la continua esposizione delle soggettività che questo “fuori” garantisce, risparmia invece agli Uomini infami il diritto alla luce e al discorso: campionare le loro vite allora, i racconti delle loro esistenze reali, storiche, sfortunate, emotive, significa continuare ad aprire il barlume che le ha rese visibili e leggibili (dunque, anche se in modo breve, enunciabili). Un simile progetto letterario potrebbe però collocarsi soltanto sulla scia di un pensiero del fuori che spiega lo statuto ontologico di questi «brevi effetti, la cui forza si spegne quasi subito». Di questo accorgimento parla Foucault quando scrive:
«Il sogno sarebbe stato di restituire la loro intensità attraverso una analisi. In mancanza del necessario talento, ho a lungo rimuginato sull’unica analisi possibile: presi i testi nella loro secchezza; ricercata la loro ragion d’essere (a quali istituzioni o pratiche politiche si riferissero); cercato di comprendere perché fosse stato così importante in una società come la nostra che fossero soffocati (come si soffoca un grido)... Ma le emozioni di quei primi momenti, che mi avevano motivato, rimanevano al di fuori. E dato che c’era il pericolo che non riuscissero a passare nell’ordine della ragione, dato che il mio discorso era incapace di restituirle come sarebbe stato necessario, non era forse meglio lasciare i testi nella stessa forma che me le aveva suscitate?» (Foucault 1997a: 246-247)
Non è affatto una coincidenza che Foucault confronti il proprio progetto con un termine di paragone che è letterario, ovvero, la novella, genere letterario in cui avviene l’incontro fra rapidità e splendore della parola da una parte e realtà e violenza dei fatti dall’altra. Gli Uomini infami e la loro vita, che in ogni caso è stata importante soltanto quando si è scontrata con il potere, riportano al lettore di oggi quei momenti anonimi in cui ciò che è immanente allo strato, la possibilità di una vita, ha incontrato il fuori-dello-strato, i limiti a cui sottostà ogni vita. Questo conflitto però non si “combatte” contro il fuori topologico dallo strato, non si tratta dunque di un semplice scontro fra le esteriorità visibili ed enunciabili: questo scontro non è un destino, il destino semmai è l’infamia di uscirne perdente, mentre lo scontro stesso è il momento in cui più intensamente si è vivi. Ci sono appunto specifici criteri di collezione che Foucault fornisce, non per delineare ulteriormente la forma esterna delle vite degli Uomini infami, ma per protrarre la ricerca di intensità sempre nuove al di là del discorso che si ripete all’interno di uno strato, al di là della propria esperienza come lettore. È sensato perciò suggerire che gli Uomini infami costituiscono un esempio di esperienza del fuori.
«L’apertura verso un linguaggio da cui il soggetto è escluso, l’evidenziazione di un’incompatibilità forse irrimediabile tra l’apparizione del linguaggio nel suo essere e la coscienza di sé nella sua identità, è attualmente un’esperienza che si presenta in aspetti assolutamente diversi della cultura... [Questo pensiero] si tiene fuori da qualsiasi soggettività per farne sorgere come dall’esterno i limiti, per enunciarne la fine, per farne scintillare la dispersione e non raccoglierne che l’invincibile assenza, e che al tempo stesso si tiene sulla soglia di ogni positività [...] per ritrovare lo spazio in cui si manifesta, il vuoto in cui si situa, la distanza in cui si costituisce». (Foucault 1998: 17-18)
La questione sembra porsi nei seguenti termini: è Mariátegui un pensatore del fuori? La risposta a questa domanda pone d’obbligo un’ulteriore questione: può il suo concetto di autoctonia dirsi veramente creativo (nel senso di creazione di concetti)? Portocarrero ha individuato quattro matrici che hanno segnato tutta la produzione dello scrittore peruviano, dagli esordi fino alla composizione e pubblicazione dei Siete ensayos nel 1928. (Trad. it. Mariátegui 1972)
«La perspectiva desde la cual Mariátegui escribe su obra madura se funda en: 1) un sentimiento anti aristocrático que tenía una amplia vigencia en los sectores medios y populares, y hasta en la propia aristocracia; 2) una concepción del conocimiento donde la capacidad de observar y describir lo inmediato era fundamental; 3) la apuesta por el socialismo como el mito de nuestra época y, en consecuencia, del marxismo como inspiración para producir visiones totalizadoras del mundo; finalmente, 4) la incorporación del indigenismo y la revaloración de lo indígena como fundamento de un socialismo nacional, enraizado en la historia del país». (Portocarrero 2015: 258)
Una conseguenza di questa quadripartizione genealogica dell’opera mariateguiana è la ricollocazione della sua figura, da punto di partenza a punto d’arrivo: sarebbe in questo senso possibile sottrarci alla fortunata lettura di Mariátegui come «l’un des précurseurs — voire même le fondateur — du marxisme en l’Amérique latine» e invece vedere in lui una fase conclusiva, molto elaborata, del consolidamento di «una visión urbana de los Andes, paternalista, exotista y en muchos casos con una concepción homogeneizante de la construcción nacional alrededor del mestizo o del indígena» (Degregori 2012: 31). Questa delicata operazione però necessita di ulteriori precisazioni per poter illustrare i limiti di una geofilosofia mariateguiana.

Montenegro Bralic sostiene che «les voyages de Mariátegui bien pourraient parler d’un esprit nomade, mais étant donné que ces voyages n’étaient pas toujours volontaires, il serait plus correct de parler d’un esprit “banni” ou “exilé”... Mais il serait également correct de parler d’une pensée nomade» (Montenegro Bralic 2016: 53). La figura del nomade/esiliato senza nazione viene implementata dall’autore soprattutto per dare sostanza alla presenza di Nietzsche nelle fonti dello scrittore peruviano, poiché Nietzsche è un personaggio di centrale importanza nella geofilosofia deleuzoguattariana (cfr. Ivi: 47-50; 52-55). Naturalmente, questa lettura è relativa agli spostamenti che il “nomade” Mariátegui ha effettivamente fatto: in quest’ottica, l’opera di Mariátegui è un diario di bordo che pone come destinazione finale la pubblicazione dei Siete ensayos, massimo sviluppo della sua «riflessione sui problemi nazionali e in particolare sulla questione indigena». (Melis 1995: 343)

Questa riflessione è geofilosofica oppure si tratta di eterodossia marxista influenzata da un certo tipo di indigenismo? La quadruplice radice invece offerta da Portocarrero ci permette di identificare con maggiore precisione la prospettiva da cui il peruviano riflette e scrive; permette quindi di valutare oggi la sua proposta di un «marxismo indoamericano como respuesta al problema nacional peruano» (Portocarrero 2015: 252) includendo però nell’analisi gli spostamenti che il nomade Mariátegui non ha fatto: i viaggi a Montevideo e Buenos Aires, interdetti dalle sue condizioni di salute, ma soprattutto il viaggio andino alla ricerca del dato etnologico che fondasse la sua adozione teorica dell’indigenismo.

«Si on soutient que la pensée et la vie de Mariátegui peuvent être considérées comme nomades, cela ne veut dire pas que sa préoccupation pour le “national” n’ait pas eu chez lui une place centrale» (Montenegro Bralic 2016: 54), anzi, potrebbe dirsi che il «disegno complessivo dell’opera» (Melis 1995: 344) principale del peruviano consiste in un progetto di rifondazione nazionale della giovane repubblica a partire dall’integrazione del mondo andino: è necessario sostituire alla vecchia visione creole-centrica del territorio nazionale, personificata dagli esponenti dell’oligarchia peruviana, una nuova visione indio-centrica. La prima si distingueva per uno schema economico estrattivista, eredità dal colonialismo e fondato sullo sfruttamento della terra e di chi la abita; [7] la seconda si distinguerà per aver adottato l’elemento rivoluzionario intrinseco dello schema economico andino, ovvero, il collettivismo agrario delle comunità contadine. Tuttavia, sarebbe opportuno indagare sulle modalità di questa transizione: la novità dell’elemento indigeno, di questa rinnovata autoctonia, è da intendersi in senso strettamente temporale e storico, oppure si potrebbe tentare una lettura spaziale e geografica? Se fosse possibile quest’ultima operazione, si potrebbe comunque partire da Mariátegui?

Considerando il posto centrale che la questione nazionale occupa nell’opera di Mariátegui, risulterebbe sensato caratterizzare la sua sensibilità letteraria al di là di una dicotomia ortodossia/eterodossia; si tratterebbe dunque di valutare la sua filiazione indigenista nei momenti in cui emerge dalla sua produzione scritta. Non c’è mai stato un momento della sua vita in cui il peruviano non si sia fatto trovare impegnato a produrre scritti: avrebbe addirittura senso interpretare la totalità della sua opera in chiave di generi letterari, di progressivo passaggio dalla cronaca alla saggistica. Questa transizione è tardiva nello scrittore e corrisponde alla «asimilación del indigenismo» (Portocarrero 2015: 256), il cui culmine arriva con la fondazione della rivista Amauta e la pubblicazione dei Siete ensayos: lo sguardo analitico sulla realtà nazionale peruviana che appartiene a questa ultima fase si distingue dallo sguardo giornalistico con cui egli segue l’emergenza dell’indigenismo nel panorama culturale dei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento. [8]

Il modo di problematizzazione proposto da Mariátegui si articola intorno alla nazionalità dello stato peruviano e alla possibilità futura di poter caratterizzarla come “indigena”, nei termini di questo orizzonte indigenista. «Más allá de su reivindicación de justicia y de su lucha contra el gamonalismo, Mariátegui valora en este movimiento intelectual la importancia que otorga a la comunidad, o ayllu, como institución fundacional del mundo indígena» (Flores Galindo 1994: 248-254). Il c.d. “collettivismo degli inka” infatti era un tratto diffuso nella visione urbana delle Ande e Mariátegui era convinto della sua validità come tesi storica, «la véritable revendication de l’indien, de l’autochtone, est sa participation dans une œuvre politique et économique» (Montenegro Bralic 2016: 56). Perciò è possibile affermare che l’indio mariateguiano è un personaggio storico a cui spettano pieni diritti alla luce e alla parola: egli è il naturale “erede culturale” del suddito dello stato inka.
«En la descripción del Imperio de los incas, bastante idealizada, no se repara en la geografía, la disponibilidad de las tierras, la tecnología, las relaciones de producción. Lo central es la cultura y los hábitos del pueblo que permitieron a sus gobernantes encauzar toda la energía de sus súbditos hacia obras de gran provecho social». (Portocarrero 2015: 268)
Va segnalato che la tardiva adozione dell’indigenismo da parte di Mariátegui si dà in uno specifico contesto di indigenismo militante, in cui le relazioni di sapere e di potere hanno ancora la consistenza astratta di programmi politici che possono essere ortodossi oppure eterodossi rispetto alla dottrina a cui si ispirano: nel caso di Mariátegui, si tratta di opporre al gamonalismo dei latifondisti creoli e all’imperialismo degli industriali capitalisti angloamericani la nozione di collettivismo agrario indigeno. «Ese indigenismo, mayormente pero no únicamente sociopolítico, llega a ocupar un lugar importante en el debate nacional» (Degregori 2012: 32); si potrà dunque parlare di creazione di un concetto nuovo, il socialismo indigeno, nella misura in cui, sviluppandolo, questo concetto faccia vedere e faccia parlare l’indio nel suo concreto legame con la terra, denaturato e deculturato nel gamonalismo (cfr. Flores Galindo 1994: 261). Su questo nuovo concetto — l’indigeno — sarà possibile articolare autoctonia e nazionalità. Si tratta, dal punto di vista di Mariátegui, di ripristinare la soggettività dell’indio, da individuo fuori dal processo storico e nazionale peruviano a soggetto rivoluzionario di un’economia collettivista, alternativa al capitalismo imperialista statunitense ed inglese.
«L’oppressione interrompe la naturale evoluzione degli indios, che non contrastano l’avvento della tecnologia e le sue applicazioni. La conoscenza è una prerogativa della modernità, della quale gli indios, sia pure in senso compromissorio, sono parte integrante. La proletarizzazione degli indios costituisce la fase propedeutica al loro inserimento nell’economia nazionale». (Campa 2014: 492)
Il compromesso di Mariátegui è stato con la propria eterodossia, la quale si appoggiava sulla caratterizzazione inka del mondo andino, un tratto comune di tutti gli esponenti di questo indigenismo militante: «Mariátegui est clair quand il dit que l’autochtone correspond en fait à l’indigène, et plus précisément, à l’incaïque» (Montenegro Bralic 2016: 55) e il suo giudizio trova riscontro in due autori, H. Castro Pozo e in L. E. Valcárcel, che Portocarrero considera fondamentali per capire la svolta indigenista di Mariátegui. Sarebbe comunque lecito affermare che l’intera visione urbana delle Ande, emblematicamente quella dei Siete ensayos, poggia su capisaldi che si trovano condensati in opere come Nuestra comunidad indígena (1924) e Tempestad en los andes (1927), che appartengono rispettivamente ai suddetti autori.

Nuestra comunidad indígena è il primo lavoro di osservazione etnografica sul campo, anteriore persino alla professionalizzazione dell’antropologia nelle università peruviane, ed è composto dalle note di lavoro di Castro Pozo, funzionario statale incaricato di “affari indigeni” ma anche attento osservatore della vita nell’ayllu contadino (cfr. Degregori 2012: 131). Tempestad en los Andes di Valcárcel, il quale invece riuscì a ricoprire la carica di ministro de educación, include addirittura una prefazione scritta da Mariátegui stesso; vangelo dell’indigenismo, l’influenza di quest’opera sull’autore dei Siete ensayos è decisiva, soprattutto negli aspetti che riguardano un certo millenarismo andino molto presente nelle origini dell’indigenismo militante. [9] Risulta da queste opere (e non solo da quella di Mariátegui) una trasformazione della problematica legata al gamonalismo della proprietà terriera nella problematica dello statuto civile degli indios, a cui l’indigenismo militante in blocco risponde con dichiarazioni sull’inevitabilità di un ribaltamento dell’ideologia nazionale — creole e meticcia — del cittadino peruviano, e progetti politici sull’entrata degli indios nella vita della nazione, la quale dovrà munirsi di strumenti per proteggerli dal gamonalismo e infine legittimare il collettivismo agricolo che è proprio del mondo andino composto dai discendenti della cultura inka.
«El indigenismo, muy en particular en la obra de Valcárcel, representa la resistencia al nacionalismo criollo y su proyecto de una modernización que erradique lo “arcaico”, la historia. Si bien es cierto que el indigenismo no logra imaginar una nación peruana, sí, al menos, deja en claro que ella no puede concebirse prescindiendo de lo indígena. Esta resistencia, y el anuncio de la resurrección indígena, tienen en Valcárcel un carácter profético, pues no se derivan de una fundamentación empírica sino de una fe en la capacidad creativa del pueblo indígena está viva, hibernando, a punto de eclosionar». (Portocarrero 2015: 246)
Entrambi i libri, ma Tempestad en los Andes in particolare, forniscono a Mariátegui una particolare immagine della vita degli indios, che potrebbe dirsi di «falsa infamia» o di «leggenda gloriosa» (Foucault 1997a: 251), in cui il dato etnografico (la “fondamentazione empirica” nei termini del sociologo Portocarrero) viene strumentalizzato a conferma della tesi dell’indio come soggetto rivoluzionario, protagonista nel progressivo realizzarsi di un destino. Per Mariátegui la trasfomazione del problema dell’indio in quello della proprietà della terra è sostituibile all’adozione di un programma politico, ma soprattutto culturale, che abbia un’ampia portata su tutto il territorio nazionale, con finalità rivoluzionarie. Si persegue la caratterizzazione del Perù come nazione autoctona in cui l’andino — la leggenda gloriosa a cui credevano gli indigenisti di questo periodo — prende il posto del creole. Eppure, «il leggendario, quale che sia il suo nucleo di realtà, non è alla fine nient’altro se non la somma di quello che se ne dice. È indifferente all’esistenza o all’inesistenza di colui del quale trasmette la gloria». (Ivi: 250)

Questa stessa immagine di comunità è mutuata da tutti gli scrittori dell’indigenismo militante e proviene dalla ricostruzione storica del Perù precolombiano che maggiore diffusione conosceva presso gli esponenti di questo indigenismo, ovvero, la versione tramandata dalle cronache di epoca coloniale, le quali nel migliore dei casi potevano essere ricostruzioni a posteriori del mondo andino a partire da testimonianze orali — tradotte principalmente dal quechua allo spagnolo — reinventate per aggiustarsi all’interpretazione degli europei. [10] La visione dello stato inka come un esperimento di economia statale collettivista rispecchiava la speranza di questi primi indigenisti di delineare, anche solo in termini astratti, la radicale alterità del mondo andino, con la finalità di identificare in essa l’opportunità (anziché un ostacolo) per consolidare una via peruviana alla modernità, molto più ampia rispetto alla mediocrità ideologica dei proprietari terrieri, civile rispetto alla barbarie del gamonalismo e resistente alle forze dell’imperialismo capitalistico anglosassone.
«El indigenismo, si lo entendemos en un sentido muy amplio, como admiración por lo “inkásico”, es también parte de la tradición oficial criolla. En efecto, el mundo criollo hizo suya la visión del Imperio incaico propuesta por Garcilaso de la Vega: una sociedad basada en ayllus o comunidades, en agrupaciones humanas que mantenían una propiedad común de la tierra. Y aunque el gobierno del inca podía concentrar el poder, su régimen era justiciero y benevolente. Nadie pasaba hambre. Y todos trabajaban». (Portocarrero 2015: 257)
Il collettivismo inka caratterizzerebbe l’autoctonia rinnovata su cui Mariátegui fonda la propria eterodossia marxista, ma si tratta difficilmente di un progetto comprensibile al di fuori delle sue finalità statali e utopiche: inka fu e sarà lo stato nazionale peruviano, non già per una semplice speranza nella forza nascosta degli indios ma per via di ciò che il materialismo dialettico induce a considerare come inesorabile. La visione urbana delle Ande è surrogata a un progetto statale in cui l’indigenismo milita e questo militare ha come scopo tattico la cattura della vita degli indios, all’interno di una strategia più ampia ma, per forza di cose, utopica: «ce qui importe dans cette perspective, ce n’est pas autant la différence entre le socialisme utopique et le socialisme scientifique mais précisément les différentes utopies qui sont mises en jeu» (Montenegro Bralic 2016: 59). Il Perù come stato-nazione inka, fondato su un’economia agraria e collettivista, sarebbe fondamentalmente un’utopia forgiata a partire da un progetto che deterritorializza entrambi, l’indio e la terra e li riterritorializza in una nazionalità peruviana in gioco nel panorama internazionale: la centralità del “nazionale” presso Mariátegui è funzionale a un internazionalismo in cui la rilevanza storica e mondiale del collettivismo inka può mettersi in gioco in contrasto con le aspirazioni egemoniche dell’economia industriale capitalistica. In questa prospettiva, i Siete ensayos sono più sintomatici di una decadenza del creole-centrismo piuttosto che indicativi di una parola del fuori, come era necessariamente la parola dell’indio.
«De allí que la relación de Mariátegui con el socialismo estuviera marcada por una identificación con la rebeldía de su espíritu y por una lucha por legitimar la heterodoxia de sus puntos de vista. Entonces en sus escritos es visible la resistencia contra el materialismo y el intento por (re)crear un marxismo más romántico e idealista. Menos científico y más idealista. Una doctrina que permitiera captar lo peculiar de un mundo como el peruano, milenario pero no europeo». (Portocarrero 2015: 267)
Questo indio e questa terra, così deterrioralizzati, costituiscono i tratti più distintivi della visione ricevuta che Mariátegui ha del significato di aderire all’indigenismo, in questo periodo in cui si è alla ricerca di un semplice attore politico. Di conseguenza, la riterritorializzazione di questo ipotetico attore è concepibile soltanto in termini utopici: il pensiero di Mariátegui è «en grande partie la recherche de cette nouvelle terre, l’utopie (ou plutôt, le topos avenir) du socialisme, mais en pensant cette recherche précisément à partir du problème même de la terre, qui est aussi celui de l’indien» (Montenegro Bralic 2016: 58). Le nozioni di autoctonia, indio e terra presso l’autore dei Siete ensayos emergono dalla ricerca di questa utopia, ricerca interpretabile come progetto di filosofia della storia come dialettica, che distribuisce però la materialità nel verificarsi effettivo della storia e l’immaterialità nella sua narrazione: in questo senso bisogna interpretare la celebre distinzione mariateguiana fra letteratura indigena e letteratura indigenista: «fino ad oggi si è prodotta una letteratura sull’indio, mentre il futuro riserva una letteratura scritta dall’indio» (Melis 1995: 346; Montenegro Bralic 2016: 55) nella misura in cui l’indio è stato inka e inesorabilmente tornerà ad esserlo, assieme allo stato-nazione peruviano. La verità invece è che, ai tempi suoi, Mariátegui proponeva un indio forte e autosufficiente grazie alla forza del collettivismo e identitariamente consistente grazie alle ricostruzioni coloniali di utopici processi politici che permettessero di includere la storia del territorio andino nella storia dei poteri imperiali.

Sarebbe dunque lecito concludere che il tentativo di avvicinare l’autoctonia di Mariátegui alla geofilosofia di Guattari e Deleuze ha come limite questa vena utopica che separa la costituzione scritta ed enunciabile della nazionalità peruviana dalla sua costituzione storica e visibile: si deve sempre tenere presente che Mariátegui proietta nell’avvento della nazionalità peruviana autoctona l’arrivo di una letteratura dell’indio, che imparerà a mettere per iscritto la propria autoctonia anche se la scrittura è una pratica completamente sconosciuta nel mondo andino. Eppure, bisogna riconoscere che proprio sull’indigenismo, con tutte le contraddizioni che i suoi esponenti potevano incarnare, si dispiega tutto l’orizzonte in cui decenni più tardi fiorirà l’antropologia. L’utopia fornisce gli strumenti per introdurre un senso della presenza indigena nel territorio nazionale, elevando l’indio da personaggio invisibilizzato della storia peruviana a personaggio che scriverà, secondo la cosmovisione che gli è propria, una nuova tappa della storia.

Questa operazione però contempla un passaggio intermedio, l’adozione di una nozione trascendentale: «en su análisis del proceso económico priman las variables culturales, los valores y las mentalidades de incas y españoles» (Portocarrero 2015: 268). La differenza fra le “culture” nazionali peruviane ed europee (e anche fra quelle anglo-statunitensi) è completamente trascendentale presso Mariátegui, non è nella storia, nella geografia, negli spostamenti con cui l’uomo andino ha costruito il suo mondo: i peruviani saranno autoctoni come gli indios soltanto in un’utopica seconda natura (cfr. Burgio 2000: 49-55) che prenderà avvio dal ripristino della forma statale inka. Infine, il peruviano parla di queste ascendenze dal punto di vista di un creole che vuole formarsi una visione urbana delle Ande; da questa utopia però egli stesso rimarrebbe escluso: «su rechazo del mestizaje no lo lleva a una posición que ahora llamaríamos multicultural sino a la condena del criollismo» (Portocarrero 2015: 272) che tuttavia era la matrice del suo progetto di rinnovamento nazionale, interamente dedicato ad un rinnovamento della dirigenza politica peruviana. Portare a termine la riterritorializzazione dell’indio e della terra lo spinge verso la deterritorializzazione del criollo, la cui presenza nel panorama culturale peruviano della prima metà del Novecento è testimoniata da Mariátegui stesso. Il suo pensiero dell’indio attuale è motivato da una genuina preoccupazione per la disparità fra gli attori politici creoli contemporanei e la vocazione a-storica rivoluzionaria degli indios, ma questa preoccupazione lo costringe a vedere nell’uomo andino dell’ayllu contadino qualcosa che questo non è, qualcosa di contrapposto a quella che è la sua effettiva situazione: erede della cultura inka, soggetto trascendentale e rivoluzionario. In quest’ottica, la geofilosofia sceglierebbe piuttosto la via dell’inattuale: la geografia andina, la disponibilità delle terre coltivabili, le complesse relazioni di lavoro e di produzione, le tecnologie non solo agrarie ma anche quelle del Sé, tutti gli argomenti che non prende in considerazione una ricostruzione storica che poggia sulla trascendente equivalenza fra indio e inka. [11]


3. L’infamia e le menzogne imperative

Difficilmente si possono tracciare delle affinità fra l’autoctonia u-topica del peruviano e la geofilosofia dei francesi, alla luce di quanto osservato nella prima parte di questo articolo: la geofilosofia sembra più rilevante in quanto operazione topo-logica che concepisce il pensiero come trasformazione e non come proiezione. Tutto questo di conseguenza equivale a dire che Mariátegui non è un pensatore del fuori, anzi, il fuori per lui è sempre uno «stato libero» (Foucault 1997a: 249) ma anche un «vuoto terrificante» (Deleuze 1987: 97) poiché lo configura come “il” mondo dell’indio, in cui egli ha la visibilità e l’enunciabilità che necessariamente renderebbe apolidi individui come Mariátegui e gli indigenisti militanti (cfr. Portocarrero 2015: 271-272); il loro messaggio di una nazionalità autoctona non sarebbero più consistenti nel tempo in cui l’indio è in grado di produrre la propria letteratura. Invece, si sa che il contrario si è verificato giacché la letteratura indigenista ha avuto un grande impatto culturale nella storia del Perù e dell’America Latina: «la antropología peruana, surgida como disciplina universitaria en 1946, es hija del indigenismo y es necesario por tanto ubicar los inicios de nuestra disciplina sobre ese trasfondo» (Degregori 2012: 31). Le battute conclusive di questo articolo perciò indicheranno una linea di fuga dalla nozione mariateguiana di autoctonia, irrigidita nel dualismo indio/non-indio, nella direzione dello scarto temporale fra i Siete ensayos e quello che l’antropologo C. I. Degregori segnala come anno di nascita dell’antropologia peruviana.
«La letteratura indigenista, malgrado le sue convenzionali deformazioni rappresentative, costituisce un indispensabile documento dell’ostinata permanenza dell’indio come un’entità incolpevole e molesta nell’ambito di una società ideale e legalmente egalitaria. La descrizione della precarietà sensibile e intellettuale delle comunità indiane è una testimonianza etnograficamente rilevante del modo d’intendere l’esistenza di comunità inopinatamente indotte a rimembrare la loro vicenda in prossimità della sua traumatica modificazione nel costume codificato delle società economicamente egemoni». (Campa 2014: 498)
Né Mariátegui né nessun esponente dell’indigenismo militante di quegli anni era interessato a sfruttare le potenzialità del progetto etnografico, sostituendovi invece il progetto nazionale, sociopolitico ma per forza di cose utopico di rendere l’indio attuale, attante, attore. L’indio che parla attraverso il dato etnologico parla della propria infamia «secca, ridotta a quel che fu detto un giorno e che improbabili accidenti hanno conservato fino a noi» (Foucault 1997a: 249-250). Questo indio, che non può comparire negli scritti degli indigenisti militanti, e il suo rapporto con la terra, idealizzato e proiettato nel passato e nel futuro, vengono totalmente adombrati dalla leggenda dell’indio condivisa da Valcárcel e Mariátegui, in cui l’uomo andino è protagonista di tutte le visioni millenaristiche in attesa del ritorno della vocazione statale del collettivismo agrario andino: l’indigenismo militante, attento a “restituire” potere politico all’indio, è incapace di cogliere il contadino andino nella sua minorità all’interno dell’economia peruviana. Per riprendere un’espressione deleuziana, mancava a Mariátegui l’intuizione politica che rendesse la sua analisi una vera e propria reazione all’intollerabile situazione degli indios della comunità contadina (cfr. Deleuze 2010: 226-229). La disparità fra attori politici è relativa a disposizioni interne allo strato, a posizionamenti nell’archivio “voluti” dal diagramma: «se la forza è sempre in rapporto con altre forze, le forze rinviano necessariamente a un Fuori irriducibile» (ibidem: 207) alla descrizione utopica degli eredi degli inka. La vera infamia degli indios riguarda invece disparità di un altro tipo:
«Disparità tra le cose raccontate e il modo di dirle; disparità tra coloro che si lamentano e supplicano e quelli che su di loro hanno ogni potere; disparità tra l’ordine minuscolo dei problemi sollevati e l’enormità del potere; disparità tra il linguaggio della cerimonia e del potere e quello dei furori o delle impotenze». (Foucault 1997a: 258)
Questo tipo di disparità, si suggeriva prima, viene affrontata invece dal dato etnologico, che fiorì nel panorama di un indigenismo non più militante ma culturale [12]: in questo movimento, e non prima, si può rintracciare la linea geofilosofica. Paradossalmente, i Siete ensayos rimandano l’uomo andino alla realtà storica di un’utopia, quella del felice stato collettivista inka; questo rimando però zittisce e invisibilizza le pieghe del diagramma — la «storia minuscola» (Foucault 1997a: 247) del gamonalismo subita dagli Uomini infami — per dichiarare la compatibilità tra il suo programma politico rivoluzionario e il presunto ripristino di un modello economico di cui l’autore possedeva una conoscenza idealizzata e non etnologica.
«Su exploración de la actualidad está al servicio de imaginar un futuro socialista. Mariátegui llega entonces al nacionalismo como resultado de su afirmación socialista. La nación sería una suerte de subproducto necesario de la lucha por el socialismo. Una lucha llamada a trascender los límites nacionales, pero cuya primera etapa es precisamente consolidar la nación». (Portocarrero 2015: 251)
Non ha senso criticare Mariátegui per aver fatto uso delle fonti e delle teorizzazioni disponibili ai suoi tempi, piuttosto si tratterebbe di ricordare che una riflessione geofilosofica è orientata verso il retroterra in cui concetti trascendentali come “nazione” vengono creati, privilegiando l’incontro e i modi innovativi di problematizzazione (cfr. Deleuze 2010: 112), prescindendo di conseguenza da qualsivoglia importanza della funzione-autore. Per Mariátegui non è concepibile un indigenismo che non restauri la grandezza perduta dell’indio: «lo antiguo puede ser lo nuevo» (Flores Galindo 1994: 251), dunque, gli sembra consistente aspettarsi che l’indio arrivi a esprimere la propria storia da una parte e aspettare dall’altra che sia un determinato diagramma a concederglielo. Dal punto di vista geofilosofico, questo equivale a rinunciare concettualmente a «inventing ways of existing, through optional rules, that can both resist power and elude knowledge, even if knowledge tries to penetrate them and power to appropriate them» (Deleuze 1995: 92). Il «miracle péruvien» (Montenegro Bralic 2016: 48) non è nel ritorno agli inka di Mariátegui ma nella ricerca di queste nuove invenzioni. Il punto di partenza è proprio il problema della lingua (e del suo fuori, la letteratura).
«La filosofia delle comunità europee colte non contempla la presenza delle lingue e delle tradizioni indigene, sia per la loro esiguità numerica, sia per gli scarsi esiti conoscitivi compiuti dalle stesse. Sebbene soltanto una minoranza sappia leggere e scrivere in castigliano, la sua incidenza nella moderna temperie culturale è determinante. La conoscenza del castigliano è il patrimonio decisionale dei ceti dirigenti e dei gruppi in ascesa». (Campa 2014: 486 e Campra 2013: 43-45)
Nella visione sintetica dei Siete ensayos il problema della lingua si diluisce nella scrittura di un “archivio nuovo”, il quale però implicherebbe comunque una configurazione diagrammatica di ciò che è visibile ed enunciabile a proposito dell’indio: nel caso dell’indigenismo militante, questa configurazione è la visione urbana stessa del mondo andino a cui comunque sfugge la dimensione delle vite degli indios come Uomini infami. Affinché il discorso di questo indigenismo regga, è necessario inventare una leggenda del Fuori — dell’antichità collettivista inka — che sostituisca la mancanza in quel discorso di un’esperienza del fuori, che solo un indigenismo culturale è stato successivamente in grado di ricostruire. Persino nell’ampiezza di margini del progetto politico di utopica restaurazione dell’autoctona nazionalità peruviana — concepito per comprendere le vite degli indios — risulta «impossibile poterle più cogliere in se stesse, come poterono essere allo stato libero; si possono trovare solo riprese nelle declarazioni, nelle parzialità tattiche, nelle menzogne imperative che presuppongono i giochi del potere e i rapporti con esso». (Foucault 1997a: 249)

A rassegnarsi alle menzogne imperative si è soprattutto nel caso in cui la storia scritta in spagnolo degli inka di cui si dispone non può confrontarsi con la tradizione orale quechua mantenuta da quelli che idealmente sarebbero gli attuali eredi degli inka. Il problema della lingua è il saggio mancante nei Siete ensayos: questa assenza anticipa il periodo di anonimità con cui svolgeranno il loro lavoro i collezionisti del folklore andino degli anni Trenta (cfr. Degregori 2012: 36), fra cui spicca la figura di J. M. Arguedas, madrelingua quechua e antropologo che concentrerà tutta la sua produzione sul trattamento del dato etnologico, riportando l’indio nella sua dimensione storicamente e socialmente (ma anche filosoficamente) più rilevante di “uomo infame”.
«La historia de la utopía andina es una historia conflictiva, similar al alma de Arguedas. Tan enrevesada y múltiple como la sociedad que la ha producido, resultado de un contrapunto entre la cultura popular y la cultura de las élites, la escritura y los relatos orales, las esperanzas y los temores. Se trata de esbozar la biografía de una idea, pero sobre todo de las pasiones y de las prácticas que le han acompañado. La utopía en los Andes alterna períodos álgidos, donde confluye con grandes movimientos de masas, seguidos por otros de postergación y olvido. No es una historia lineal. Por el contrario, se trata de varias historias: la imagen del inca y de [lo stato imperiale inka] depende de los grupos o clases que las elaboren». (Flores Galindo 1994: 21)
È Arguedas — la funzione creatrice — e non Mariátegui — la funzione-autore — il pensatore a cui dovrebbe indirizzarsi una ricerca di tipo geofilosofico. Da lui si otterrà un’immagine sicuramente meno gloriosa e quasi patetica dell’indio ma in essa il movimento di indio e terra di (de)/(ri)territorializzazione sarà completo, non nei termini di un’utopia nazionalistica ma nel racconto letterario stesso delle vicende che hanno avuto come protagonisti Uomini infami.
«Le comunità ancora isolate degli indios non conoscono del Perù altro che la bandiera. Non sanno neppure pronunciare il nome della patria; l’universo finisce per loro nei limiti del distretto; la maggior parte di essi non conoscevano né conoscono il nome della provincia, e meno che meno della regione. Ma “bandiera piruviana!”, questo sì lo sanno dire. E tentano di proteggersi con essa dalle incursioni dei proprietari terrieri, delle autorità politiche, della polizia. E la agitano quando si sentono felici... Gli indios non la cambieranno, non sappiamo fino a quando, e secondo quello che faranno essi stessi e chi li considera solo dei cavalli da tiro». (Arguedas: 300)


[1] Esempi di questa interpretazione generazionale (si direbbe “degenerativa”) del post-strutturalismo, molto diffusa nelle ricostruzioni storico-filosofiche si trovano in D’Agostini 2013, p. 88 e p. 137. Uno svantaggio di questa interpretazione è la mancanza di attenzione agli effettivi «margini reali» in cui ogni generazione è attiva: cfr. Barilli 1982, pp. 47-50.
[2] Sulla «discorsività eterologica» che si palesa nelle interviste dei filosofi, cfr. Pelgreffi, 2016.
[3] Cfr. le interviste dedicate a Foucault in Deleuze, 1995.
[4] Se ciò che è possibile equivale a ciò che è permesso a farsi, allora l’astratto non è più semplicemente il non-concreto ma il linguistico rispetto al suo complemento generato, il non-linguistico: archivio e diagramma non si trascendono a vicenda ma sono immanenti nell’enunciazione. In questo senso, il linguaggio non è semplice rappresentazione di stati di cose ma anche produzione di stati di cose. Cfr. su questo argomento L. Wittgenstein e l’analogia fra capire una parola e padroneggiare un calcolo: «Poter fare qualcosa riveste appunto quel carattere umbratile, ossia sembra un'ombra del fare effettivo, proprio come il senso della proposizione sembra l'ombra della sua verificazione; o come la comprensione del comando sembra l'ombra della sua esecuzione. Il comando proietta, per così dire, la sua ombra in avanti, o nel comando l'azione proietta la sua ombra in avanti. Ma quest'ombra, qualunque cosa sia, è quella che è, ma non è l'evento. E chiusa in se stessa e non mostra più di quanto non offra» (2002: 153).
[5] Per il concetto di “pastorato” si rimanda a (Bernini 2008). Una conoscenza scientifica della sessualità si distingue da una pratica artistica dell’erotismo, poiché la conoscenza scientifica apre spazi di equivalenza che sono interstiziali rispetto alle dimensioni del pubblico e del privato. Cfr. la posizione di M. Serres: «Le scienze si separano dalla politica; il loro terreno si distingue dallo spazio collettivo, il loro contratto differisce dal contratto sociale, il loro linguaggio non si dice e non si scrive come il discorso pubblico, e la storia delle loro verità si biforca. Quindi ogni scienza ha il suo processo di fronte al tiranno o al potere» (1991: 102).
[6] Approfondire il rapporto fra Nietzsche e la geofilosofia di Deleuze e Guattari non è fra gli scopi di questo scritto: (cfr. Ivi: 47, n. 4). Il riferimento a Nietzsche è anche presente in (Melis, 1995). In merito a ciò, si segnala tuttavia che la “centralità del nazionale” e la tensione fra “nazionalismo e internazionalismo” del pensiero di Mariátegui risulterebbero compatibili con le «rigide intolleranze tra nazioni ed etnie» (Orsucci, 2012: 5) che Nietzsche accusava nella visione moderna del “miracolo greco”.
[7] Il regime di servitù della gleba a cui era sottoposto il contadino delle comunità, ad opera dei proprietari terrieri, e che ebbe fine ufficiale soltanto nel 1969, è conosciuto con il nome di gamonalismo. (Cfr. Flores Galindo 1994: 240-244).
[8] Sconvolgimenti politici non furono assenti in questi anni. Un evento degno di nota, di cui l’eco fu seguito fra 1915 e 1917 da Mariátegui con interesse e un certo entusiasmo, fu la rivolta contadina organizzata da T. Gutiérrez Cueva, detto Rumi Maqui. (Cfr. Flores Galindo, 1994: 248-254).
[9] Cfr. Flores Galindo, 1994: 23-28. Per un’analisi esaustiva del contributo delle correnti millenaristiche nel processo politico e territoriale andino (cfr. Kapsoli 2011).
[10] M. Roda infatti segnala: «mentre fino alla seconda guerra mondiale gli studi incaici avevano dato molto credito e si erano basati soprattutto su cronisti tardi come Garcilaso de la Vega, Fernando Montesinos e Bernabé Cobo, in anni recenti c’è stata una decisa inversione di tendenza». (1994: 34).
[11] La svolta della seconda metà del Novecento (cfr. Foucault 1997a: 251) è stata appunto quella di espandere l’interesse storico per il mondo andino, grazie principalmente allo sviluppo dell’archeologia, al di là della caratterizzazione inka. «I limiti cronologici si sono molto allargati in entrambe le direzioni, collegando ed inserendo da un lato gli inca nella multiforme realtà delle culture pre-europee del continente, e dall’altro ridimensionando il momento di rottura con la tradizione, precedentemente attribuito alla invasione spagnola, a favore di una continuità storica che è presente ben addentro l’epoca coloniale ed anche oltre. Infine la monoliticità della costruzione statale inca ne è uscita per certi aspetti intaccata, mostrando, al di là della sua compattezza organizzativa, una enorme varietà di situazioni locali in rapporto molto complesso con il centro» (Roda 1994: 19).
[12] «El indigenismo es por entonces una idea a la defensiva, que se repliega hacia el pasado y hacia los márgenes de la vida nacional… Como movimiento, el indigenismo se refugia en ámbitos e instituciones que no desafían explícitamente al poder. Allí madura la antropología». (Degregori 2012: 35).



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Credit, Karel Appel, https://www.artribune.com/report/2016/01/mostra-cobra-fondazione-roma-museo/attachment/karel-appel-begging-children-1948-die-galerie-frankfurt-am-main-karel-appel-foundation-by-siae-2015-per-karel-appel/
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